Fantasy. Tutto parte da qui. Una parola che racchiude in sé molti significati e altrettanti valori. Per chi lo legge e basta è un tuffo nella fantasia, nel meraviglioso, nell’altro. E’ staccare la spina qualche ora al giorno e lasciarsi trasportare dalla penna di un autore capace di questa meravigliosa qualità: condurre lontano il lettore. Dove non importa, basta che sia lontano.

Ci vuole un seme…

Fantasy, e le sue origini. Un genere che per troppo tempo non è stato nostro, non è stato italiano. Un genere che discende da tradizioni a noi forse lontane (anche se c’è chi non esista ad attribuire a Omero, con non poco coraggio e altrettanta non poca incomprensione della tradizione classica, la paternità di questo genere). Un genere che ha scoperto la sua identità, le sue caratteristiche peculiari (che ora potremmo definire cliché), per mezzo di autori che hanno fatto storia, da J.R.R. Tolkien ai pionieri d’America della letteratura fantastica degli anni trenta: Andre Norton, C. L. Moore, Henry Kuttner, Poul Anderson, ecc. Un genere che per quasi un secolo non ci è appartenuto, e si è formato sulle esigenze e sul modo di pensare di altri popoli.

Fantasy italiano, ora. Zoppica, arranca, e sul finire degli anni ‘60, nel Bel Paese, terra di poeti e naviganti, è un esserino senza forma, solo, orfano. Senza arte né parte. E’ un genere per pochi. Non è capito, non è apprezzato. Una fuga inutile dalla verità che ci circonda, dicono i letterati colti (e lo dicono ancora). Un luogo in cui si rifugiano coloro che non vogliono affrontare la realtà in ogni sua molteplice sfaccettatura. Un modo di scrivere per chi non sa scrivere, affermano infine certi critici. E’ più o meno questa la situazione in cui si trovarono a lavorare i pionieri del fantastico nostrano. Non certo un clima idilliaco per far attecchire un genere che a casa nostra non era apprezzato, non era ritenuto all’altezza di ciò che qui veniva scritto e che, soprattutto, non si legava alle nostre tradizioni.

Fantasy. Sinonimo in Italia di una lenta agonia, l’agonia di un genere che

non ne vuole sapere di creare una propria tradizione. Mentre gli anni passano, e scorrono lenti i ’70, gli ’80 e i ’90, in Italia si affermano autori stranieri e iniziano a far parlare di questo genere che passa sempre più velocemente da una forma di arte curiosa, a un vero e proprio mercato in cui è facile fare successo. Un business che ha tuttavia escluso per più di tre decenni gli autori di casa nostra. Mentre in Italia si facevano un nome: Marion Zimmer Bradley, Terry Brooks, Harry Turtledove, Michael Moorcock, Terry Pratchett, George R. R. Martin, fino al boom senza confini di J. K. Rowling, gli autori italiani (c’è addirittura chi si domanda se all’epoca esistessero o meno!) scrivevano nell’anonimato, inviavano agli editori, e nell’anonimato restavano. In questa desolante panoramica, se vogliamo seguire la metafora botanica d’apertura, più che un orticello l’ambiente fantasy nostrano era un desolato e desolante deserto dove spuntava solo qualche raro cactus spinoso. Immagine poco felice, ma questo era il panorama, senza giri di parole, davvero poco felice.

Fantasy. Sì, ma un fantasy straniero, come se gli italiani non avessero mai avuto “fantasy” da esprimere in nessun modo, o non ne fossero stati capaci. Per certi versi, se ci si sofferma un istante a pensare un po’ di più alla cosa, penetrandone la superficie, si può (e si deve) rimanere amareggiati per le centinaia e centinaia di universi, mondi e terre che sono andati perduti in quei trent’anni di irragionevole chiusura. Non ci verranno più restituiti. Eppur si muove, potrebbe dire qualcuno, e così fu sul finire degli anni ’90. I primi nomi del fantasy italiano facevano breccia presso alcuni editori. Timidi, con tirature che in certi casi facevano persino tenerezza. Pochi nomi, ancora troppo poco per dare dignità a un genere che meritava (e merita)  lo stesso rispetto degli altri: chi ha detto che partendo da un contesto fantasy non si possano comporre grandi opere di narrativa? 

Solo accenni di primavera, nell’orticello Italiano

Fantasy, dunque. Finalmente italiano. Eppure, quando sembrava essere oramai fatta, dopo la breccia nell’impenetrabile muro degli editori, immaginando i tepori di una vera primavera italiana, ecco nuovi intoppi. Il genere, così come nasce in Italia, latita dagli scaffali degli appassionati di sempre. Chi compera Bradley, Brooks, Moorcock, Martin e Rowling non acquista italiano. E’ una piccola disfatta. Per qualche anno il genere si cristallizza attorno a pochi esponenti principali che non sanno bene come muoversi, gigioneggiando a volte – troppo spesso (e anche questa è una mancanza non da poco) – il maestro Tolkien, variando troppo poco su di un tema dalle illimitate potenzialità. L’entroterra fantasy nostrano si ritira. Poi, l’aiuto inaspettato (ovviamente dall’estero). E questa volta dalla cinematografia, che si accorge del potenziale di questa forma di narrativa. Una letteratura per famiglie, dai grandi messaggi, spettacolare se gestita come si deve, capace di attrarre masse di spettatori. E’ il tempo della Trilogia del Signore degli Anelli, dei film sul maghetto più letto di tutti i tempi, Harry Potter, di lavori tornati in auge grazie a questo fenomeno, come le Cronache di Narnia: è insomma il presente che viviamo tutt’oggi. Sembra fatta.

Fantasy e nuove espressioni di questo genere. Arrivano in libreria nuovi autori italiani, ritornano le vecchie glorie, appare un nuovo fenomeno che è quello – piaccia o no – del Baby Boom di cui si è iniziato a parlare proprio qui, su FantasyMagazine, spopolando su vari siti e blog. L’orticello cresce, si differenzia, cambia. Eppure siamo lontani anni luce dalla varietà e dalle possibilità d’espressione che questo genere permette.  Non solo. Oltre il 60% delle opere in libreria, opere italiane, ricalcano spudoratamente le idee di quel padre fondatore del fantasy che fu Tolkien. Un cordone ombelicale impossibile da recidere, a quanto sembra. “Il nuovo Tolkien”, è una frase che si sente spesso quando esce un nuovo autore, ma che a nostro avviso lo penalizza in partenza, per via di un ovvio e insostenibile confronto. Ci sono più nomi, oggi, nel fantasy italiano, vero. Ci sono più personalità, altrettanto vero. Cosa manca? Forse, e dicimo solo forse, manca originalità. Manca la versatilità d’oltreoceano. Manca anche la disponibilità degli autori famosi di rimettersi in gioco. Una differenza sostanziale col fantasy statunitense, sotto gli occhi di tutti, è proprio questa: là dove ci sono i grandi nomi, c’è anche un fervente retroterra stimolato dai grandi del fantasy (scrittori che sanno agire anche come editor, curatori e scopritori di nuovi talenti) che per mezzo di antologie, concorsi e premi patrocinati da veri e propri Signori e Signore del fantasy, mantengono vivo l’ambiente in cui operano. In Italia questo non è ancora possibile.

Fantasy come chiusura, in Italia. Altro sinonimo che calza a pennello. Nell’orticello di casa nostra i grandi e pochi “baobab” gettano un’ombra scura su quel sottobosco carico di potenzialità. L’effetto è uno solo: asfissiante. Non c’è possibilità di scambio, di crescita, di innovazione. Una spinta che manca e che dovrebbe arrivare dai capifila, come storia e arte insegnano, ma che qui da noi lascia davvero molto a desiderare. Uno scenario curioso quello del fantasy italiano, fra opulente piante solitarie, gramigna cattiva e frutti che sarebbe meglio non cogliere, uno scenario pieno di luci e di altrettante ombre.

Parassiti

E se è vero che dove la luce si fa più intensa, l’ombra diventa più fitta, è

altrettanto vero che in un orticello non possono mancare i parassiti e le piante infestanti. Nel fantasy italiano e nell’editoria in genere si trovano anche questi. Difficile sfuggirne: anche perché sono la maggioranza. Categoria ben note all’autore esordiente e riassumibili in poche parole: concorsi, fantasy e non, gestiti da case editrici di dubbio valore e dubbia professionalità, esordienti che si affidano a edizioni di malaffare, a pagamento, capaci per mezzo di contratti-truffa di svilire fino a punti estremi il sogno di una vita… Ma anche il rovescio della medaglia: con pubblicazioni spudorate, nate a tavolino e presentate come capolavori assoluti di un genere che rischia, sempre più, di divenire un puro mercato d’inchiostro e fogli più o meno candidi. Senza contare i “sempre e per sempre critici”, sterili “difensori” del vero fantasy, fino agli imbonitori altrettanto superficiali e a chi afferma che per scrivere sia necessario il solo e innato talento, e non un’accurata documentazione intervallata all’umiltà del sapersi criticare quando necessario. Anche questo è fantasy.

Da orto a giardino

Fantasy italiano, insomma. Un percorso non facile, lungo, più lungo che altrove. Un fenomeno che nell’ultimo anno è esploso, e non entriamo nel merito del suo valore in questo articolo, valore che va esaminato caso per caso, ma basti a tutti confrontare questi due articoli, scritti a distanza di (solo) un anno, non pare vero:

http://www.fantasymagazine.it/notizie/7843/

http://www.fantasymagazine.it/notizie/9089/

Gli autori italiani, in un anno, sono duplicati e la tendenza rimane tutt’ora questa, nel bene e nel male. Un genere che fa grandi passi verso la ricerca di una propria completezza, passi sicuri, ma anche passi falsi, azzardati a volte, e che cerca di entrare nella maturità della propria esistenza. A che prezzo, però, non sappiamo ancora preconizzarlo. Manca ancora qualcosa a casa nostra. Manca ancora troppo? Difficile a dirsi.

Basterebbe, forse, un po’ più di coraggio – da parte di scrittori, editori e lettori – e l’orticello potrebbe diventare un giardino.