L'idea del carillon per il nipotino gli era venuta camminando nella nebbia.

Il bambino e la musica erano così uniti, nel vecchio cuore di Pal, che gli era parso strano non averci pensato prima.

Sapeva anche quale musica usare.

Da una manciata di notti non prendeva sonno. Si rigirava sul fianco, rotolava sul ventre e poi si sdraiava a guardare il soffitto. La dissonante melodia che lo tormentava non arrivava da fuori, ma gli cresceva nel petto spontanea come la marea al tramonto.

Oltre i vetri, la luna rendeva Bergen una città di folletti, con le case dai tetti a punta che si specchiavano sghembe sul mare piatto. Le finestre parevano occhi e le porte erano bocche serrate su un grido muto.

Il vecchio giocattolaio era stanco. Sentiva la pelle sotto gli occhi tirare come pergamena usurata. Immaginava le occhiaie scendere fino agli zigomi e sciogliersi sulle guance nell'icona perfetta della fatica.

Ammucchiati sugli scaffali, i giocattoli lo fissavano impietosi. Orsi intagliati nel cui ventre si aprivano cassetti per orecchini, anelli e piccole gioie. Cavallucci. Bambole. Soprattutto bambole. Tutte con lo stesso viso e gli occhi sgranati nel buio.

Di solito davano conforto, ma da qualche notte a quella parte lo mandavano ai matti. Insieme a quella musica tremenda che gli infestava le orecchie.

Tutto era cominciato una sera, mentre andava alla taverna di Sigurd. Se lo ricordava bene.

– Miseriaccia – borbottò Pal. La nebbia strisciava fino alle ginocchia, coprendo i giardini come un sudario. Si massaggiò le spalle scacciando il freddo umido. Intorno, gli alberi protendevano i rami, quasi in cerca di aiuto. 

-  Ah, vecchio Pal, stai davvero perdendo la testa.

Per farsi coraggio, intonò la vecchia canzone piena di parole sporche che sentiva da sua madre quando era bambino. Lui puliva le scarpe dal fango e lei in cucina lavava i piatti dandogli le spalle, spostando il peso da una gamba all'altra e seguendo il ritmo.

Gli metteva allegria.

Cantò, insistendo con piacere sui toni frizzanti, sulle tette e gli innamorati libertini. Scacciava i cattivi presagi.

Però, cosa inaudita prima, la nebbia si mise a cantare con lui, prima come un’eco, poi in controcanto sottile, riprendendo le note più alte e allungandole in lamenti.

La ballata gli morì in gola.

La nebbia continuò con un coro di voci sovrapposte, deformando le parole, ansimando fra una e l’altra, fino a quando Pal non riconobbe più le strofe che avevano riempito la cucina della sua infanzia.

Una voce rovesciò un rantolo proprio dentro la conchiglia del suo orecchio.

Boccheggiò, sentì le viscere contrarsi in una stretta che gli tolse il respiro e gli occhi premere sull'orlo delle orbite. La canzone di sua madre era ridotta a un'accozzaglia dissonante che riecheggiava tra gli alberi.

Mise un piede in fallo e picchiò la fronte contro un ramo. La corteccia gli aprì un'abrasione dolorosa e gli strappò un singulto che lo riscosse. Si mise a gridare con tutta la forza dell'addome teso, squarciando quella musica sinistra, e se la diede a gambe verso le case. Si fermò solo quando il portone della taverna fu sulla sua strada e lui ci si schiantò, la guancia sul legno gelato.

– Sigurd! – pianse e batté i pugni per farsi aprire. Una pinta di idromele era tutto quello che voleva.

Non si era più liberato della musica della nebbia.

Tuonava nelle orecchie, vibrava sul palato e s'impadroniva perfino delle dita: si sorprendeva a tamburellarla sul tavolo da lavoro.

E poi c'era quell'idea del carillon che gli divorava l'anima. Si era fatta strada in lui con tanta insistenza da fargli pensare che non fosse proprio farina del suo sacco, ma che fosse stata suggerita da qualcun altro. Qualcuno con una roca voce di bruma.

Nemmeno il lavoro lo distraeva. All'alba si era messo davanti alla finestra per finire la bambola commissionata dalla signora Kari. Aveva aperto le imposte, per richiamare l'aria tersa e perché i rumori della città gli tenessero compagnia.

Non si accorse di muovere le labbra, canticchiando tra sé senza emettere suono.

E nemmeno di levigare nel legno un volto familiare, uguale in tutto a quello di ogni altra bambola nella bottega. Quando ci fu da dipingere, preparò l'azzurro e lo stese in due grandi iridi tristi.

La melodia sinistra gli uscì dalle labbra come uno sbuffo d'acqua da un fontanile, riscuotendolo.

Abbassò lo sguardo al volto di legno. E la consapevolezza lo invase.

– Oh, Rune – sussurrò. Appoggiò gli strumenti e si stropicciò la faccia.

– Allora? – la signora Kari si affacciò alla finestra. – Finita, questa bambola?

– Quasi.

– Hai due occhiaie che ti arrivano al naso – si preoccupò lei, appoggiando del succo di more sul davanzale. – Dormi?

– Poco.

Armeggiò con la pialla e i pennelli ancora ruvidi d'acquaragia. Vagliò gli ingranaggi con cui infondeva la vita nei giocattoli meccanici.

– Davvero tua figlia vuole una di queste, Kari? Con tutte le cose moderne di oggi...

La sua bottega era lì da generazioni. Non aveva mai fatto affari d'oro, ma ormai nessun bambino voleva pupattole a molla più di quanto desiderasse un calcio negli stinchi. A Pal non importava: suo figlio curava da Bergen alcuni affari politici di Oslo e i soldi non mancavano.

La donna rise.

– Se ti confessassi che la vorrei per me?

Lui sorrise.

– Per la prossima settimana?

– Sarebbe splendido. Ah... – La signora Kari aveva lo sguardo appannato di chi sta per dire una cosa spiacevole. – Non fare anche questa con il suo viso. Per favore.

Pal rabbrividì, osservando i volti di legno sullo scaffale. Maschi o femmine, i bambolotti meccanici avevano tutti il faccino di Rune. Chi era stato, una volta, a dirgli che le bambole potevano imprigionare le anime? Non ricordava.

– Ti prego, Pal. È già abbastanza penoso, quello che gli è successo.

Nel pomeriggio tornò alla taverna. Costeggiò il mare e s'infilò nel vicolo davanti al pontile. Da quando era rimasto nella nebbia, girava al largo dai giardini.

– Sigurd – si piegò ancora una volta sul bancone – tu mi credi?

– Sicuro che ti credo. Di questi tempi non se ne parla, ma sono cose che esistono.

– Cosa pensi che io abbia sentito?

Sigurd asciugò i bicchieri e non esitò: – I morti, Pal. Vengono con la nebbia o salgono dall'acqua. Non te l'ha mai detto, tua madre?

Pal scosse la testa.

– Mia madre cantava.

– Ah, quella femmina!

– Però conosco le storie. Chi non le conosce?

 – Nel pallore latteo della bruma, i morti arrivano cantando. O suonando musiche incantate col violino, per adescare uomini e bambini. Così, li annegano – recitò il taverniere.

– Sigurd! – si arrabbiò la signora Kari, seduta con un'amica al bancone. Prendeva un tè al ribes e poco lontano suo marito ingurgitava birra al doppio malto. – Perché non taci, una buona volta?

– Cosa dovrei tacere, donna? – Sigurd batté il pugno sul tavolo, facendo fremere la barba. – Pal sa meglio di me perché la nebbia lo perseguita. Ha preso suo nipote! E quando afferra un bambino, torna sempre a prendere anche chi lo ha amato.

– Sigurd! – strillò Kari.

Pal si strinse nelle vecchie spalle. Sapeva che quelle fiabe le facevano paura. La triste morte di Rune aveva impressionato tutti, lì a Bergen.

Il corpicino non era mai stato trovato. Nelle casette a punta, tutti i vecchi concordavano che l'avessero portato via gli spiriti, con le loro musiche e le loro fumisterie.

– Dimmi quanto ti devo, Sigurd – disse – devo tornare a lavorare.

La nebbia risaliva con un suono esile. Oltre gli alberi, i lampioni si riflettevano sul mare tracciando una strada luminosa fino al pontile. Suo nipote era morto lì.

– Rune? – chiamò il vecchio Pal. Si strinse al petto la bambola appena finita, le guance ancora fresche di pittura. – Rune, il nonno è qui. Ti porta a casa.

Il suono divenne un canto. Non aveva l'allegria della ballata di sua madre, ma riconobbe le parole nel giro sgangherato di note.

– Non fare aspettare il nonno Pal. 

Tremò. Stava facendo qualcosa che solo a pensarla gli dava i brividi.

La musica si alzò in una cacofonia lugubre. Chissà se risuonava tra gli scheletri degli alberi o solo tra le sue tempie?

Qualche attimo ancora. No, adesso sarebbe scappato. Sentì le gambe darsi alla fuga e le assecondò. Insieme ai suoi passi, però, ne risuonarono altri: piccoli, mesti, squassati d'acqua.

Pal si girò verso il pontile.

Rune era lì, fradicio di nebbia e di mare, coi capelli incollati alle guance rotonde e le iridi azzurre e tristi. Aprì la bocca e il suono si intensificò: lo stridere di un uccello notturno, un grido di morte, un gesso che graffia la lavagna.

Ma il vecchio Pal sentì: – nonno?

– Sono qui, Rune. Ecco, vieni.

Tese la bambola verso di lui.

Aveva pensato di completare l'opera montando nel busto di legno il marchingegno del suono, quel cilindro metallico con le note in rilievo che girando fa tinnire la musica.

Così da trasformare la bambola Rune nel più raffinato dei carillon.

Alla fine, però, aveva lasciato l'incavo vuoto, lì, in corrispondenza del cuore, perché le bambole trattenevano gli spiriti sperduti.

– Vieni?

Rune corse da lui.

Il corpo del vecchio Pal non venne mai ritrovato.

La bambola sì, caduta sull'erba dei giardini, a pochi passi dal mare: era un carillon dal meccanismo così perfetto che funzionava ancora, nonostante il fango e l'umidore della nebbia.

Di tanto in tanto, seduta sul bancone della taverna, suonava da sola. Mandava una melodia sinistra, un giro di note arrugginite.

Sigurd giurava e spergiurava che, quando succedeva, bastava guardare dalla finestra per vedere un vecchio e un bambino camminare sul pontile, mano nella mano.