Raggomitolato sotto la quercia, il Grande Verme era lì che se la dormiva beato, e il ronfare profondo faceva prevedere che non si sarebbe svegliato tanto presto. Così mi armai di buona volontà e raccattai la prima foglia d’autunno che inquinava il mio bel prato. E mentre la studiavo con aria schifata, mi venne l’idea risolutrice. Guardai la stupida foglia e poi il buco presso il tronco. E poi ancora la foglia. Sì, perché no? Geniale! Sarebbe stato meno faticoso liberare il prato, questa volta. Mi avvicinai alla provvidenziale apertura e, con un perfido sorriso sbilenco, vi lasciai cadere dentro la traditrice. Lei planò lieve, si scontrò un paio di volte con le irregolarità della parete di terra, ma poi riprese a scendere. Rimasi a osservarne le evoluzioni e attesi che scomparisse nel buio del cunicolo. Subito dopo feci una corsa fino alla legnaia, mi armai di ramazza e tornai trafelato alla quercia. In tempo. La seconda non si era ancora staccata. Scrutai tra le fronde con occhio indagatore e fui certo d’averla individuata. L’avanzata mutazione cromatica non lasciava dubbi: sarebbe stata lei la seconda. Le indirizzai un ghigno di sfida, mi caricai sulla spalla la ramazza, reggendola con le due mani, e mi posi in attesa. Avevo visto giusto e non dovetti attendere a lungo: la foglia individuata fu la seconda a cadere, e la mia fedele ramazza fu lesta a spazzarla verso l’imbocco del buco. E poi, come temuto, ce ne fu una terza, e una quarta, e poi cominciarono a cadere a gruppi, le fedifraghe, planando sul prato come orribili sciami d’anime. Non mi persi di coraggio, e lavorai freneticamente per almeno un’ora, poi il Grande Verme si svegliò. Contorse gli anelli del corpo in un movimento sinuoso che mi ricordò l’andatura ondeggiante dei draghi di cartapesta, di quelli usati dai cinesi nelle processioni festaiole; doveva trattarsi, per l’invertebrato, dell’equivalente di una stiracchiata. Colto da un poco spiegabile senso di colpa, nascosi la ramazza dietro la schiena. Ma poi ci ripensai e la gettai lontano.

- Oh, rieccoci! – esclamò il Grande Verme, strizzando le due capocchie di spillo. Sbadigliò con soddisfazione. – Allora, caro amico, dove eravamo rimasti?

- Eh? Ah, sì… La Terra Cava… Verne, Hitler… – balbettai, cercando disperatamente di ridarmi un contegno.

- Venga, venga a sedersi qui sull’erba.

Eseguii, piuttosto imbambolato, cercando con la coda dell’occhio la ramazza: speravo di averla lanciata abbastanza lontano da nasconderla alla vista del Grande Verme.

- Allora, vediamo… – cominciò non appena mi fui seduto. – Ecco, sì. Lord Edward George Bulwer Lytton. Diceva di non averne sentito parlare.

- Già.

- In effetti, il libro nel quale tratta della questione, The Coming Race, è ormai praticamente introvabile.

Non riuscii a trattenere una replica ironica: – Ma voi, là sotto, ne conservate una copia, naturalmente. Sbaglio?

- No, non sbaglia – rispose serio il vermone, con quella sua cadenza aristocratica, tanto gentile da risultare fastidiosa. – E lei è fortunato: provvederò a colmare la sua lacuna. Questo Lytton era personaggio davvero singolare, assiduo frequentatore di associazioni esoteriche ed egli stesso appassionato occultista. Tant’è che il libro, che come dicevo prima pretende di descrivere la vita degli abitanti della Terra Cava, risulta un miscuglio di occultismo e descrizioni fantascientifiche.

- Una mistificazione, dunque.

- Sicuro. Tanto che lo stesso Lytton ammise che le rivelazioni in esso contenute dovevano considerarsi solo frutto di fantasia.

- Ah, be’! Ma allora?

- Allora, niente. E qui sta il mistero. Perché sembra che, nonostante la confessione del suo autore, The Coming Race fosse riuscito comunque a influenzare Adolf Hitler, il quale prese in seria considerazione la possibile esistenza dei Vril-ya, questi superumani abitanti delle profondità descritti da Lytton, e reputò che l’argomento meritasse un approfondimento. Così, prima fondò la cosiddetta “Società dei Vril”, chiamata altrimenti anche “Loggia Luminosa”, e più tardi, nel 1936, ordinò la formazione di un gruppo scelto per l’esplorazione dei cunicoli naturali. Gunter Rosemberg, che si fece una certa fama come studioso d’occultismo, in Astrology and Psychological Malfare Durig World War II sostiene che Hitler temeva un attacco dei Vril-ya, e intendeva prepararsi per tempo a una simile eventualità: sperava, grazie a quelle esplorazioni, d’individuare uno dei passaggi che conducono ai territori interni.

- E quale fu l’esito delle esplorazioni?

- Bah, che io sappia non esistono riscontri. Ma da parte di qualcuno s’è anche sostenuto che fu a causa di queste convinzioni che il Terzo Reich s’impegnò nella creazione di una razza selezionata, idonea a fronteggiare un possibile attacco del superpopolo sotterraneo.

Dovetti confessare a me stesso che, per evidenziare una mia lacuna, il lombrico presuntuoso aveva scelto un argomento particolarmente interessante. Provai a stuzzicarlo, per strappargli altri particolari: – Ipotesi piuttosto estrema, mi sembra.

- Lascio a lei il giudizio. Che il Fürer, però, nutrisse fortissimo interesse per le questioni esoteriche è cosa nota. E’ accertato, per esempio, che dedicò tempo e attenzione allo studio delle filosofie orientali, concentrandosi in modo particolare sulle dottrine proposte dal tantrismo. Consideri, fra l’altro, che le dicerie intorno all’Agartha e al Rigden-Jyepo, il Re del Mondo, non gli erano sconosciute. E pertanto faccia i dovuti collegamenti e si accorgerà che l’ipotesi è meno estrema di quel che possa sembrare.

E questo fu tutto quanto esternò sulla questione, frustrando la mia curiosità.

- Interessante. Questa mi mancava – gli dissi, e vi assicuro che, in quel frangente, la mia riconoscenza era genuina. Tanto che avrei aggiunto anche un ringraziamento se a distrarmi non fosse intervenuta la “stranezza”. Si trattò di una specie di fugace visione: sorpresi, con la coda dell’occhio, qualcosa o qualcuno che aveva fatto capolino dall’orlo della buca. Una macchia bianca fra l’erba e il marrone della terra, forse una testa canuta. O così mi parve, perché fu davvero questione di un attimo. Mi voltai per sbirciare meglio e mi sollevai un pochino sui gomiti, ma tutto quello che riuscii a vedere furono i contorni del buco.

- Cosa c’è? – mi chiese il Grande Verme.

- Niente, niente. Mi era sembrato… Dicevo, interessante quello che mi ha appena detto.

- Bene, felice di esserle stato utile. Ma, chiusa questa parentesi, adesso tocca di nuovo a lei: non aveva completato la sua esposizione.

Di nuovo. Ancora quel tono inquisitorio che mi faceva sentire come uno scolaretto al suo primo giorno di scuola. Ma ormai cominciavo ad abituarmi alla sua prosopopea.

- Vuole che le parli del diario di Byrd?

- Be’, personalmente sono portato a considerare i viaggi del Contrammiraglio Richard Evelyn Byrd una sorta di punta dell’iceberg. – Dalla sottile apertura che gli faceva da bocca sibilò una specie di risolino schizofrenico. – Capìta la battuta? Punta dell’iceberg… Polo Nord… Sono davvero un sottile umorista, eh?

- E già, davvero sottile! – E nel frattempo pensavo: ma tu guarda che imbecille! – Credo di aver capito. Intende riferirsi a quelli che, prima di Byrd, non si limitarono a formulare teorie bislacche, ma decisero di mettersi in gioco di persona e d’avventurarsi in esplorazioni di ricerca.

Ci mise un po’ a rispondere, perché stava ancora gongolando in celebrazione della propria arguzia. – Appunto. Lei sa bene che, da un punto di vista strettamente teorico, ci furono altri studiosi che provarono a dimostrare la fondatezza delle ipotesi che Symmes aveva proposto in Theory of Concentric Spheres.

Forse il presuntuoso pensava di cogliermi ancora una volta impreparato, ma se così era questa volta s’illudeva. Sviscerai il mio sapere quasi senza riprendere fiato: – Sì, è vero. Ai primi del novecento, William Reed diede alle stampe The Phantom of the Poles. Reed, traendo conclusioni dai rapporti degli esploratori artici, perveniva alla conclusione che in realtà i “Poli solidi” non esistono e che al loro posto ci sono due grandi aperture; a suo dire gli esploratori che assicuravano di averli raggiunti, i fantomatici Poli, erano stati tratti in inganno dall’anomalo comportamento delle bussole, che a una certa distanza dalle mete prefissate non funzionano più bene; e scriveva anche di territori in cui il ghiaccio cedeva di nuovo il posto a flora e fauna, e della possibilità che in quei luoghi inesplorati abitassero popolazioni sconosciute. E qualche anno più tardi lo statunitense Marshall Gardner rincarerà la dose, ipotizzando un sole centrale all’interno della Terra e dando una personale spiegazione delle aurore boreali: sarebbero i raggi di quel sole a riflettersi nel cielo, passando attraverso l’apertura polare. Gardner sostenne, oltretutto, che il centro di gravità terrestre non doveva essere individuato nel nucleo, che è vuoto, ma all’interno della parte solida.

L’invertebrato distorse la fessura che gli faceva da bocca in una specie di sorriso ambiguo. – Il che comporterebbe l’esistenza di più centri di gravità.

- Proprio così. Spiegava il tutto con l’esempio di un vascello che, navigando sulle acque che scorrono all’interno del presunto buco artico, si troverebbe a procedere capovolto all’interno della Terra. Ricordo che la lettura di questa teoria mi aveva spinto a considerare come lo stesso espediente fisico fosse stato utilizzato da molti scrittori di fantascienza, per giustificare un sistema gravitazionale all’interno delle loro immaginarie navicelle spaziali. In particolare, l’esempio del vascello mi aveva riportato alla mente un romanzo piuttosto famoso di Arthur Clark, Rendez-Vous with Rama.

- Bene – disse lui, piuttosto brusco. – E qui siamo ancora alla teoria. Adesso occupiamoci dei tentativi d’esplorazione.

- D’accordo. Le dico quello che ricordo. Il primo tentativo interessante mi sembra possa considerarsi quello di Pierre Louis Moreau de Maupertuis che, dopo aver illustrato le sue teorie in Discours sur les differentes figures des astres, organizzò, nella prima metà del ‘700, prima una spedizione in Perù e poi un’altra al Circolo Polare Artico, fornendo al ritorno una sorta di prova sperimentale dell’appiattimento dei poli. In accordo con gli assunti di Halley e con il punto di vista del grande matematico Leonhard Eulero, con il quale aveva iniziato una proficua collaborazione, giunse alla conclusione che se si parte dall’assunto che la Terra è cava, essa non potrà risultare totalmente sferica, poiché le aperture ai poli in qualche modo la sezionano eliminando parte della sua rotondità. Moreau de Maupertuis sopportò stoicamente le polemiche e gli attacchi ai suoi studi e finì per diventare Presidente dell’Accademia delle Scienze di Berlino, alla corte di Federico II.

- E di Nansen cosa mi dice? Ne sa qualcosa? – chiese l’antipatico, e subito dopo si rimise a brucare l’erbetta sbavando umori appiccicosi.

Cercai di superare il disgusto. – Abbastanza. Era un esploratore. Finlandese, se non erro.

- Norvegese – precisò il lombricone, fra i barbagli del pasto.

- Norvegese, d’accordo. In ogni caso, fu uomo di Stato e Premio Nobel per la Pace, ma fu soprattutto un grande esploratore, e le spedizioni da lui organizzate possono considerarsi le prime accompagnate da un certo rigore scientifico. Nel suo libro, Fram over Polhavet: Den Norske Polarfærd 1893-1896, ci racconta della sua missione al Polo Artico in compagnia dell’amico Johansen. Partiti, nel 1893, dal villaggio siberiano di Khabarova, tentarono di arrivare al Polo Nord sperimentando un metodo bizzarro e pericoloso: fecero incagliare volontariamente la Fram, la nave di Nansen, nella banchisa, e lasciarono semplicemente che i ghiacci, assecondando le correnti, la spingessero avanti. Il viaggio durò anni, naturalmente, condizionato dal comportamento capriccioso di ghiacci e correnti. E tuttavia i due esploratori riuscirono a raggiungere gli 82° nord, prima che la banchisa imprigionasse definitivamente la Fram. Nansen e Johansen, però, non si accontentarono e decisero di proseguire, utilizzando sci e slitte trainate da cani. I due finirono per arrivare a circa 400 chilometri dal Polo geometrico. Un record. Ma ecco le sorprese: Nansen racconta che la bussola aveva smesso di funzionare e che la temperatura, con l’avanzare, diveniva gradualmente più calda; parla anche del rinvenimento di tracce animali, presumibilmente orme di volpi. I due esploratori non raggiunsero mai il Polo, perché a un certo punto, incomprensibilmente, presero l’improvvisa decisione di tornare indietro. Sui motivi del dietrofront Nansen non diede mai spiegazioni chiare, ma qualche maldicente insinuò che la suggestione esercitata dalle leggende vichinghe aveva finito per sgretolare il coraggio dei due pionieri.

Il Grande Verme smise di brucare e sembrò riflettere sulla lezioncina che lo scolaretto aveva appena recitato. – Non male – disse alla fine. – La sua esposizione testimonia di un genuino sforzo d’approfondimento. Pure con i limiti che la sintesi comporta, naturalmente.

Ma vi rendete conto? Riuscite a capire quale incredibile scorta di boria si portava dentro quella salsiccia bavosa? Eppure, punto nell’orgoglio, non seppi far altro che continuare a sfoggiare la mia preparazione.

- Guardi che so anche di altri esploratori polari che, al ritorno dalle spedizioni, raccontarono di scoperte strabilianti. E tutte, in qualche modo, collegabili alle teorie sulla Terra Cava. Ho letto di Robert Peary, per esempio, primo uomo a raggiungere a piedi il Polo Nord, e del dottor Frederick Cook, che a sua volta rivendicò il primato.

- Deve convenire che avevo ragione: prima di Byrd e del suo diario c’è dell’altro – dichiarò l’invertebrato, per nulla impressionato dalla mia sapienza. – Come le dicevo, le spedizioni del Contrammiraglio costituirono solo… la punta dell’iceberg… La mia salace battuta! Ricorda? – Mi deliziò ancora di quella sua risatina schizofrenica.

Mi sforzai di vocalizzare un risolino di circostanza, ma venne fuori soltanto un verso lamentoso. E, subito dopo, un altro verso strepitante mi ferì l’udito. Proveniva da dietro il tronco della quercia, dalla parte dove si apriva la buca. E mi suonò minaccioso.

- Ehilà! Abbiamo visite – annunciava nel frattempo il Grande Verme, sollevando testa e un paio di anelli organici.

Così, finalmente, la vidi anch’io. E capii che la visione fugace che poco prima mi aveva turbato non era stata frutto di un’allucinazione. La scimmia era di piccole dimensioni, sul genere bertuccia, e ricoperta di pelo lungo, candido come la neve appena caduta. Si avvicinava con una smorfia d’ira stampata sulla faccia rugosa color carne, trascinandosi dietro un sacco di tela grezza piuttosto voluminoso. Ero ancora seduto sull’erba, cosicché quando il primate mi fu davanti ci fronteggiammo alla stessa altezza, e lui mi stordì con un altro di quei versacci spacca timpani. Poi, con atteggiamento di sfida, afferrò il sacco e me lo svuotò sulle gambe, lasciandomi impietrito.

Mentre le capocchie di spillo del Grande Verme mi raggiungevano con uno sguardo severo, di rimprovero, le spietate foglie d’autunno, aiutate da una brezza leggera, dal mucchio che mi ricopriva le gambe volarono via a riconquistarsi il prato.

(continua)