Il regno di Dahomey ha da diversi anni stretto una fragile pace con il vicino Impero Oyo. Il nuovo giovane re Ghezo dopo aver cacciato il padre e aver preso il potere non ha però più intenzione di sottomettersi, anche perché il suo popolo, nonostante l’alleanza viene costantemente minacciato. Chiunque venga fatto prigioniero è venduto agli schiavisti bianchi che per questo prosperano attraverso i dissidi tra i due regni. Ghezo è deciso a chiudere la partita grazie anche alle Agojie, un esercito di abilissime amazzoni guidate dalla feroce generale Nanisca che ha provato sulla propria pelle cosa significhi essere rapita e ridotta a schiava. Il palazzo del re accoglie anche tutte le giovani donne che ambiscono a diventare guerriere e Nawi viene condotta lì da suo padre dopo che si è ribellata all’ennesimo matrimonio combinato. La ragazza dimostra il suo carattere forte ma ribelle anche come guerriera ma, nonostante i dissidi con Nanisca sente che tra le Agojie ha finalmente trovato una famiglia.

Se i protagonisti di The Woman King fossero stati uomini la pellicola di Gina Prince-Bythewood, che dirige e scrive la storia, sarebbe stata il classico viaggio dell’eroe. In un regno lontano un giovane ragazzo bianco e ribelle incontra un mentore che gli dimostra con le proprie azioni cosa significhi essere un uomo. Da principio lui fallisce ma poi, grazie a diverse prove, cresce e diventa un guerriero saggio. In questo tipo di storia l’ambientazione potrebbe essere o completamente fantastica oppure storica ma poco cambierebbe, poiché anche nel secondo caso nessun elemento realistico influisce in modo rilevante sull’evoluzione del personaggio o della vicenda. L’idea interessante di The Woman King è che toglie il film dall’impiccio del già visto cambiando genere ed etnia, e usando un’ambientazione storica come parte attiva del racconto.

Una critica mossa a Gina Prince-Bythewood è che le sue protagoniste usino la violenza esattamente come gli uomini, e che quindi il cambio di genere sia di pura facciata. Questo tipo di obbiezione implica però un’idea piuttosto sciovinista e il pensiero per cui le donne, per loro stessa natura, siano incapaci di esercitare una violenza pari a quella maschile. La verità è che non esiste una via femminile per essere un soldato e il cambio di genere fatto dalla Prince-Bythewood, non vuole dimostrare questo tipo di teoria ma dare una profondità diversa ai suoi personaggi. Il generale Agojie ad esempio, nonostante il suo istinto da killer implacabile, ha subito qualcosa che la sua controparte maschile non conosce: lo stupro. Per questo il personaggio interpretato da Viola Davis acquista una profondità diversa, sia nelle sue ambizioni (abolire lo schiavismo e dividere il trono alla pari con il re), sia nel rapporto con  Nawi. Tale operazione non implica ridurre il femminile alla violenza sessuale ma dare una diversa prospettiva ad un character, quello dell’eroe/mentore, ormai stereotipato.

Anche l’ambientazione, Africa dell’800 in epoca schiavista, pur non dando il significato alla pellicola che sottolineiamo è un film di avventura non sullo schiavismo, ne dà un’ulteriore sfumatura originale. La ribellione dei protagonisti diventa così sia quella delle donne verso gli uomini che le riducono ad oggetti sessuali, ma anche dei neri verso i bianchi. In questo modo il monologo finale di re Ghezo che inneggia alla grandezza del proprio regno perde quel carattere retorico che avrebbe qualunque produzione hollywoodiana, e celebra invece la dignità del popolo nero di oggi.