Come è nata la tua partecipazione al progetto Acheron Books?

In modo poco glamorous, temo: mentre la casa editrice era in fase di creazione sono stato contattato dal direttore editoriale, mi è stato esposto il progetto e mi è stato chiesto se poteva piacermi l’idea di far parte della prima tranche di autori pubblicati. Insomma, non è una storia molto epica da raccontare… Nell’avventura Acheron sono entrato con due opere: il fantasy storico Demon Hunter Severian (firmato con lo pseudonimo di Giovanni Anastasi), che potrebbe essere il primo volume di una serie, e il primo libro della trilogia di Poison Fairies intitolato La Guerra della Discarica, il cui secondo capitolo (I Re delle Macerie) vedrà la luce quest’autunno.

Il tuo libro si intitola Poison Fairies - La Guerra della Discarica e si può definire di genere Urban Fantasy. Perché ti piace scrivere Urban Fantasy?

Domanda che mi fanno abbastanza spesso (e a dire il vero non ho ancora ben capito perché). Quando voglio liquidare il fretta il mio interlocutore rispondo “Perché è più facile!” Il che ovviamente è una balla colossale. Amo l’urban fantasy perché è un modo elegante per fare una linguaccia al mondo reale. No, meglio: è un modo per prenderlo per il naso con un gioco di prestigio: “Guarda l’uccellino (che sarebbe il setting realistico, le città che conosci, magari le vie che passano sotto casa tua), guardalo bene, che intanto ti sto infilando un lupo mannaro in salotto e un demone abusivo in panetteria. Ma te ne accorgerai troppo tardi. E, se ho fatto decentemente il mio lavoro, sgranerai gli occhi.” Il fantastico metropolitano post-moderno imbroglia le regole, mescola le tessere, riempie gli angoli in ombra e mina i confini. Talvolta platealmente, talvolta con sottigliezza da guerrigliero. Ma alla fine il botto dell’esplosione si sente comunque.

Vuoi raccontarci qualcosa della trama?

Poison Fairies — La Guerra della Discarica
Poison Fairies — La Guerra della Discarica
Nel nostro mondo le creature fatate delle antiche leggende non esistono più. Ma i loro lontani discendenti ci sono ancora, e in segreto ci hanno colonizzato. Sono alti cinque centimetri, inferociti, irti di zanne e artigli, pieni di veleno fino alla punta dei capelli e vivono nelle nostre discariche, ben nascosti dall’occhio umano. La loro è un’esistenza primitiva, barbarica, violentissima, fatta di guerre tribali per il cibo e lo spazio vitale e di emozioni troppo grandi per cuori larghi quanto un chicco di grano. Il fulcro della loro sopravvivenza è la nostra spazzatura, che riutilizzano in ogni modo possibile, e quando un rifiuto speciale – la batteria di un’automobile, piena di acido solforico – finisce per errore proprio sul confine tra il territorio dei Goblin e quello dei Boggart la tensione tra le due tribù giunge al limite. La sorella del re dei Goblin conduce una missione di recupero clandestina che finisce in tragedia, e da lì seguiranno condanne a morte, evasioni, sicari a piede libero, sirene cannibali, pericolosissimi gabbiani, stregonerie da discarica e una guerra di sterminio sempre più vicina

Quale pensi che sia il punto di forza del tuo libro, quello capace di invogliare i lettori ad acquistarlo?

Mannaggia, io detesto le domande come questa!... Provo a sfuggire citando quello che i lettori – non io – hanno giudicato di maggiore appeal nel libro: dai commenti che ho ricevuto finora direi che sono piaciuti soprattutto il setting traboccante di immondizia creativamente riutilizzata, l’azione rapida, violenta e precipitosa e, forse più di ogni altra cosa, le passioni dei personaggi, che agiscono sempre seguendo sproporzionati impulsi d’odio, amore, rabbia, amicizia, gelosia, lealtà, senso di colpa che trasformano – perlomeno ai loro occhi – la loro piccola discarica un una sorta di “pattumosa” Guerra di Troia.

Scrivere qualcosa che non sia per niente inerente il fantastico: ti è capitato? ti attira come idea?

Mi è capitato in qualche racconto, ma non ho mai preso seriamente in considerazione l’idea per un intero romanzo. Non che non abbia una sua attrattiva, ma non è nei miei programmi a breve termine. Però, se mai scrivessi qualcosa di totalmente non fantastico, sarebbe quasi di certo un romanzo storico, perché almeno la prospettiva del tempo e del “passato ormai irraggiungibile” gli darebbe un po’ di quel senso di alieno e di esotico che nella narrativa fantastica viene dagli elementi immaginari. E sarebbe una storia d’avventura. Imprescindibilmente.

I grandi temi del tuo scrivere, quello che torna sempre o quasi sempre ad affacciarsi nelle tue storie.

Il primo che mi viene in mente è senz’altro la presenza della religione, sia come fenomeno psicologico e sociale (cosa può arrivare a fare l’uomo in nome della fede) che come esperienza personale (il rapporto tra umano e divino, visto da entrambe le prospettive). Un altro argomento che mi affascina e di cui parlo spesso sono i segreti: cosa le persone non vogliono si sappia delle loro vite, quando sono disposte a sacrificare perché un segreto rimanga tale, e quali conseguenze può avere la rivelazione di qualcosa che è stato volutamente nascosto per molto tempo. In più di un’occasione mi hanno detto anche che i miei personaggi sono molto caratterizzati dai loro difetti, che di solito non sono del tipo “affascinante”: personaggi che parlano troppo, che perdono la pazienza per nulla, che inseguono inutili ossessioni, che negano l’evidenza, che si fanno prendere dal panico e combinano tremende idiozie. E proprio queste ultime spesso finiscono per diventare i motori di situazioni molto più grandi di chi le ha scatenate: incidenti con vittime, disastri su larga scala, qualche volta pure guai cosmici, che non nascono mai da motivazioni altrettanto grandi ma da liti famigliari, ripicche, azioni d’impulso, o dalla fretta di nascondere errori imbarazzanti.

Breve, lungo, lunghissimo? Racconto? Romanzo? C'è una forma dello scrivere in cui ti senti più a tuo agio?

Dopo un passato (a mio giudizio) assolutamente troppo logorroico spero – e credo – di aver trovato la mia dimensione nel romanzo non troppo lungo. Magari seriale, o serializzabile.

Nei tuoi libri precedenti hai scritto di angeli, demoni e dei. Come mai il tuo interesse nelle fate?

Perché le creature fatate sono mostri, è inutile girarci intorno. Mostri affascinanti, pericolosissimi e in ultima analisi impossibili da capire fino in fondo, perché la loro caratteristica fondamentale è sempre stata l’alienità. Nel folclore la loro “nicchia ecologica” era per l’appunto quella che oggi occupano gli extraterrestri: rapivano la gente e la rimandavano a casa (quando ce la rimandavano) trasformata in qualcosa d’altro, sostituivano i bambini mortali con inquietanti copie dalla dubbia umanità, stipulavano patti faustiani da cui era dura uscire indenni, lasciavano “regali” dal funzionamento incomprensibile che potevano benissimo rivoltarsi contro chi li adoperava. I protagonisti di Poison Fairies hanno solo un’eco lontana di quei terribili poteri, ma ho fatto del mio meglio per mantenere in loro un senso di alieno rispetto all’umanità: le loro vite, le loro passioni somigliano alle nostre, ma nello stesso tempo nelle mie intenzioni hanno una qualità “altra”, una stranezza che li rende – o almeno spero – un caso a se stante.

I nostri migliori auguri a Luca Tarenzi e alle sue fate.