Quando scoprì che ero appena arrivato, la bambina mi chiese se avevo degli abiti vecchi. Stava giocando con una bambola sulle scale, e la faceva arrampicare faticosamente con le braccia sollevate, come se ogni scalino fosse una vetta da festeggiare. La usò per indicare il mio cappotto aperto e il mio maglione, tenendola per le gambe unite. – Quelli sono nuovi –  disse. – Non vanno bene. Oggi è lunedì, devi trovare qualcosa di vecchio e lasciarlo davanti alla porta quando vai a dormire.

In cima alle scale apparve una signora che chiamò la bambina per cena. Aveva in mano una maglietta bianca, tutta logora e con il collo lacerato. Dopo che la bimba fu entrata in casa, la signora lasciò cadere la maglietta sullo zerbino e chiuse la porta.

Era la mia prima notte in quel condominio e, nonostante la strana accoglienza, non mi sentivo particolarmente spaesato. D’altra parte, le case popolari di San Siro si somigliavano tutte: nel cortile c’era sempre qualche vecchia che curava le aiuole, i gatti randagi oziavano sull’erba, l’intonaco della facciata si sbucciava in lembi giallastri. All’ingresso, il portinaio addobbava l’albero di Natale con festoni dorati, e una stella cometa sormontava la bacheca degli annunci. I vestiti logori davanti alle porte, in compenso, erano una novità.

Salendo le scale, notai che anche gli altri vicini avevano già lasciato i propri indumenti davanti alle porte. Alcuni erano piegati per bene, altri formavano delle masse irregolari che somigliavano a piccole isole, con tanto di coste e promontori. Tutti, però, avevano qualche buco o lacerazione ben visibile. Quando entrai in casa, rovistai in uno degli scatoloni che non avevo ancora svuotato e trovai una t-shirt bianca con uno strappo sotto l’ascella. Senza farmi troppe domande, la abbandonai sullo zerbino.

All’epoca stavo cercando di risparmiare dei soldi per tornare all’università – avevo sospeso gli studi di lingue per aiutare i miei genitori con alcuni debiti – e mi svegliavo molto presto per scaricare le casse al mercato ortofrutticolo. Nel pomeriggio davo ripetizioni di inglese ai ragazzini delle medie, e tornavo a casa con poca pazienza e ancor meno forza nelle braccia. Volevo solo mangiare qualcosa e riposare.

Così, anche quella sera mi buttai sul letto dopo una cena veloce, ripromettendomi di disfare gli ultimi scatoloni il giorno dopo. Nel dormiveglia, i volti delle ragazze conosciute all’università mi cullavano dolcemente verso il sonno, ma alcune di loro si erano già laureate e vivevano un’altra vita, lontana ed estranea rispetto alla mia. Il debole ronzio del frigorifero risuonava dal cucinotto, ipnotico e cadenzato come un cuore artificiale. A disturbarlo c’era solo un rumore metallico proveniente dal pianerottolo, proprio quando stavo per addormentarmi. Il mio appartamento si trovava all’ultimo piano, ed ebbi l’impressione che qualcuno avesse aperto la botola del solaio, facendo scorrere la scala fino al pavimento. Mi parve di sentire anche dei passi, prima molto vicini, e poi sempre più lontani. Il sonno, però, li diluì in una percezione liquida che mi fece scivolare via, senza dare troppo peso a nient’altro che non fosse il semplice riposo.

Soltanto la mattina dopo mi ricordai di quegli strani rumori, e degli indumenti vecchi lasciati sugli zerbini. Era molto presto. Quando girai la chiave, lo scatto della serratura si moltiplicò lungo la tromba delle scale come un tuono, poi tornò il silenzio. La mia t-shirt era ancora lì, appallottolata davanti alla porta, ma in una posizione leggermente diversa. La raccolsi, e ciò che vidi mi sbigottì: il foro sotto la manica era stato rammendato con del filo rosso. Un rammendo perfetto, se non fosse per il colore. Restai per qualche secondo a fissarlo, esaminandone i contorni e il rovescio. Quand’ero bambino, a casa nostra, tutte le magliette logore e le camicie strappate diventavano strofinacci per la polvere, e ogni tanto ne riconoscevo i brandelli impilati sulla lavatrice in bagno. Vedevo la manica di una camicetta con ancora i bottoni attaccati, e mi tornava in mente quando mia madre la indossava per andare al lavoro. Insomma, non ero abituato ai rammendi.

Alzai lo sguardo e notai il maglione color crema che la mia dirimpettaia aveva lasciato sul suo zerbino. Era una signora dal viso pallido e ossuto, con folti capelli ramati, sempre ben vestita e ben truccata: l’avevo incrociata giusto un paio di volte, ma solo di sfuggita. Il maglione era pieno di pallini, e aveva un rammendo sul fianco destro, a metà altezza. Rosso, ovviamente. Stesso discorso per gli altri vestiti nei piani inferiori, tutti con rammendi e cuciture di colore rosso, come ferite ancora fresche. C’era persino un paio di jeans sdruciti con un grosso rattoppo sul ginocchio sinistro. Avrei voluto chiedere spiegazioni, ma fuori era ancora buio e dubitavo che qualcun altro fosse già sveglio. Mi strinsi nel cappotto e mi preparai a lottare con il freddo di dicembre.

Al mio ritorno, nel tardo pomeriggio, gli indumenti erano scomparsi, ma in compenso trovai la mia vicina che rientrava nel palazzo con in mano delle scodelle sporche. Scoprii che si chiamava Carla, era un’ex insegnante di italiano delle elementari. Aveva appena dato da mangiare ai gatti del cortile, e faceva volontariato per Mondo Gatto da quando era in pensione. Le chiesi lumi su ciò che era successo la notte precedente.

– Oh, quello… –  Fece uno strano sorriso e si toccò il labbro superiore, dove notai delle minuscole  cicatrici a distanza regolare le une dalle altre, simili a puntini marrone scuro. – Non c’è niente da dire, sai? E poi stasera non ci pensare, succede solo di lunedì.

Succede… cosa, di preciso?

– Non preoccuparti. Tu lascia solo dei vestiti rovinati di fronte alla porta, va bene anche della biancheria, delle lenzuola.

La ignorai: – Credo di aver sentito qualcosa stanotte. O qualcuno, non so. Qualcuno che apriva la botola del solaio.

Carla non rispose, si limitò a salire le scale davanti a me. Eravamo ormai arrivati al nostro pianerottolo, e d’istinto guardammo entrambi il riquadro della botola sopra le nostre teste. – Lascia perdere il solaio –  disse all’improvviso, con una durezza che non mi sarei aspettato. – Hai la cantina, no?

– Sì, ma…

– Ecco, le cantine sono molto meglio. Più pulite. Le gatte ci vanno per fare le cucciolate. Avvertimi se senti dei miagolii, al rifugio li facciamo vaccinare.

Non ebbi nemmeno il tempo di replicare. Si affrettò ad augurarmi una buona serata e sparì nel suo appartamento, chiudendosi la porta alle spalle.

Non la incontrai per tutta la settimana, ma le ciotole dei gatti venivano sostituite ogni giorno: potevo vederle allineate in fondo al cortile, ai piedi del muro che lo divideva da quello successivo. Forse cercava di evitarmi per non rispondere alle mie domande, oppure i nostri ritmi non coincidevano. Comunque preferii non insistere, anche perché l’intera scala non sembrava molto incline a parlarmi. Al massimo i vicini mi facevano un cenno di saluto, sforzandosi di sembrare indaffarati con i figli, con il cellulare, con le piante sul balcone, con le decorazioni natalizie. Tutto, pur di non parlare con il nuovo arrivato.

Occupavo il tempo libero guardando film in inglese per tenermi in allenamento, o inventando piccoli esercizi per i ragazzini a cui davo ripetizioni. Nel giro di un paio di giorni, svuotai gli scatoloni con i miei vestiti e li misi nell’armadio che gli inquilini precedenti avevano lasciato in camera da letto, dove trovai una vestaglia piena di pelucchi, una grossa maglietta con scritto “Club Tropicana” e persino un abito da donna rosso, smanicato e con la gonna a falde, una spallina scucita. Scrissi anche a una mia ex compagna di corso che stava facendo la magistrale in mediazione linguistica, ma rispose che aveva appena finito gli esami di dicembre, e stava già preparando la valigia per tornare dai suoi. Anch’io avrei passato il Natale con i miei genitori, solo noi tre, perché in città non avevamo parenti e ci straniavamo a sentire le storie di grandi tavolate imbandite, gente chiassosa, pranzi infiniti e tombolate. Avevamo smesso di farlo dopo la morte dei miei nonni materni, e non avevo ancora capito se quella tradizione mi mancava oppure no.

Intanto, appese alle porte dei miei vicini comparvero ghirlande di plastica e Babbi Natale dall’aria gaudente. Il lunedì successivo tornarono anche i vestiti logori, che per qualche ragione stridevano con le decorazioni. Alcuni indumenti erano gli stessi di sette giorni prima, ma i rattoppi erano stati strappati come croste vecchie, lasciando solo qualche filo rosso ai margini delle lacerazioni. Non ne capivo il senso. Comunque, decisi di fare un esperimento: quella sera non avrei lasciato niente sullo zerbino. Ero curioso di vedere cosa sarebbe successo.

Ebbi la mia risposta verso mezzanotte. Mi ero sforzato di rimanere sveglio con del caffè e i videoclip di un canale musicale, anche se la programmazione natalizia conciliava il sonno. Intontito dalla stanchezza, mi ripresi all’istante quando sentii un rumore metallico risuonare dal pianerottolo: la scala del solaio che scorreva verso il pavimento. Seguirono dei passi lenti, che facevano scricchiolare i pioli. Spensi la luce e corsi a guardare dallo spioncino. Ogni piano aveva una plafoniera che restava accesa tutta la notte, e sotto il suo tenue bagliore scorsi una donna di schiena, con i capelli grigi che le arrivavano fino alle spalle. C’era qualcosa di strano, però. All’inizio la donna era immobile, e osservava l’indumento che la signora Carla aveva lasciato davanti alla porta; ma non appena si abbassò per raccoglierlo, i suoi contorni parvero sciogliersi nell’aria. Riacquistò solidità solo mentre armeggiava sullo zerbino. Vidi le sue braccia muoversi con insolita velocità, senza esitazioni, un ago lucente nella mano destra. Terminato il lavoro, rimase qualche istante a guardare il risultato, poi si alzò di scatto e si girò verso la mia porta. Emisi un singulto, senza nemmeno accorgermi di aver portato una mano alla bocca. Ci feci caso solo quando le nocche cominciarono a farmi male, perché le stavo mordendo con forza.

La donna aveva gli occhi e le labbra cuciti con del filo rosso.

Fissava lo spioncino, e in qualche modo sapevo che poteva vedermi, nonostante le palpebre saldate e la porta che ci separava.  Abbassò la testa, alla ricerca di quel tributo che mi ero rifiutato di offrirle. Poi, non appena la rialzò e mi sentii addosso il suo sguardo ferito, capii che dovevo allontanarmi da lì. Indietreggiai di alcuni passi, misurando ogni movimento per non fare rumore, in cerca di una via di scampo che non esisteva. Mi voltai per un attimo alla mia sinistra, dove c’era la porta del balcone. Idee folli mi turbinavano in testa. Ma quando tornai a guardare l’ingresso, lei era già lì. Non so come, aveva oltrepassato la porta chiusa. Le sue palpebre cucite mi studiavano. Se anche non fossi stato paralizzato dal terrore, non avrebbe avuto difficoltà a raggiungermi, perché lo spazio sembrava scorrerle attorno mentre si spostava. Nell’arco di un respiro, me la ritrovai davanti. La vidi aprire la sua veste scura, che era lunga e la copriva fino ai piedi. Tra le pareti evanescenti del torace, un cuore inerte e sanguinoso era come sospeso nel vuoto. Tre aghi erano conficcati in quel puntaspilli di carne, e la donna ne colse uno con il pollice e l’indice della mano destra. Nel momento in cui lo estrasse, un filo di sangue lo seguì, solidificandosi in una fibra di colore rosso. L’ago catturava la poca luce proveniente dalla finestra, ed emetteva un luccichio sinistro. Lo osservai avvicinarsi alle mie labbra, con il filo che si dipanava dal cuore della donna.

Non so spiegarmi cosa accadde dopo. Forse un banale istinto di sopravvivenza, che accese un’intuizione nella mia mente sconvolta. Forse un ragionamento inconscio, emerso nel momento più opportuno. In ogni caso, mi portai una mano al petto e toccai il tessuto del maglione che indossavo. Era vecchio, ormai lo mettevo solo in casa, ed era sfibrato in alcuni punti. Mentre l’ago si apprestava ad affondare nel mio labbro superiore, con le dita riuscii ad aprire uno squarcio all’altezza del petto. La donna si fermò, piegò leggermente la testa, e le sue palpebre focalizzarono il buco che avevo appena creato. L’ago si ritrasse dalla mia bocca e cominciò a lavorare sul maglione. Trattenni il fiato, in attesa, ma alla periferia dello sguardo potevo vedere il filo che si coagulava nello squarcio, guidato dalla sua mano esperta. Quando ebbe finito, si volse e sparì oltre l’ingresso. I suoi passi continuarono a riecheggiare dalle scale, allontanandosi nella notte. Solo quando fu tornato il silenzio trovai il coraggio di guardare: il rammendo di filo rosso, così compatto e uniforme, era come una fenditura spalancata sulla carne viva.

Non riuscii a dormire quella notte. Con le luci spente, ogni minimo bagliore mi ricordava il luccichio dell’ago che si apprestava a forarmi le labbra. Con le luci accese, fissavo ossessivamente l’ingresso per paura che la donna comparisse all’improvviso. Presi un giorno di malattia e rimandai le lezioni del pomeriggio, cercando di recuperare un po’ di sonno durante la mattinata, ma fu inutile. Intorno alle dieci spalancai la finestra e lasciai entrare l’aria gelida, mi ci riempii i polmoni e la sentii premere sul viso come una mano di ghiaccio. Stava cominciando a nevicare.

La luce che si riverberava dal cielo bianco smussò la mia inquietudine, e mi restituì un po’ di coraggio. Feci colazione, mi lavai, mi vestii. La neve cominciava ad aderire alle superfici, e dal quarto piano potevo vederla accumularsi sulle cime dei lampioni. Mi chiesi se la signora Carla fosse in casa, avevo bisogno di parlare. Prima di andare sul pianerottolo controllai dallo spioncino: non c’era nessuno, e lo zerbino davanti alla sua porta era sgombro. Uscii con cautela, suonai il campanello un paio di volte, ma non rispose nessuno. Doveva essere fuori.

Le visite della sarta – così l’avevo soprannominata per ovvie ragioni – si verificavano ogni lunedì. Me l’avevano detto sia la bambina del pianterreno sia la stessa Carla. L’intero condominio lo sapeva, e si era adattato a quel rito settimanale per non avere guai. Potevo capirli. Ma la botola del solaio era proprio sopra di me, e qualcosa mi spingeva a indagare. Semplice curiosità, forse, o un desidero di rivalsa dopo la notte precedente. Non lo sapevo. Però ne sentivo il bisogno, e lo seguii come il canto di una sirena.

Una lunga asta di ottone era poggiata contro l’angolo destro, a pochi centimetri dalla mia porta: la usai per agganciare l’anello che spuntava dalla botola. La scala metallica scivolò giù a scatti, l’ultimo dei quali toccò terra con un tonfo. Osservai il riquadro scuro che aspettava di inghiottirmi, come il portellone di un’astronave aperto sullo spazio profondo. Non era però un’oscurità densa e spaventosa: un po’ di luce filtrava dall’esterno e mi permetteva d’intravedere le travi sul soffitto. Deglutii, presi un lungo respiro e cominciai a salire gli scalini cigolanti. Quando infilai la testa nel buco, la scaletta tremò, ma capii subito che era colpa mia: il metallo assorbiva la mia ansia e la tramutava in uno scricchiolio sinistro, che rimbombava lungo la tromba delle scale. Salii più in fretta per farlo smettere.

Mi issai nel solaio con movimenti incerti, poggiando i palmi delle mani sul pavimento sporco. Non c’era nessuno, ma faceva molto freddo. Quattro lucernari, posti a coppie su entrambi i lati, spargevano il chiarore del mattino in frammenti polverosi. Mi guardai attorno: il solaio era quasi sgombro, a parte un paio di scatoloni vuoti, una seggiola, un manichino sartoriale e una cesta da cucito, tutti raggruppati sotto uno dei lucernari. Sul soffitto notai dei faretti, ma ormai le lampadine erano bruciate. Esaminai la cesta: era una di quelle scatole di legno con i ripiani che si aprono verso l’esterno, e dentro c’era ancora del materiale da cucito. Gomitoli di filo, aghi, pezzi di stoffa alla rinfusa, una pinzetta, un paio di forbicine, un metro arrotolato su se stesso, bottoni di ogni forma e dimensione. Rovistai un po’, finché non toccai qualcosa di diverso. Un materiale liscio e sottile, flessibile. Era una polaroid. L’afferrai con la punta delle dita e la tirai fuori, trascinandomi dietro un grumo di filo che era rimasto impigliato negli angoli. La foto era stata scattata proprio nel solaio, e mostrava la sarta insieme a una ragazzina, sui quindici o sedici anni. La sarta sorrideva, gli occhi di un azzurro limpido e acquoso, i capelli ben pettinati. Reggeva il metro in una mano e guardava in camera con aria piacevolmente sorpresa, come se non si aspettasse di essere immortalata proprio in quel momento. La ragazzina, sorridente ma imbarazzata, teneva le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa un po’ incavata nelle spalle. Indossava un vestito rosso smanicato, con la gonna a falde.

Avvicinai la foto per guardare meglio il viso della sarta, così florido e luminoso rispetto al volto ferito che avevo visto la notte prima. I suoi minuscoli occhi mi catturarono, non potevo smettere di guardarli. Sentii dei passi dietro di me, ma non riuscii a voltarmi. Ero bloccato. Gli occhi della sarta  si espansero, riempirono tutto il mio campo visivo, e io mi ci tuffai senza nemmeno muovere un muscolo. Tutto divenne sfocato e granuloso, come una fotografia inquadrata da troppo vicino.

Ero lì dentro, con loro.

La sarta stava facendo gli ultimi ritocchi al vestito della ragazzina, che aveva i suoi stessi occhi azzurri e rideva, contenta. Era sua nipote, si chiamava Federica. La madre della ragazzina le guardava con la macchina fotografica tra le mani. Erano felici di aver trovato rifugio presso la nonna, lontane da un marito e un padre violento. Potevo sentire il loro sollievo come se fosse mio: la testa mi si riempiva d’informazioni e pensieri estranei. Quando la madre alzò l’apparecchio per scattare la foto, il flash mi abbagliò.

L’uomo non sopportava che la moglie lavorasse in un ufficio del centro, con molti colleghi maschi. Vidi che la spiava di nascosto in pausa pranzo, mentre lei parlava del più e del meno con alcuni di quei colleghi. Lo vidi aggredirla e malmenarla a casa. Il suo fiato alcolico la soffocava, ma non le impediva di sferrargli calci agli stinchi e ginocchiate ai genitali per difendersi. L’uomo faceva la posta anche alla figlia, e le dava della puttana se la vedeva parlare con qualche ragazzo all’uscita da scuola. Altri insulti, altre botte, e io lì immobile a guardare. Alla fine decidono di andarsene, scappano dalla nonna, che fa la sarta e ha adattato il solaio a laboratorio. Ogni lunedì fa il giro del palazzo, va di campanello in campanello e chiede ai vicini se hanno qualche indumento da farle sistemare. È lieta di avere figlia e nipote sotto il suo tetto, poco importa che l’appartamento sia piccolo.

Trascorrono le settimane. Il padre le cerca, suona al citofono, ma loro lo ignorano e chiamano la polizia. Non viene mai arrestato, riceve solo qualche lavata di capo dagli agenti, che gli dicono di mettere la testa a posto e pensare al lavoro. Ma lui passa le ore a spaccarsi la schiena nei cantieri, lo fa da quando aveva diciott’anni. Odia le sue mani callose e le sue unghie lerce, i turni massacranti e il suo misero stipendio. Odia la sua faccia ruvida che lo fissa dallo specchio, e quelle femmine che si ostinano a fare come vogliono loro. Avverto la sua rabbia che mi avvelena il sangue e mi insudicia la pelle. Provo ribrezzo per lui e per me stesso.

Intanto si avvicina il Natale, a scuola di Federica danno una festa per l’ultimo giorno: lei e le sue compagne si mettono d’accordo per vestirsi carine e scambiarsi i regali. Federica non ha un vestito buono, ma sua nonna è ben contenta di confezionarglielo su misura. Lo indosserà con un soffice coprispalle bianco che appartiene a sua madre. L’abito è perfetto, di un bel rosso natalizio, e Federica lo prova e lo riprova davanti allo specchio.

Il 22 dicembre, quando esce da scuola con un sacchetto pieno di regalini ricevuti dai compagni, Federica trova suo padre ad aspettarla. L’uomo le urla contro, la strattona, la insulta per il suo vestito, le chiede se le piace provocare i maschi. Federica riesce a divincolarsi, ma una spallina si strappa e lei corre a casa in lacrime. La nonna la consola, dice che le aggiusterà il vestito in un attimo, non ci vuole nulla. Lo porta subito in solaio e comincia a lavorarci. Anche la madre è a casa, ha preso le ferie in anticipo per Natale. Il padre però è fuori dal cancello. Approfitta di qualcuno che esce per entrare in cortile, e fa lo stesso con il portone della scala. Sale fino all’ultimo piano, vede la scaletta e la botola aperta, si arrampica fino in cima: sa che lassù troverà la nonna. Seduta sulla sedia vicino al lucernario, sta ricucendo la spallina del vestito. Fa a malapena in tempo a emettere un grido, che l’uomo è già su di lei. Ha in mano un coltello da cucina, e lo usa per pugnalarla tre volte al cuore. Poi scende sul pianerottolo proprio mentre la moglie spalanca la porta, attirata dal trambusto. L’uomo accoltella anche lei, e infine si avventa su Federica, che però riesce a chiudersi in bagno. Assisto a questa scena come un’ombra sul muro, impotente.

Quando si rende conto che non può raggiungere la figlia, l’uomo esce sul balcone, il coltello ancora stretto nel pugno. Il sangue gli imbratta i vestiti. Resta alcuni secondi con una mano che trema e l’altra che ciondola inerte, finché il coltello non gli scivola in terra. A quel punto scavalca il parapetto e si lancia nel vuoto.

***

La polaroid stropicciata fra le mani, il mio ultimo punto di ancoraggio alla realtà. Tornai in me con un sussulto, come se il mio corpo si fosse appena materializzato dal nulla. Mi parve di sentire dei passi che si allontanavano, ma quando mi voltai non trovai nessuno. Solo la luce bianca della nevicata, che si faceva sempre più fitta oltre i vetri dei lucernari. Guardai ancora la foto, e l’accarezzai con le dita per lisciarne le pieghe. Ormai sapevo cosa dovevo fare.

Ai piedi della scaletta trovai la signora Carla. Mi fissava con la fronte corrugata, reggendo un grosso sacco di mangime per gatti. Sembrava preoccupata, e all’inizio rimase in silenzio. Poi notò la polaroid.

– L’hai vista, vero?

– Sì.

– Stai bene?

Non risposi, ma guardai le minuscole cicatrici che aveva sul labbro superiore. Immaginai che le stesse ferite si trovassero anche su quello inferiore, in parallelo.

– La nipote… Federica… –  dissi.

– Vive con gli zii –  si affrettò a rispondere. – Non è mai tornata.

Annuii: perché mai avrebbe voluto tornare? Persino il vestito rosso che amava tanto era un ricordo troppo gravoso da portare nella sua nuova vita.

– Hanno venduto tutto quello che potevano –  disse. – Il resto l’hanno lasciato su in solaio, hai visto?

– Non solo in solaio –  risposi.

Fece un cenno con la testa verso la mia porta. – È rimasto sfitto per quasi due anni. Non pensavo che qualcun altro ci avrebbe mai abitato. –  Poi, a voce più bassa, aggiunse: – Non mi piaceva stare quassù da sola.

Rientrai in casa dopo averle promesso che le avrei dato una mano con i gatti in cortile. Dalla finestra potevo vedere le loro piccole impronte sulla neve, tanti puntini che tracciavano rotte caotiche, s’intersecavano fra loro e poi si allontanavano ancora. Quelle più grandi, di scarponi e stivali impermeabili, erano invece più regolari: seguivano itinerari sicuri lungo i vialetti, senza scarti o deviazioni. Per il resto, la neve uniformava il paesaggio e portava ordine, coerenza, pulizia. Assorbiva i rumori in un silenzio di ovatta, mentre raggiungevo il vecchio armadio e le reliquie che conservava. La vestaglia piena di pelucchi e la maglietta con scritto “Club Tropicana” erano gli ultimi residui di una placida vita casalinga, e nella mia testa vedevo la sarta che li indossava per le attività domestiche. Appesi alle grucce, ora sorvegliavano il vestito rosso con la spallina scucita, a cui erano stati applicati solo un paio di punti. Era stata uccisa con quell’abito fra le mani, prima di finire il lavoro. Un’opera incompiuta ossessionerebbe chiunque, figuriamoci una morta. Spingerebbe ognuno di noi a ripetere disperatamente le stesse abitudini, rivolgendo la nostra arte a tutto ciò che ci capita fra le mani: la nostra bocca, i nostri occhi, la bocca di qualcun altro, i vestiti lasciati davanti alle porte. Non è quello che facciamo già in vita, reiterare sempre gli stessi schemi nella folle speranza di uscirne?

La neve intanto copriva le impronte in cortile e si riappropriava delle aiuole. Assimilava i marciapiedi non ancora spazzati, i tetti del palazzo di fronte, gli alberi dalle fronde nervose, le biciclette legate ai lampioni che si cristallizzavano in sculture postmoderne.

Sì, sapevo cosa fare.

Il lunedì successivo avrei lasciato il vestito rosso piegato con cura davanti alla porta, la sua lesione in bella mostra. Sarebbe stato il mio regalo di Natale, e come tale lo avrei accudito finché la sua legittima destinataria non fosse venuta a reclamarlo.

Avrebbe pensato lei a guarirne le ferite. E dentro, alla fine, ci avrebbe trovato le proprie.