Presentazione del corso

L’uomo appoggiato alla cattedra è diverso da come l’avevano immaginato gli studenti. Il cacciatore dei dinosauri più letali che la città ha da offrire. Il più singolare talento nella storia degli uomini. Ha un vestito classico, elegante. Il cappotto appoggiato allo schienale della sedia ha l’aria costosa. Le profonde rughe sulla testa calva sembrano cicatrici, e forse qualcuna lo è davvero. Il viso scarno può anche avere linee dure, ma gli occhi sono tristi. Non sconfitti, malinconici; guardano al passato, mentre gli ultimi ritardatari si sistemano sulle panche in fondo.

L’aula è piena. I ragazzi si sono litigati i posti davanti. L’insegnante non si siede. Non avrebbe senso.

La lavagna è fitta di superfici storte e matrici mezze cancellate.

Buongiorno a tutti, sono Sebastiano Mantissa.

Tanto basta a far mormorare la classe. Ancora, dopo tutti quegli anni, lui sorride. Ora sembra che veda davvero i suoi allievi.

— Il Concilio etichetta queste nostre lezioni come Fondamenti di Storia Moderna delle Curve. Hanno sempre avuto un gran talento per la sintesi.

Un nome che pochi dei presenti hanno già sentito. Da sempre, gli studenti chiamano il corso come viene loro naturale: Mantissa.

Siete arrivati in fondo. Dovete fare lo sforzo di sopportare me per tre lezioni, e poi potrete impiegare il potere che avete imparato a controllare negli ultimi tre anni. Al servizio dell’Accademia. Qualunque sia il vostro futuro, quel potere sarà per sempre una parte di voi. Siete sfregiati. Da questo non si torna più indietro.

Tanti volti pieni d’orgoglio; troppi sguardi preoccupati.

L’insegnante sorride loro come farebbe un padre.

— Ho iniziato a tenere questo corso molto tempo fa. Così tanto che avevo ancora tutti i capelli.

Qualcuno sorride; non tanti quanti avrebbe voluto.

— Il primo giorno ero terrorizzato. Per non sbagliare, mi ero preparato i miei appunti: quanto davvero sono utili fisica e matematica nel lavoro di uno sfregiato; la dedizione alla strada che siete destinati a seguire; quella parte del nostro mondo che vede lo studio delle curve come un tradimento all’umanità, una cosa con la quale ogni sfregiato deve imparare a convivere.

L’uomo tira fuori dal cassetto della cattedra un vecchio quaderno.

— Sono ancora qui — dice, agitando gli appunti sopra la testa. — Mai riuscito a seguire una scaletta. Mai stato buono a fare della morale. L’unica cosa che sono stato capace di fare in tutti questi anni è raccontare la mia storia.

— Non so dire quanto io possa davvero esservi utile. Ma per dare significato a quello che sta succedendo, le mie lezioni sono l’unica cosa che l’Accademia vi mette a disposizione. Dovete farvele bastare. E cercare di metterle a frutto, per trovare la forza di superare i momenti difficili che vi aspettano. Il primo passo è prestarmi attenzione.

Il brusio in aula diminuisce un po’.

— Come il signore lì in quarta fila: qual è lo scopo di pizzicare l’orecchio alla ragazza davanti? Farle perdere la pazienza? Che ne pensa, signorina?

Lei si limita a scuotere la testa e l’aula ride.

La giovane ha incisioni che arrivano quasi fin dentro il padiglione auricolare. C’è stata un’altra sfregiata con incisioni simili, una vita addietro. L’insegnante non può fare a meno di pensare a lei.

***

 

Più di trentasette anni prima, Sebastiano Mantissa è seduto sulla panchina che dal parco dà sull’entrata dell’Accademia, davanti alla grande arcata di pietre antiche. Al centro, lo stemma che raffigura l’Ultima Pagina del Libro, scolpita in balia del vento.

Ama quel particolare bassorilievo, tra i tanti sparsi per il campus, perché la pagina non è bianca. Certo, le scritte sono solo scarabocchi incisi nella pietra, ma ogni volta che posa lo sguardo sullo stemma non può fare a meno di chiedersi cosa possa contenere quello vero, il foglio mancante. Quella piccola, immensa parte di conoscenza che è ancora negata agli esseri umani.

Passa un gruppo di studentesse. Ridono, e lui mette in bella mostra il braccio inciso di fresco, come a volerlo studiare in controluce. Una fitta di dolore gli prende tutto l’arto fino alla spalla, dove l’incisione di una curva complessa non ha ancora smesso di tenerlo sveglio la notte. È felice che il crio non abbia proseguito le incisioni sul viso, anche se non lo ammetterebbe mai con nessuno. Naso, guance, mento e labbra sono quelli di sempre. Qualche ramificazione sulla tempia destra.

Le studentesse lo notano e smettono di scherzare. Rallentano il passo. D’un tratto, le pratiche sociali delle formiche che zampettano sotto la panchina catturano tutta la sua attenzione.

— Fa male, vero? Io non riesco a sopportare la sinusoide sul cervelletto — fa una voce femminile roca. Sebastiano non l’ha sentita arrivare.

Una gran massa di ricci neri sfiora il viso del ragazzo per poi essere raccolta sopra il capo, in modo da mostrare l’incisione che da dietro al collo sparisce verso il braccio destro. La camicia larga lascia battere il sole sulla pelle lentigginosa della schiena.

— Ciao, Stella. Mi chiedevo che fine avessi fatto.

Da lontano, le studentesse sbirciano ancora. Fingono di non guardare, e ora sono più incuriosite da lei che da lui.

La ragazza ha un’aria cupa, sembra cambiata. D’altronde, non si vedono da molto: prima di decidere di farsi incidere, Sebastiano ha voluto passare del tempo sulle sue montagne sopra il lago Lario. Lei è rimasta a Milano, tra gli uomini della pianura. È sempre stata una di loro.

Stella Camaiore era una sfregiata da tempo, il giorno in cui lui si è fermato all’ingresso dell’Accademia, ha trattenuto il fiato e ha fatto il passo che avrebbe finalizzato tutti quegli anni di fatiche.

Sebastiano Mantissa è stato l’ultimo del suo ciclo di studi a essersi sottoposto al rito. Le cicatrici di Stella avevano già iniziato a guarire.

— Raccontami com’è andata — chiede lui. — Quanto tempo è durata l’Incisione?

— Più di quattro ore. Curve molto originali.

Più o meno la risposta che qualsiasi giovane sfregiato darebbe la mattina dopo il giorno più importante della sua vita.

Stella sorride.

La mente di Sebastiano torna al liquido giallastro spalmato sulla pelle, alla lama che per un attimo sembra solo capace di piegare una cute di gomma. E poi inizia a scorrere il sangue. Gli artigli alieni di un essere capace di estrapolare equazioni dalla mente altrui. Il crio. Gli rimarrà in testa come una pallida ombra per tutta la vita, lontano, come il ricordo del dolore.

— Hai già scoperto il tuo potere? — chiede Stella.

— No, siamo qui apposta — Lui ce la mette tutta per sembrare sicuro di sé, ma il risultato non è dei migliori. — Tu hai già un’idea?

— Sì: calore — Un altro largo sorriso. — Ti piacciono le formiche, Seba?

— Non saprei. Quand’eravamo bambini ci piaceva dare fuoco ai formicai, ti ricordi?

— Io e te siamo sempre andati d’accordo.

La giovane si concentra, gli occhi più luminosi che mai, e afferra il braccio destro con l’altro. Punta il palmo verso la fila d’insetti che poco prima ha catturato l’attenzione di Sebastiano. Le formiche si bloccano d’improvviso, come se qualcosa le avesse incollate al terreno. Tremano appena. Sebastiano muove il piede a toccarne una. Tutte le bestiole prendono fuoco. Scansa appena in tempo lo stivale. Centinaia di fiammelle a sei zampe corrono impazzite in ogni direzione, in preda al dolore.

— È ora — dice Stella. — Andiamo?

***

 

Andiamo. Sebastiano Mantissa vorrebbe poter afferrare per il polso ogni singolo studente e studentessa e dir loro di fermarsi. Scappare, nascondersi. In alta montagna, al di là del mare. Vorrebbe che ci fosse per loro un’alternativa; che gli fosse data la possibilità di cercare una soluzione. L’unica strada che il mondo degli uomini è riuscito a imboccare li ha portati lì, davanti a lui, in quella vecchia aula.

Ognuno di loro ha seguito la propria Stella. 

Che pessimo gioco di parole.

Prima lezione

1.

L’aula è in silenzio. L’insegnante sa bene che l’attenzione che gli dedicano gli studenti è dovuta alla sua fama di agente dell’Accademia; come docente, non si è mai sentito all’altezza.

Pochi tra i tanti giovani che si sono seduti davanti a lui anno dopo anno hanno davvero voluto imparare qualcosa dalle lezioni in sé. Lo hanno ascoltato per sentire dalla bocca di uno dei protagonisti cosa è successo davvero; per la curiosità di cogliere particolari cruenti.

Lui lo ha sempre saputo, ma ha continuato a credere che fosse giusto cercare di far capire ai ragazzi l’onore e i sacrifici di una vita che avrebbe portato loro tanto, ma non la libertà.

Ora ogni cosa è cambiata. Tutto ha un altro significato.

— I miei primi anni da sfregiato non furono nulla di eclatante — comincia, avvicinandosi alla prima fila. Un tipo magro e brufoloso lo fissa con la mascella a penzoloni.

— Venivo ingaggiato per spegnere incendi, dare supporto all’Esercito nella caccia ai rinnegati, causare crolli controllati. La duttilità del mio potere mi faceva viaggiare molto, e da ragazzo può essere divertente, ma niente di più. Era il settembre del mio quarto anno da agente ed ero rimasto senza incarichi. Ancora non insegnavo, ma avevo comunque l’abitudine di concludere i lavori in sospeso prima dell’inizio del nuovo semestre accademico, forse perché non avevo mai smesso di sentirmi uno studente. Venni convocato dal Concilio.

— A quei tempi firmavamo il contratto con l’Accademia negli uffici dell’amministrazione, a Milano. Nelle prime missioni venivamo affiancati ai professori che avevano proposto la nostra assunzione, e poi continuavamo per qualche anno ad accompagnarci ad agenti più anziani. Insomma, poteva passare molto tempo prima che un giovane agente vedesse in faccia i suoi datori di lavoro, il Concilio. Per me era la prima volta.

Un ragazzo in fondo esce. Ha le maniche della camicia arrotolate e non c’è segno d’incisioni sugli avambracci, sul viso o sul collo.

Mantissa si chiede quanti ce ne possano essere in aula, e continua: — Mi avevano fatto chiamare poco dopo l’alba. Non ero mai entrato in quella stanza di pietra, al secondo piano del Direttorio. Ci passate davanti tutte le volte che uscite da Porta Ovest. Oggi ci hanno messo un qualche laboratorio. È un posto buio; la luce filtra a fatica da un paio di finestrelle. Allora bastava appena per illuminare il tavolo al centro. Più o meno come ci si immagina la stanza degli interrogatori di un carcere.

— Quel giorno, cinque tra le figure più influenti della nostra società si erano alzate in piena notte per ricevere me. Erano sistemate dietro al tavolo, come a un esame. Ne conoscevo di vista solo un paio. Il professor Bagci, tutto peloso e coperto di barba fino agli zigomi, e Rita De Loy, che non è più tra noi solo da qualche anno. È stata nel Concilio per tre decadi. Anni fa le hanno scolpito un mezzobusto e lo hanno messo davanti alle aule restaurate dall’altra parte del parco. La scorsa primavera qualcuno ha avuto il pessimo gusto di truccare il viso della statua.

Un gruppo di ragazzi un po’ defilato abbassa gli occhi. Altri arrossiscono, perfino. Gli autori dello scherzo sono già stati identificati da tempo, e ora sono altrove. Un’aula di gente tanto giovane da riuscire a vergognarsi per conto di altri.

***

— Prima di chiarire il motivo della sua convocazione, abbiamo bisogno di una piccola dimostrazione, Mantissa — dice Fabio Bagci, trent’anni prima. I quattro professori che lo affiancano annuiscono. Sebastiano si sente come un bambino chiamato alla cattedra dalla maestra, terrorizzato dal non ricordare la poesia.

— Siamo impazienti di assistere alla natura singolare, per così dire, del suo potere.

Uno dei membri deve essere in grado di controllare un qualche genere di combustione: una fiamma gialla e azzurra si è accesa a mezz’aria, appena alle spalle del giovane sfregiato, a illuminare la pietra della parete sullo sfondo.

Non è certo il momento di farsi prendere dal panico. Sebastiano si concentra e tempo un attimo il fuoco si esaurisce. Al suo posto un vuoto, ben più scuro della penombra. In un battito di ciglia sparisce anche quello.

— Prendiamo una forma di energia completamente diversa.

Il faccione peloso di Bagci ha un’aria anche troppo soddisfatta. Le incisioni sulla mano sono molto più evidenti del normale, con tutto quel grasso. Indica semplicemente una sedia vuota, per poi fare un cenno verso il soffitto.

Sebastiano ce la mette tutta per rimanere impassibile; teme di avere sul viso l’espressione più stupida del mondo. Fa scattare la sedia verso l’alto e resta per un po’ a guardarla spingere contro la pietra, come se volesse uscire dal tetto. Aspetta che i contorni divengano sfumati, per dare un minimo l’idea del suo potere, prima di farla planare verso il suolo. La sedia atterra su due gambe, rimane in bilico per un attimo e poi cade sullo schienale. Un tuono avrebbe fatto meno rumore.

— Bene, Sebastiano Mantissa. Sembra che lei faccia al caso nostro — dice la De Loy, mentre il giovane sistema il disordine che ha creato.

***

 

— Avreste mai detto che proprio uno sfregiato con un potere come il mio odia il disordine? Mi fecero sedere e rimasi lì imbambolato, a chiedermi cosa potessero volere da me quelle persone.

L’insegnante non riesce a trattenere un sorriso nel vedere tante teste annuire, quasi in sincronia. I ragazzi, come qualunque altro essere umano, sanno benissimo cosa chiese il Concilio a quel giovane, tanti anni prima.

— Mi diedero appuntamento davanti alle rovine della Scala. Quand’ero bambino, sopra il lago Lario, i vecchi raccontavano che in un passato remoto fu il tempio degli antichi dèi, prima della scoperta delle scienze, prima del Libro. La cosiddetta Galleria, proprio dall’altra parte della piazza antistante alla Scala, era una delle stalle per gli animali dell’Esercito, al tempo dei fatti che andremo ad analizzare in questo corso. E io dovevo incontrare un militare. Dopo tanti anni di conflitti, oggi è rimasto solo un piedistallo mangiato dai rovi. A quei tempi, sopra quel piedistallo si ergeva la statua di un crio. C’era un piumato, davanti alla Scala.

Nessuna sorpresa nel vedere espressioni d’incredulità in aula. Le nuove generazioni hanno vissuto tutta la vita nell’odio verso il popolo che ha insegnato tanto all’umanità.

— La prima volta che vidi il Colonnello non mi fece una grande impressione. Fissava compiaciuto la statua e quella, scolpita con le braccia aperte, sembrava volerselo stringere al petto. Il mio dormitorio da studente era vicino alla Porta Ovest: sono passato davanti a quella nefandezza in pietra per anni, sulla strada per arrivare alla Darsena. La odiavo. L’espressione era idiota e l’anatomia delle spalle e della serie inferiore di muscoli pettorali era sbagliata. Non potevo che disprezzare chi sprecava il suo tempo a dedicarle tante attenzioni.

Molti in aula si mostrano d’accordo, compiaciuti.

— In quegli anni le uniformi degli ufficiali dell’Esercito erano blu con le spalline color mattone. Ve lo immaginate uno dei nostri guerrieri moderni andarsene in giro con le spalline? Erano tanto orgogliosi nelle loro giacche inamidate da essere ridicoli.

— Buongiorno, sfregiato” furono le prime parole che mi disse il Colonnello. Non le ho mai dimenticate, perché in qualche modo suonarono come un’offesa.

Difficile dire se il sorriso sul volto di Mantissa celi ricordi affettuosi o sia solo sarcastico.

— Ero stato incaricato di trovare un uomo che aveva commesso un crimine orribile, e mi avevano messo a fianco un damerino impettito.

L’espressione sulla faccia della maggior parte degli studenti fa capire all’insegnante che non c’è alcun bisogno di specificare quanto si fosse sbagliato. Eppure, la cosa che meglio ricorda Mantissa di quell’incontro non sono divise e spalline, ma artigli affilati.

***

— Sono Sebastiano Mantissa, Colonnello.

La mano del militare è fredda, nonostante si sia appena tolto i guanti. Ha la pelle troppo chiara, solcata da vene bluastre, ad accentuare la bocca severa senza labbra. Di capelli così gialli se ne vedono pochi, di occhi di quel colore quasi nessuno. Hanno i toni dell’acqua; è il primo essere umano con le iridi celesti che il giovane sfregiato abbia visto in vita sua. A partire dall’occhio destro, sulla tempia, una voglia dalla forma irregolare color cremisi, grande più o meno come una nocciola. Cattura l’attenzione.

— Luciano Mizar.

Niente convenevoli e va bene così. Entrambi non hanno molto da dirsi. Sanno quello che dovranno fare e sanno che lo dovranno fare insieme. Sebastiano, tutto sommato, dovrebbe sentirsi in una posizione di vantaggio. La missione che è stata loro affidata gli darà la possibilità di mettersi in luce in Accademia, senza le complicate dinamiche che derivano dal dover lavorare con colleghi ed ex compagni di studi che conosce da anni. Potrà valutare freddamente ogni mossa.

Proprio lui, che in tutto questo non ha nessun tipo di coinvolgimento emotivo.

Fortuna che ci sono cose che possono aiutarlo a rimanere concentrato: poco prima il militare è smontato da un grosso dromeosauro nero con un disegno a goccia cremisi attorno agli occhi. Gli sprazzi di luce tra le nuvole di Milano mostrano che il manto dell’animale è striato di grigio. Gli artigli a falcetto delle zampe posteriori sono grossi come uncini da macellaio. La lunga coda rigida come un tronco, perfettamente orizzontale a continuare la linea della schiena, agita le penne della punta in modo inquietante, in sincronia con quelle degli avambracci. Piegati ai lati del torace, quasi invisibili, gli arti anteriori lasciano intravedere due dei tre artigli per mano; le lunghe penne nere che li ricoprono, rivolte verso le cosce, catturano giochi di luce. Il piumaggio corto e ruvido del resto del corpo segue le linee della muscolatura tesa, al contrario di tante altre specie simili che nascondono istinti letali sotto morbide siluette di piume colorate. L’animale dà l’idea di essere pronto a scattare da un momento all’altro.

Sebastiano respira e stringe il bavero. Non è il freddo. Adora proprio i predatori da sella.

Il Colonnello ha messo in chiaro ancora prima dei saluti l’intenzione di gestire davvero alla pari il loro rapporto: si è presentato in sella a quella specie di tritacarne piumato e ha squadrato per bene lo sfregiato dall’alto del metro e settanta che sarà il garrese dell’animale. Poi è sceso a terra con un sonoro schiocco degli stivali da graduato. Si è sistemato con calma lo spadino e ha fatto come per controllare se la pistola fosse ancora nel fodero.

Il giovane sfregiato non è mai stato tanto entusiasta nella prospettiva della compagnia di qualcuno.

— Il fattore tempo è fondamentale, Mantissa. Ma prima di cominciare, c’è qualcosa che deve vedere.

La Galleria, ancora prima di entrare, ha quell’odore acre di saliva e sterco mischiato al profumo della paglia fresca, tipico dei luoghi dove vengono allevati i grandi dinosauri. La porta che dà sulla Scala è un recinto di pali alti venti metri, con un portoncino a misura d’uomo ricavato al centro. Fa uno strano contrasto con la struttura cui fa da ingresso: un’antica doppia fila di palazzi di mirabile fattura e d’aspetto imponente, invasi da rampicanti dalle braccia grandi come tronchi di quercia, tanto forti da dividere la pietra. Dalle finestre più alte spuntano giganteschi viticci che l’hanno avuta vinta su quello che doveva essere una specie di soffitto, a congiunzione delle due serie parallele di edifici. Una sorta di galleria, appunto.

Ai piedi della struttura, tra i palazzi, si dice che un tempo avessero inizio le processioni in onore degli dèi, per poi culminare proprio alla Scala. Il fatto che Galleria e tempio siano stati trasformati in una stalla e un magazzino fa ben capire quanto interesse abbiano gli uomini della pianura per le superstizioni dei loro antenati.

La guardia è un caporale con l’uniforme slacciata sul davanti. Non sembra accorgersi di Sebastiano e del Colonnello finché il dromeosauro non gli sbuffa in faccia. Quando riconosce i gradi, trattiene con poco successo una smorfia.

— So che i visitatori sono rari da queste parti, ma non possiamo dimenticarci che siamo soldati — fa il Colonnello a voce alta.

Il cancello si apre, mentre il suo guardiano abbottona la camicia con lo sguardo fisso a terra.

Sebastiano non ci mette molto a capire che quel lato della Galleria è adibito ai grossi carnivori. Una fila di alti recinti troneggia alla sua sinistra. Dietro, si vedono coppie o gruppetti di animali di media taglia, per lo più dromeosauri e pachicefalosauri. La luce filtra attraverso le piante che avvinghiano gli ultimi piani, e per un attimo il giovane sfregiato ha l’impressione di trovarsi nei boschi sulle sue montagne. È passato così tante volte davanti alla Galleria, a sentire le voci dei militari e i ruggiti degli animali! Poterci entrare gli dà una bella sensazione di scoperta. Lo fa sentire speciale.

Gli edifici, diroccati come sono, sono ridotti a pareti crollate e antiche sale adibite a pollai. Gli ambienti più alti saranno a trenta di metri dal suolo. Qualcosa di grande più o meno come una pecora, bianco e un po’ spelacchiato, viene fatto precipitare in un recinto. Un bel tarbosauro, con una lunga criniera di piume maculate, prende l’animale al volo con le fauci. Le ossa frantumate fanno un crack che risuona per un secolo. La carcassa finisce in gola intera, con un colpo del collo grande quanto il tronco di un albero. Le penne dei piccoli arti anteriori del predatore si agitano goduriose.

Ai margini della società degli uomini, dov’è cresciuto Sebastiano, sono i mammiferi a dominare i boschi: cervi, cinghiali, conigli e lupi. I grandi carnivori della pianura gli procurano robusti brividi sulla schiena. Anche dopo tanti anni d’Accademia. Istintivamente, passa l’indice sulle curve incise sul collo, come a controllare che siano ancora lì.

Arrivati in fondo, oltre la porta di tronchi che chiude l’ingresso dall’altro lato, s’intravedono le guglie del Duomo, come tante montagnette di sabbia bagnata. Il castello di sabbia degli dèi.

Quattro soldati si stanno affannando a far ruotare sui cardini l’intera palizzata, per far passare una fila di tre tarbosauri da guerra coi loro cavalieri. Stringono con forza le catene che li fissano alla piattaforma sulla schiena dell’animale; il loro corpo ondeggia a ogni passo del dinosauro, in un modo che è difficile credere si possa sopportare per più di qualche minuto. Oltre l’entrata, i palazzi della Galleria sono in gran parte crollati e il pavimento è coperto di terra battuta e sassi, almeno finché non si perde sotto un incolto manto erboso. Le pietre delle costruzioni diroccate si fondono col legno, servito a trasformare le rovine in stalle per i destrieri più piccoli.

— Buongiorno, signor Colonnello — saluta un soldato col cranio ben rasato e i tratti taglienti, sui quarant’anni, con l’uniforme da conduttore di tirannosauroidi da guerra. Il tono tradisce nervosismo, anche se è arrivato con passo veloce, deciso, e lo sguardo aggressivo. Tanto che Sebastiano ha temuto per un attimo che volesse spaccargli il naso con una testata. L’uomo indossa l’imbragatura tipica della sua specializzazione, fatta di spesse strisce di pelle e coperta di osteodermi di nodosauro; là dove non regge anelli di metallo grandi come meloni che hanno tintinnato in modo un po’ comico quando il militare si è messo sull’attenti per salutare. Sebastiano si chiede cosa si possa provare a uscire di pattuglia legati con quell’affare alla sella di un gorgosauro alto più di due metri.

— Cosa fai qui, Gherardetti? Ti avevo mandato a dare man forte alla squadra di Cratoni alle paludi del Lambro. O sbaglio?

L’uomo abbozza un sorriso furbo, alza le sopracciglia; sembra pronto a una risposta sagace.

Il Colonnello piega appena la testa.

Il sorriso furbo sparisce.

— Non ho ancora raggiunto gli uomini di Cratoni, Signore.

— Questo è evidente. Sentiamo il perché.

Sebastiano distoglie lo sguardo mentre il soldato tira un lungo sospiro.

— Volevo passare la serata con la mia famiglia, Signore. Pensavo di partire dopocena.

— Pensavi?

— Ieri lei ha preso una licenza così all’improvviso! Nessuno credeva che sarebbe venuto al lavoro oggi. Ero certo che non se ne sarebbe mai accorto.

Il soldato, che non è certo un ragazzo, ha perso colore in viso e sta sudando. Ma non smette di tenere gli occhi fissi su quelli azzurri del Colonnello.

— Questo agente ci è stato concesso con gentilezza dall’Accademia. Potrebbe esserci di aiuto in un’indagine riservata. Questa cosa ha la massima priorità — dice il Colonnello indicando Sebastiano. — Non c’è tempo di gestire a dovere la tua insubordinazione. Segnati questo giorno, perché è il più fortunato della tua vita: passerai questa sera con la tua famiglia. E raggiungerai le paludi domattina — continua. E una volta terminata la consegna passerai due settimane a pulire le stalle ai piani alti. Puoi andare.

Il soldato resta fin troppo sorpreso e si congeda.

Il Colonnello fa cenno allo sfregiato di seguirlo verso una piccola porta dall’aria pesante, in uno degli edifici peggio conservati, poco prima della palizzata. Da fori e intagli si capisce che le assi sono state riciclate, forse da un vascello. Inciso in piccolo, vicino al cardine in alto, poco in vista, c’è la scritta Obitus.

— Le è mai capitato di dover gestire personale, Mantissa?

— Non direi. Collaborare con colleghi, coordinare progetti da studente. Ma non ho mai avuto altri esseri umani sotto la mia responsabilità.

— Responsabilità, ha detto bene. Un capo, un buon capo, non à né più né meno di un buon insegnante: deve saper vedere pregi e difetti nelle persone, valorizzare i pregi ed eliminare i difetti. Punire senza un valido motivo, è solo controproducente.

Sebastiano si aspettava di essere divertito da tale stucchevole saggezza militare, specie se elargita da un uomo ancora così giovane. Eppure, in qualche modo, ne rimane catturato.

Il Colonnello lega le briglie del dromeosauro a un anello fissato al muro. Gli spunta in mano una grossa chiave e apre. Oltre la porta, s’intravedono scale che portano sotto il livello del pavimento.

Alle spalle, un soldato dall’aria selvaggia pungola con un rampone un grosso tarbosauro. La bestia risponde con ruggiti e fiotti di saliva che mettono i brividi.

Cominciano a scendere.

Il posto è buio e troppo umido. Niente di strano: Milano è una città sull’acqua, solcata com’è dai navigli; il suolo è pieno di falde. Le pareti sono rinforzate con grosse travi di legno recuperato, come la porta. Dopo un paio di rampe di scale e due o tre deviazioni, Sebastiano si è perso. Saranno passati davanti a una decina di porte chiuse, tutte con pesanti lucchetti. Il fumo delle torce alle pareti fa male agli occhi. Bruciano con olio di sauropode, l’odore è tipico.

— In queste stanze vengono conservati i cadaveri non identificati — annuncia il Colonnello in un tono rispettoso che stride con la freddezza della sua figura.

Il fatto che l’Esercito abbia una serie di stanzini pieni di morti sotto sale, qualche metro più in basso del posto dove tengono predatori alti cinque metri, la dice lunga sulla possibilità che hanno i militari di sbarazzarsi di gente poco gradita.

Sono davanti a una porta ammuffita, che pare lì lì per sgretolarsi. Ci sono arrivati dopo aver imboccato un corridoio cieco, scavato con un angolo strano partendo dalla curva di una galleria quasi senza illuminazione. Prima di svoltare, il Colonnello ha staccato una torcia dalla parete; ma anche con quella, per un visitatore occasionale sarebbe stato impossibile notare l’esistenza di quell’anfratto. Tanto più che il militare ha dovuto tornare indietro per recuperare lo sfregiato, che lo aveva perso di vista.

La porta ha una serratura dall’aspetto altrettanto vissuto. Non è nemmeno chiusa. Dietro, con sorpresa, sbarre d’acciaio che saranno spesse dieci centimetri bloccano l’accesso a una stanza immersa nel buio. Il Colonnello recupera dall’interno dell’uniforme due chiavi di sicurezza e dopo un numero esagerato di mandate, apre.

Luciano Mizar avrà pochi anni più di Sebastiano, ma in quella luce riflessa dal metallo sembra un vecchio dalla pelle sottile.

Alle pareti dell’ambiente sono fissate un bel numero di lanterne. Il militare si preoccupa di accenderle con meccanica diligenza.

Sul pavimento, una lanterna dopo l’altra, si rivelano due esseri umani, maschi, nudi, distesi sopra un letto di paglia secca e quello che sembra sale grosso. Non devono essere lì da molto, ma la cute ha già un’aria mostruosa, incartapecorita. Hanno entrambi incisioni sulle braccia, su tutto il torso e in parte sull’inguine. Al più snello proseguono sul collo sino a coprire tutta la guancia destra, la tempia e parte della fronte. Col tempo, dopo l’Incisione, si era fatto crescere i capelli, per cercare di recuperare la simmetria del bel viso dagli zigomi alti, anche se non lo ammetteva nemmeno con se stesso.

E questa è la parte normale. Il cervello di Sebastiano ha escluso il resto per qualche istante, perché non riusciva a crederci. Si è dovuto avvicinare molto più di quanto avrebbe voluto, solo per pentirsene. Gran parte della pelle che non è stata incisa è coperta di quelle che possono soltanto definirsi cuciture. Migliaia, decine di migliaia di piccoli punti precisi a unire lembi di cute marcescente. Un lavoro incredibile. Le cuciture hanno un’aria geometrica e non è difficile riconoscervi delle logiche curvee. Ma se le incisioni che i crio praticano agli uomini seguono in modo naturale le linee del corpo, queste lo deformano. Nel più grosso dei due cadaveri s’intravedono i fasci di fibre muscolari, tanto la pelle è stata tesa.

Il resto, se possibile, è anche più inquietante.

— Mutazioni! — rantola Sebastiano. Sta piangendo. Gli avevano detto cosa lo aspettava. Lo avevano preparato, ma non riesce comunque a trattenersi.

Il più alto dei due cadaveri in vita è stato un ragazzo prestante. Da morto ha gli arti inferiori uno più piccolo dell’altro. Le dita del piede destro in parte sono fuse, come se la pelle si fosse sciolta intorno alle cuciture in un orrido pasticcio di carne umana. Sulla pianta è cresciuto uno strato corneo a metà tra le scaglie e gli aculei. Il calcagno è lungo quanto la tibia, mentre il femore si è atrofizzato. Dallo stesso lato, il busto è coperto di una fitta peluria lanuginosa. Un’orribile protuberanza simile a una gigantesca sacca di pus ha aperto le ossa del cranio come il becco di un pulcino che spacca il suo uovo.

L’altro ha le falangi di entrambe le mani allungate a dismisura, come le zampe di un ragno. Le unghie sono cadute. La cassa toracica si è aperta in modo asimmetrico, alcune costole quasi capaci di squarciare la cute, altre ripiegate all’interno e sporgenti ai lati. La clavicola è deformata, l’avambraccio quasi fuso al fianco. L’inguine è una poltiglia marcescente da cui sporgono le ossa del coccige.

Sebastiano non riesce a pensare come l’uomo che quel cadavere è stato in vita abbia potuto convivere con una cosa del genere; ci mette un po’ ad accorgersi di essere finito in ginocchio.

— Era molto tempo che non li vedeva? — chiede il Colonnello, appoggiando una mano sulla spalla dello sfregiato.