Huck tira le cuoia e Mark Twain taglia la corda 

Nella casba di Tangeri, infagottato in un abito bianco pieno di macchie, Samuel Langhorne Clemens – meglio noto come Mark Twain, sudato come un gelato, sbronzo come un bonzo 

e fetente come un deficiente – se ne stava sdraiato su un materasso floscio da cui cadevano piume e polvere e, alla luce di una lampada, rifletteva sulla scomparsa delle proprie scarpe e sull’enfio cadavere di Huck Finn, la sua scimmietta. 

Huck giaceva sull’unico scaffale di quella minuscola topaia, tumefatto e ricoperto da grosse mosche bluastre. Dal culo gli ciondolava uno stronzo a forma di fico e altrettanto grosso, e la 

lingua che gli spuntava dalla bocca sembrava voler strisciare verso luoghi più sicuri. Indossava ancora – glieli aveva fatti infilare lui – il cappellino rosso col laccio sottomento e il panciotto verde, ma non c’era più traccia dei calzoncini scarlatti da cui, per questioni di spettacolo, sbucavano le chiappe nude. 

Twain non riusciva a capire perché ci fosse rimasto secco. 

Restava comunque il fatto che, per qualche arcano motivo, Huck era morto e senza brache e che, in un’ultima esplosione gastronomica, era riuscito a incollare quello stronzo a forma di fico su uno dei due soli libri sullo scaffale – Moby Dick – mentre la sua lingua protesa raggiungeva quasi l’altro volume, Ventimila leghe sotto i mari, scritto da un caro amico di nome Jules Verne. 

Ficcato tra quei due libri di avventure marinare, giaceva come in un bacino di carenaggio. 

Twain si alzò con lentezza per poi chinarsi, con un sospiro, sull’animale. La stanza puzzava di scimmia e della relativa merda. Con riluttanza, afferrò Huck per i piedi ma, nel sollevarlo, si accorse che quel tenace stronzo non intendeva affatto mollare la presa sul massiccio tomo di Melville, trascinandolo con sé. Twain dette uno scossone alla scimmia: Moby Dick finì per staccarsi assieme allo stronzo. Poi sbirciò con cautela dall’unica finestra – la casba sottostante era immersa nel buio – e fece volare Huck dall’apertura. 

Fu un lancio pregevole, che fornì alla scimmia un sostanziale abbrivo. 

Poi Twain udì un tonfo sonoro, e si rese conto che tale era stato il suo impeto, nello scagliare via l’animale, da averlo spedito dritto contro un muro, dalla parte opposta dello stretto vicolo. 

Non era certo quello il modo giusto di chiudere una vecchia amicizia, ma Twain non aveva la minima intenzione di seppellire quella piccola figlia di puttana; anzi, il vedersela morire sotto gli occhi l’aveva fatto incazzare non poco. Huck era sparito per un giorno intero, tornando in evidente stato di malessere, e aveva vomitato più di una volta per poi piazzarsi sullo scaffale come a voler schiacciare un sonnellino. 

A un certo punto della nottata Twain si era accorto di un rumore che, per un attimo, aveva creduto provenire dal suo stesso intestino; ma gli era bastato accendere la lampada per capire che in realtà si trattava di quello stronzo a forma di fico schizzato via dal culo di Huck. Poi aveva visto la scimmietta scalciare a ripetizione, prima di restare immobile. 

Troppo sbronzo per muovere anche un solo dito, Twain si era limitato a spegnere la lampada e riaddormentarsi. 

Qualche ora più tardi, distrutto dal mal di testa ma abbastanza sobrio per chiedersi se avesse sognato oppure no, l’aveva accesa di nuovo scoprendo che, in effetti, Huck era ormai defunto come il romanzo vittoriano ma senza neanche la speranza di poter sopravvivere su uno scaffale. Già le mosche se la stavano spassando alla grande, impegnate a perlustrare ogni centimetro dell’animale, e – grazie al feroce caldo africano – dal cadavere di Huck fumigava un tanfo capace di mandare al tappeto un avvoltoio. 

Poche storie. La scimmia doveva sparire. 

Adesso che Huck era ormai uscito in tutti i sensi dalla sua vita, Twain decise di concedersi un drink, scoprendo però di non avere niente da bere. La fiasca in pelle di capra che di solito conteneva del vino era vuota. La gettò a terra, calpestandola nella vana speranza di farne sgorgare qualche misera goccia. 

Niente da fare, purtroppo. Asciutta come un rigagnolo marocchino in piena estate. 

Si tolse la giacca, la scosse e la appese alla spalliera, prima di sedersi e valutare il da farsi. Aveva ormai venduto tutta la sua biblioteca, fatta eccezione per Ventimila leghe, che era firmato dall’autore, e quel Moby Dick con tanto di stronzo. Non possedeva neanche una copia delle proprie opere. 

Che depressione. 

Quando gli parve di essersi rimesso abbastanza in forze, si alzò per prepararsi un caffè nel piccolo bricco di vetro. Un caffè assai leggero, visto che gli erano rimasti solo i fondi del giorno prima, così come nel contenitore di stagno trovò un paio di biscotti stantii che riuscì a mangiare soltanto inzuppandoli in quella brodaglia. 

Nel tempo che impiegò a fare colazione, dalla finestra già filtrava la luce e, dalla casba sottostante, salivano suoni e rumori. 

Soffiò sulla lampada e recuperò il Moby Dick dal pavimento, pulendolo con uno straccio e gli avanzi del caffè. Sul libro rimase una leggera macchia: caffè, per l’appunto, non merda, e poteva anche darsi che in quelle condizioni il volume non perdesse poi molto valore. Tangeri era piena di avidi lettori di qualsivoglia cosa scritta in inglese (esclusi, a quanto pareva, i suoi libri) e non era escluso che da quello, così come dalla copia autografata di Ventimila leghe, riuscisse a tirar fuori qualche spicciolo. 

Forse potevano bastargli per un pasto vero e proprio, frutta e olive, e per un bicchiere di vino. Magari anche per l’affitto. 

Il tutto era comunque assurdo. 

E poi? Non sapeva dove andare a lavorare al suo nuovo romanzo, che aveva preso la stessa piega della sua vita. Tutti quelli che conosceva erano morti. Be’, non tutti. Gli era rimasto qualche amico, per esempio Verne. 

Si mise a rovistare per la stanza, trovando le scarpe smarrite, poi afferrò una grossa sacca di tela bianca e vi ficcò dentro i pochi oggetti personali e il manoscritto in lavorazione. 

Infine prese i due libri. Dopo di che, scese le anguste scale e piombò quasi di corsa nella casba, imbattendosi all’istante in un branco di cani che pasteggiavano col cadavere di Huck. 

Fu infine il più grosso, un bastardo con un solo occhio e per di più semichiuso da chissà quale feccia, a strappare la scimmia dalle grinfie degli altri commensali imboccando di gran carriera il vicolo, con la coda dell’animale che sbatacchiava sul lastricato. 

Twain mollò un sospiro. 

Forse anche lui sarebbe finito così, una volta morto. Gettato in mezzo alla strada, divorato dai cani. 

Sempre meglio che farsi sbranare dai critici letterari. Quei figli di puttana. 

La strada puzzava di pesce marcio e di pesce fresco. Il sangue che grondava dai tavolacci andava a raccogliersi in minuscole pozze color ruggine, insinuandosi tra le commessure del lastricato. L’odore acuto delle olive fin troppo mature impregnava l’aria e gli aggrediva le narici. Twain si aggirò per le viuzze contorte, cosa che fino a sei mesi prima gli sarebbe parsa più complicata del ritrovare la strada nel labirinto di Cnosso, scovando infine Abdul che disponeva la propria mercanzia su un consunto ma ancora splendido tappeto marocchino intrecciato in azzurro, verde e viola. Tra gli oggetti in mostra sul tappeto spiccava qualche libro. Alcuni di quelli li aveva scritti proprio Twain, e provenivano dalla sua stessa biblioteca. Tutti quanti, nessuno escluso, gli ricordavano i soldi che aveva investito in donne e alcol. Soprattutto alcol. 

Abdul occhieggiò Twain, munito di sacca e dei due libri sottobraccio. 

«Amico mio. Altri libri. Vedi bene che non ne ho bisogno.» 

«Questi sono gli ultimi, Abdul. Una volta venduti, prendo il traghetto per la Spagna.» 

«E cosa ci fai, laggiù? Meglio che te ne resti qui, tra amici.» 

«Vecchio filibustiere. Per tutto quel che ti ho venduto mi hai dato un tozzo di pane. Questi sono volumi di pregio.» 

«Non valgono molto.» 

«Ti ho venduto copie firmate dei miei stessi libri.» 

«Ahimè, neanche quelle valgono molto. Senza la firma, forse...» 

«Davvero spiritoso, Abdul. Se non mi sentissi come con un elefante seduto in testa, ti darei una bella ripassata vecchio stile, come facciamo noi in America.» 

Abdul scostò la tunica per far intravedere, agganciata alla cintura, una guaina che conteneva una lama ricurva, sormontata da un’impugnatura in argento e pietre preziose. 

«Be’, lasciamo perdere» disse Twain. «Allora, Abdul, me li compri questi libri?» 

«Giura che sono gli ultimi.» 

«Lo giuro.» 

Twain si accucciò per disporli sulla coperta che Abdul aveva steso a terra. 

«Cos’è questa macchia sul Moby Dick?» 

«La mia scimmia ci ha spiaccicato sopra un fico.» 

«Huck? E dov’è?» 

«Stamattina è balzato dalla finestra. Aveva deciso di suicidarsi, è atterrato dritto di testa.» 

Abdul lo guardò fisso. 

«Anche le scimmie cadono dagli alberi» disse Twain. 

«Molto bene. Posso darti...» 

«In dollari, Abdul.» 

«Molto bene. Posso darti quattro dollari.» 

«Cristo santo, guarda che sul Ventimila leghe c’è una dedica autografa di Jules Verne. Tra tutti e due ne abbiamo a volontà, di materiale per collezionisti.» 

«Okay. Dieci dollari, allora?» 

«Perché non quindici?» 

«Affare fatto.»