Esergo

invaṡióne s. f. [dal lat. tardo invasio-onis, der. di invadĕre «invadere»]. – 1. a. Ingresso nel territorio di uno stato da parte delle forze armate di uno stato belligerante, per compiervi operazioni belliche, con o senza l’intenzione di occuparlo stabilmente; b. La penetrazione in un territorio di popoli che migrano in cerca di nuove sedi; c. Irruzione violenta o arbitraria di persone in un luogo, considerata come reato contro la pubblica economia o contro il patrimonio, quando sia fatta con lo scopo di occuparli o di trarne altrimenti profitto; scherz.: quando molte persone, per lo più amiche, entrano inaspettatamente tutte insieme in un luogo. In giochi a squadra: irruzione degli spettatori sul terreno di gioco durante o alla fine di una partita, per protesta o effettuata per entusiastica acclamazione dei giocatori della propria squadra. 2. a. In relazione ai sign. estens. e fig. di invadere, di qualsiasi cosa che irrompa in un luogo occupandolo o diffondendovisi in gran quantità. Raro col senso di usurpazione, ingerenza arbitraria e sim.; b. In patologia, la diffusione nell’organismo di agenti infettivi.

Vocabolario Treccani della Lingua Italiana

Tutto ciò che desideriamo è vivere fino alla fine del nostro ciclo,

i giorni della nostra razza,

in pace e armonia.

Barry Malzberg, Oltre Apollo (1972)

1. Safari

Non avrebbero potuto chiedere di meglio per il loro primo safari. Arrivati al quarto e ultimo giorno, potevano dirsi più che soddisfatti dell’esperienza. Persino David, come si faceva chiamare per comodità la guida che li aveva scarrozzati in lungo e in largo per la riserva kenyana del Masai Mara, si era complimentato per la loro fortuna: il primo giorno, dopo un paio d’ore attraverso la savana tra giraffe, zebre e gazzelle di Thomson, David aveva fermato di colpo la jeep e si era messo a scrutare l’orizzonte con un binocolo, poi lo aveva passato ai turisti indicando una macchia scura a circa duecento metri da loro. Con un po’ di fatica alla fine lo avevano visto: un rinoceronte nero dalla testa possente e il lungo corno.

David spiegò in un Inglese abbastanza comprensibile che era un esemplare anziano, uno degli ultimi trenta di quella specie braccata e in via d’estinzione. Quando i turisti chiesero di avvicinarsi, lui scosse la testa e rispose alla radio che continuava a gracchiare. Scambiò qualche battuta in lingua maa poi rimase in silenzio mentre i passeggeri si passavano il binocolo. Un’altra jeep apparve come un puntino bianco in lontananza e si fermò anch’essa a debita distanza dal raro animale. David disse che era rischioso avvicinarsi oltre, il rinoceronte poteva caricare il loro mezzo con risultati che nessuno voleva davvero scoprire. Nella stessa giornata avevano visto altri due dei “Big Five”, i cinque animali tra i più difficili e pericolosi da avvistare a distanza ravvicinata in un safari; si erano imbattuti in una mandria di bufali e anche in questo caso la guida aveva mantenuto la distanza di sicurezza; i maschi adulti avevano già puntato il Land Rover in avvicinamento e si erano disposti a protezione delle femmine e dei piccoli. David confessò di essere stato attaccato da un cafro in un paio d’occasioni e di averla scampata per miracolo.

Prima di rientrare al lodge, alla fine della giornata fruttuosa avevano anche assistito alla migrazione degli gnu verso il parco confinante del Serengeti in Tanzania (peccato, spiegò David, che per colpa della siccità quell’anno il fiume fosse sgombro dei coccodrilli che aspettavano al varco le bestie per abbatterle e dilaniarle nelle acque limacciose) e avevano scovato tre ghepardi che si cibavano dei resti inclassificabili di un animale, rosicchiando e scarnificando i pochi brandelli di carne rimasti sulla carcassa. Erano solo a un paio di metri dagli animali che ignoravano la loro presenza; lanciavano occhiate fugaci e sospettose mentre strappavano bocconi di polpa rossa, mostrando le zanne spruzzate di sangue. Lo spolpamento dei resti era compiuto con l’istinto basilare della sopravvivenza e del sostentamento, con una foia priva di cattiveria, che David puntualizzò come un sentimento quasi del tutto sconosciuto nel mondo animale. Il Masai spiegò che i ghepardi potevano superare i cento chilometri orari, ma solo per pochi secondi perché lo sforzo li surriscaldava rischiando di ucciderli. Era per questo che a volte cacciavano in gruppo, perché dopo l’abbattimento della preda erano vulnerabili agli altri predatori, leoni e leopardi in particolare, e dovevano riposare qualche minuto prima di potersi difendere. Disse che i ghepardi non erano tra i predatori più aggressivi nei confronti dell’uomo; i rari casi segnalati riguardavano reazioni istintive di esemplari feriti nei confronti dei soccorritori umani, e avvenivano nelle strutture che ospitavano gli animali prima di essere reintrodotti nel loro habitat naturale, e aggiunse che l’animale con il record più alto di vittime tra i visitatori del parco era in realtà l’ippopotamo. I ghepardi erano sempre meno numerosi, le loro abitudini di caccia diurna compromesse proprio dall’intrusione dei turisti.

Nei giorni successivi la fortuna continuò a sorridere ai quattro amici: David seguì le indicazioni via radio di un’altra guida che aveva segnalato due leonesse in caccia nel loro quadrante della riserva. Arrivarono quando i maestosi felini avevano già abbattuto una zebra, e assistettero a una scena che scambiarono per un comportamento di rispetto quasi umano: la zebra atterrata respirava ancora, la leonessa più giovane teneva bloccata la testa della preda con una zampa e intanto la leccava con un piglio che poteva essere erroneamente scambiato per affetto. La leonessa più anziana era seduta come una sfinge a un passo e puntava lo sguardo sul crinale poco più in là, dove il resto delle zebre era radunato a osservare gli ultimi istanti di vita del loro simile. A un certo punto, la leonessa giovane aveva azzannato il collo della zebra e l’aveva stretto tra le fauci finché non era morta, poi si era fatta da parte lasciando che l’anziana si cibasse per prima. Il particolare più terrificante della scena non era la mattanza della zebra in sé, ma il rumore delle zanne che scalfivano ossa e tessuti molli, come se avessero amplificato un pasto di due gatti affamati. Le leonesse, come i ghepardi, non badarono alla presenza umana a qualche metro da loro e dopo un po’ David ripartì.

Quella sera, tornati al lodge, le due coppie di amici cenarono con gli altri ospiti attorno al grande falò acceso nello spiazzo comune della struttura, gestita da una cooperativa di Masai. Era composto da una dozzina di tende, disposte in una radura cinta da un’alta palizzata di legno (i Masai andavano fieri della presenza di un anziano leone che si aggirava di notte intorno al perimetro del campo), inoltre una pozza d’acqua poco lontano garantiva avvistamenti improvvisati degli animali che andavano ad abbeverarsi. Alcuni Masai parlavano un discreto Inglese, soprattutto le guide e quelli che si occupavano delle prenotazioni e dell’accoglienza, e raccontarono agli ospiti curiose tradizioni locali come il rito della caccia al leone come passaggio all’età adulta, oltre a rivolgere domande ingenue e pittoresche ai turisti: in Europa c’erano le mucche? Era abitudine anche nel Vecchio Continente bere sangue di toro per rafforzare gli anticorpi? Tutti i turisti, anche chi non era nuovo all’esperienza di un safari, concordavano sulla sensazione di trovarsi su un altro pianeta, un mondo alieno reso ancora più credibile quando i Masai indicarono agli ospiti intorno al fuoco di fare silenzio, puntando il dito verso la recinzione: un paio di metri sopra i pali di legno si profilavano le silhouette appena accennate di tre lunghi colli, una famigliola di giraffe curiose venute a dissetarsi alla pozza che li spiava dal buio totale della notte africana.

Il terzo giorno visitarono un villaggio Masai, dove osservarono le attività quotidiane e la produzione di formaggio di capra con metodi antichi, primitivi per chi era abituato a trovarlo confezionato negli scaffali dei supermercati. L’unica nota fuori luogo era lo smartphone di ultima generazione che faceva capolino dalle pieghe della tunica di un vecchio Masai, alto e secco, che impugnava fieramente la sua lancia tribale rivolgendo occhiate di sdegno verso gli occidentali. Il pomeriggio fecero un giro della riserva a bordo di una delle mongolfiere gonfiate in un’area apposita fuori dal lodge. Sebbene suggestivo, sorvolare il parco non era certo come attraversarlo sul Land Rover. Il particolare che rendeva unica l’esperienza a terra, oltre all’emozione di osservare più da vicino gli animali allo stato selvatico, era l’odore che ti restava appiccicato addosso, sui vestiti e sul corpo, anche dopo esserti strofinato a lungo con il sapone sotto la doccia. Era una fragranza quasi indescrivibile: un misto di terra, pioggia, legno, sterco, sudore animale, carne e sangue che riportava a un’età del mondo in cui l’evoluzione umana non era ancora prevista. Era difficile trovare un confronto diretto con quell’odore, che definire “puzza” era corretto e sbagliato al tempo stesso: certe zaffate potevano fare arricciare il naso ma c’era una sottotraccia sconosciuta e misteriosa, quasi “gradevole” nella sua purezza, in quelle scie che si insinuavano nelle narici.

La mongolfiera si librava nell’aria fredda ma abbagliata dal sole ustionante, passando sopra bufali, gnu, gruppi più o meno numerosi di elefanti e giraffe, forse gli animali più curiosi tra quelli che avevano visto, soprattutto per i movimenti ipnotici durante la corsa: il collo elegante e affusolato con la piccola testa che ondeggiava mentre la parte inferiore del corpo, squadrata e massiccia, sembrava eseguire un moto indipendente insieme alle zampe sottili. Era strabiliante che riuscissero a reggere il peso di quella bestia fantastica. La vista da lassù era mozzafiato, ma vedere tutte le altre jeep cariche di turisti che solcavano i sentieri sterrati della riserva toglieva un po’ della magia, dell’illusione speciale di sentirsi novelli esploratori che per primi avevano scoperto un continente sconosciuto.

L’ultimo giorno del safari iniziò poco prima dell’alba. Carlo uscì dalla tenda che era ancora buio e s’incamminò puntando la torcia dello smartphone sul sentiero. David lo aspettava con l’altra coppia di amici nello spazio adibito a rimessa delle jeep. Erano partiti da Roma per festeggiare l’anniversario dei rispettivi matrimoni, dopo il safari avevano prenotato una settimana in un resort a Diani prima di trascorrere l’ultima notte a Mombasa e infine tornare in Italia.

– Sara? – chiese Antonio, già seduto nel Land Rover con sua moglie Giulia ancora semi addormentata al suo fianco.

– Non sta bene – rispose Carlo. – Niente di grave, credo indigestione. Ha vomitato un paio di volte durante la notte, le dispiace molto ma non se la sente di muoversi. – Aveva provato a convincerla e poi a insistere per restare con lei, ma Sara lo aveva rassicurato e praticamente spinto fuori dalla tenda perché non rinunciasse all’ultima giornata tra gli animali e la natura incontaminata.

David mise in moto il fuoristrada e illustrò il programma della giornata, che comprendeva un picnic nella savana. Mentre si addentravano nella riserva il sole sbucò da una coltre di nubi dense e nere, spazzando via ogni ombra con una luce intensa che trasfigurava il paesaggio con potenza divina. Pochi minuti dopo che furono in marcia, David fermò la jeep. Carlo e Antonio stavano preparando le loro macchine fotografiche. Quando furono pronti per scattare dissero a David che poteva muoversi, ma lui sembrava non capire. Dopo un po’ chiesero cosa aspettava, il Masai si voltò a guardarli come se fossero due idioti e puntò un dito alla loro sinistra. A pochi metri da loro, un grosso elefante stava frugando con la proboscide tra i rami di un’acacia. Era completamente mimetizzato, la luce rossastra dell’alba si era spalmata sul suo manto rendendolo invisibile a un occhio non allenato.

Procedettero per un paio d’ore lungo sentieri sterrati, già battuti da altre guide e altri visitatori, fermandosi di tanto in tanto quando David indicava dettagli che a loro sfuggivano del tutto. Il Masai teneva la radio sempre accesa, spesso parlava nella sua lingua con altre guide. Verso metà mattina, dopo uno dei suoi brevi e incomprensibili scambi in maa con i colleghi, cambiò direzione e aumentò la velocità. Disse di avere ricevuto la segnalazione di un branco di leoni con i cuccioli, e voleva arrivare prima della torma di altri fuoristrada che probabilmente stavano accorrendo verso la stessa destinazione.

La sua fretta si rivelò giustificata.

Quando arrivarono c’era solo un’altra jeep sul posto, una manciata di turisti asiatici spuntava dal tettuccio panoramico con obiettivi così ingombranti che le loro macchine fotografiche sembravano telescopi astronomici. Meno di due minuti dopo ne videro arrivare un altro paio. I leoni riposavano all’ombra di una macchia di alberi e cespugli, un maschio e tre leonesse con i cuccioli. Carlo usò lo zoom per inquadrare il muso del leone, che a quanto spiegò David giudicando dalla criniera era ancora piuttosto giovane. Tra le altre informazioni che fornì mentre Carlo e Antonio scattavano a ripetizione la stessa identica foto, solo Giulia ascoltò la parte in cui la guida diceva che se un altro maschio avesse sconfitto il giovane per diventare il nuovo capo branco, poi avrebbe divorato i teneri cuccioli che in quel momento giocavano sotto lo sguardo assonnato delle leonesse. Era una questione di territorialità. In quel momento udirono un fruscio da un albero vicino alla loro jeep, la guida si voltò di scatto e fecero in tempo a vedere un leopardo appollaiato su un grosso ramo, dove aveva trasportato la sua preda per finirla in santa pace. Spaventato dall’orda di veicoli ed esseri umani, il felino scese dal tronco artigliandolo agilmente e poi scappò via lasciando la carcassa a penzolare dal ramo.

Vagarono per la riserva fino all’ora di pranzo. Dopo avere assistito a una feroce schermaglia tra un gruppo di avvoltoi e un piccolo branco di licaoni per accaparrarsi i resti di una preda sfortunata, David cercò un posto dove fermarsi per il picnic. Anche se con una leggera esitazione, alla fine decise di uscire dalla pista sterrata e attraversare una parte all’apparenza intonsa della savana. Era uno spazio infinito, una distesa punteggiata da alberi solitari che sembravano schiacciati dai nuvoloni bianchi e plastici, quasi scolpiti nel cielo turchese. La guida lasciò il Land Rover a pochi metri da un baobab dal fusto massiccio e dalla chioma piatta e larga, che offriva un’abbondante porzione di ombra. Prima di farli uscire dal fuoristrada scese impugnando un machete e lo picchiò a terra mentre si avvicinava all’albero, poi lo usò per colpire ripetutamente il tronco. Si voltò e sorrise ai turisti che lo fissavano perplessi.

– Snakes – disse, poi fece loro segno di scendere.

Si trovavano a un’altitudine di circa 1.700 metri; quando si erano alzati per l’escursione avevano dovuto indossare una felpa pesante per proteggersi dal gelo, adesso faceva un caldo terribile, con il sole alto nel cielo che bagnava il panorama con una luce nitida e spietata. David tirò fuori dal retro della jeep un tavolino pieghevole e tre sedie simili a quelle usate dai registi del cinema, dispose tutto all’ombra dell’albero infine servì ai tre italiani altrettanti cestelli con il loro pranzo preparato dal cuoco del lodge, oltre a una bottiglia di vino bianco che lasciò stappare a Carlo. Declinò rispettosamente il loro invito a unirsi a loro, e restò in piedi appoggiato alla jeep, incurante della temperatura e del sole che gli batteva addosso. Di tanto in tanto la radio a bordo gracchiava, ma quel rumore artificiale e moderno non infangava l’atmosfera idilliaca che i tre turisti stavano assaporando insieme al Riesling sudafricano appena versato.

– È un peccato che Sara non ci sia – commentò Giulia dopo un brindisi alla loro amicizia e a quel magnifico viaggio. Si ripromisero di organizzare un safari ogni anno. Mezz’ora dopo, sazi, rilassati e al settimo cielo, i tre amici avevano ripulito i cestelli e svuotato la bottiglia. David infilò il busto nella jeep e riemerse con il binocolo in mano, lo puntò all’orizzonte e rimase immobile a osservare. Carlo se ne accorse e si distrasse dalla conversazione per spiarlo. Sotto le chiacchiere allegre di Antonio e Giulia gli parve di udire dei versi lontani, e guardò nella direzione dove David puntava il binocolo. Vide qualche punto scuro muoversi nella savana, e si voltò verso la guida. David abbassò il binocolo e Carlo si accorse della sua espressione accigliata. Il Masai incrociò il suo sguardo per un attimo e tornò a scrutare nella direzione di prima. La radio della jeep riprese a gracchiare, una cacofonia di statica e voci incomprensibili. Dopo un momento Carlo si alzò, lo raggiunse e chiese cosa aveva visto. Quello ci pensò sopra un momento, forse in cerca delle parole corrette in Inglese, infine rispose che era un piccolo branco di iene; niente di cui preoccuparsi a quella distanza. Ma la sua espressione era offuscata da qualcosa, e continuava a puntare il binocolo lontano, oltre la dozzina di iene che punteggiavano il paesaggio, su un banco di nuvole che si stava ammassando all’orizzonte. La radio sulla jeep gracchiò di nuovo, una voce di donna emerse concitata dal ronzio fastidioso di rumore bianco. David abbassò di colpo il binocolo e salì al posto di guida, afferrò la trasmittente e disse qualcosa in maa. Rimase in attesa della comunicazione successiva, e ripeté la stessa frase più volte. A quel punto anche Antonio e Giulia si erano accorti del turbamento in corso e si alzarono dal tavolo.

– C’è qualche problema? – chiese Antonio.

Dalla radio esplose una salva di statica, poi la donna parlò di nuovo con un tono quasi spaventato. David rimase in ascolto, poi disse qualcosa e aspettò la risposta. A un certo punto la radio si spense di colpo. David tentò di ripristinare le comunicazioni, poi agganciò la trasmittente scuotendo la testa. Guardò i tre turisti di cui era responsabile. Tutti loro si accorsero che aveva una faccia diversa da prima. Questa volta con più decisione, Carlo chiese delucidazioni.

David fece segno di aspettare, scese a terra e puntò di nuovo il binocolo in lontananza, poi si affrettò a liberare il tavolino, lo ripiegò e caricò tutto sulla jeep senza dire una parola.

– Cosa succede? Perché tanta fretta? – chiese Giulia allarmata.

Antonio afferrò il Masai per una spalla e gli domandò in Inglese con voce ferma di spiegare la ragione di quello strano comportamento. – Che cosa hai visto? Gli animali o altro?

David si divincolò subito dalla presa e gli lanciò un’occhiata simile a quella dei predatori che avevano tanto ammirato in quei giorni, poi gli passò il binocolo indicando il gruppo di iene avvistate poco prima. Erano più vicine, molto più vicine, e li puntavano avanzando a testa bassa con quel loro ghigno sgradevole e inquietante. La guida gli sollevò il binocolo da sotto le lenti, per orientare lo strumento sopra la savana gialla e infinita davanti a loro, sullo strato di nuvole che si era addensato a una velocità formidabile. Forse era un fenomeno atmosferico comune da quelle parti, e gli africani erano abituati, ma quel muro di strane nuvole biancastre si avvicinava molto rapidamente per la sua enorme massa.

– È un temporale in arrivo? – chiese Antonio. La guida alzò le spalle ma gli fece capire che era meglio muoversi, riprese il binocolo e spronò i tre turisti a salire a bordo, poi montò al volante e partirono rapidamente.

David lanciava occhiate davanti a sé e nello specchietto, verso le iene ora quasi arrivate al baobab dove pochi minuti prima avevano consumato un picnic da favola. Mentre si allontanavano a velocità sostenuta, David tentò inutilmente di resuscitare la radio. Carlo chiese con insistenza di cosa si trattava, il Masai sembrava agitato al punto da ignorare la loro presenza. La sua irrequietezza improvvisa, agli antipodi dalla calma serafica con cui nei giorni precedenti gli aveva illustrato orrori e meraviglie di quell’habitat ancestrale, aumentò la tensione tra i passeggeri e la guida. Carlo prese lo smartphone dalla tasca e chiamò Sara, ma non c’era campo e tutti i suoi tentativi, oltre a quelli dei suoi due amici, risultarono altrettanto infruttuosi degli sforzi di David di ripristinare il contatto radio con il campo base. Attraversarono la savana in linea retta per circa mezz’ora, in silenzio, quando il Land Rover emise una specie di ronzio e rallentò fino a fermarsi a pochi metri da un branco di zebre che pascolavano placidamente nella luce accecante e calda.

– Che succede adesso? – esclamò Antonio aggrappandosi al poggiatesta di David. La guida provò a mettere in moto il fuoristrada senza fornire spiegazioni. Giulia si guardava intorno nervosa. – Si è scassata la jeep? E ora? – chiese senza ottenere risposta.

David girò più volte la chiave nel quadro ma il motorino d’avviamento non dava segni di vita, il cruscotto era spento e, come constatarono tutti a bordo, ogni apparecchiatura elettrica ed elettronica era inutilizzabile. Nell’abitacolo calò un silenzio inquieto. David aprì il vano portaoggetti, tirò fuori una mappa della riserva e la dispiegò davanti a sé sull’ampio cruscotto. Segnò la loro posizione con un cerchio a penna e mostrò ai tre turisti la distanza dal lodge: una manciata di chilometri. Una gita fantastica nella sicurezza del fuoristrada in movimento, tutt’altro paio di maniche se il veicolo restava in panne lì in mezzo.

– Avete visto? Laggiù! – strillò all’improvviso Giulia.

Si voltarono tutti, incrociando lo sguardo di una zebra che ruminava qualche ciuffo d’erba in serenità.

– Non vedo niente… – commentò a bassa voce Carlo.

– Giulia… sono innocue zebre… e poi c’è David con noi, lui sa sicuramente cosa fare. Siamo al sicuro finché restiamo nella jeep – disse Antonio per rassicurarla, ma era chiaro il suo sforzo di mantenere la calma. Anche lui aveva avuto l’impressione di cogliere un movimento nell’erba alta, ma preferì tenere la bocca chiusa per non aumentare l’angoscia già palpabile. Il Masai si allungò verso i sedili posteriori, quasi schiacciando Giulia con il suo corpo magro e flessuoso, e sbloccò uno scomparto agganciato al tettuccio da una serie di bottoni a pressione. Dentro era fissato un fucile da caccia Ruger Hawkeye.

– Allora c’è qualcosa! Avevo ragione! – cominciò a strepitare Giulia mentre suo marito e Carlo provavano a tranquillizzarla, ma erano tutti terrorizzati, compreso David che faceva del suo meglio per mascherarlo. Esaminò rapidamente il fucile e controllò che fosse carico e con il colpo in canna, poi si voltò verso di loro e per metà in Inglese e per metà a gesti si raccomandò che non uscissero dal veicolo. Per nessuna ragione.

Lo scatto metallico dello sportello che si apriva rimbombò come una profanazione in quel silenzio edenico, agitato solo dal fruscio dell’erba e dagli sporadici sbuffi delle zebre al pascolo. Appena David posò i piedi a terra, Antonio e Carlo si issarono sul tettuccio panoramico coperto. Antonio usò lo zoom della sua macchina fotografica per scrutare tra le zebre, ma non vide altro che le loro strisce in mezzo all’erba gialla. Il Masai si arrampicò agilmente sul cofano della jeep e rimase immobile, con gli occhi puntati sul branco. Poi lo udirono tutti. Un fruscio, il suono inequivocabile di un corpo che si spostava velocemente nel campo davanti a loro. David alzò il Ruger e lo puntò sul branco di zebre.

– Che cos’è? – ripeteva Giulia con gli occhi lucidi per la paura.

– Lo vedo! – esclamò Antonio ancora attaccato alla sua reflex. – Laggiù! – indicò un punto in mezzo a tre zebre e si voltarono tutti, compreso David che aveva il dito pronto sul grilletto.

– Cos’hai visto? – chiese Carlo.

L’altro scosse la testa. – Un animale, sembrava grosso. Forse un leone… – azzardò incerto.

Le zebre drizzarono la testa verso un punto nei loro paraggi, ma senza scomporsi o fuggire spaventate; un comportamento strano nell’ipotesi di un predatore nelle vicinanze. David mirò in quella direzione. Un attimo dopo uno stormo di uccelli si librò da terra a una decina di metri dalla parte opposta. Appena David si girò da quella parte una sagoma apparve dall’erba tra il branco di zebre e avanzò quatta quatta verso la loro jeep. Il giallo del suo manto maculato era quasi identico alla tinta dell’erba, e forse nemmeno David avrebbe notato le chiazze nere a quella distanza. Era un leopardo di taglia media, un esemplare giovane. Rimase a un paio di metri dal veicolo, immobile tranne che per gli occhi con cui passava in rassegna gli umani. Carlo e Antonio cominciarono a scattare maniacalmente con le loro macchine, nonostante i brividi procurati dall’apparizione di quel predatore letale. Anche David era paralizzato, teneva il fucile puntato sull’animale, pronto a premere il grilletto se si fosse avvicinato anche di un solo passo.

E così fu.

Dopo un minuto circa, il leopardo piegò le zampe posteriori per scattare in avanti con un gesto atletico. Il Masai non gli lasciò il tempo di concludere il movimento e scaricò il fucile scagliando l’animale un metro all’indietro.

– No! – urlò Giulia d’istinto, forse per lo spavento del colpo, o per il significato implicito del suo messaggio di morte. Antonio e Carlo la guardarono perplessi. Era impazzita?

Il boato congelò le zebre sul posto, ma dopo un attimo partirono di corsa spaventate e li lasciarono soli con la carcassa del felino. Giulia era attaccata al vetro del finestrino e guardava nel punto dove l’animale era stato abbattuto.

– È morto? – domandò Carlo.

David era già pronto a sparare di nuovo, si guardò intorno e dopo un momento balzò giù dal cofano del Land Rover e avanzò con cautela verso il leopardo a terra. La risposta alla domanda di Carlo arrivò con il secondo colpo di fucile, e giudicando dal sollievo con cui la guida abbassò l’arma, adesso il pericoloso felide doveva essere morto. La guida mollò un paio di calcetti al corpo dell’animale per esserne sicuro, appena fece per tornare al fuoristrada un’altra macchia gialla e nera schizzò dall’erba e lo travolse gettandolo a terra. Giulia era paralizzata dal terrore, Antonio mollò la presa dalla sua macchina fotografica che cadde rompendosi sul tappetino della jeep; Carlo aveva così paura che quasi non ricordava il proprio nome. Guardarono nel punto dove David era stato falciato e fecero in tempo a vedere le sue gambe trascinate via nell’erba alta. Carlo si sentì osservato e si voltò di scatto. Un altro leopardo era sbucato dalla parte opposta e fissava la jeep.

Giulia era piegata in due sul sedile per lo spavento. Dall’erba dove era sparito David spuntò la testa del leopardo che l’aveva steso, con il muso imbrattato di sangue e brandelli della guida incastrati tra le fauci. Antonio imprecò e frugò nel vano portaoggetti e nelle tasche laterali degli sportelli in cerca di qualcosa con cui difendersi, senza trovare niente. Il fucile di David era a terra, impossibile pensare di afferrarlo più velocemente dello scatto di un leopardo.

– Il machete – disse Carlo con un filo di voce.

La loro guida aveva sempre un machete con sé, l’aveva picchiato contro il baobab quando si erano fermati per il picnic. Si girò verso il bagagliaio del fuoristrada con il tavolino e le sedie piegati, oltre a coperte, due taniche di benzina e cianfrusaglie assortite. Vide il machete appoggiato alla ruota di scorta e si allungò per recuperarlo, anche se era troppo in fondo per raccoglierlo con agio. Mentre scostava Giulia di peso per raggiungere l’arma il fuoristrada barcollò violentemente, Giulia strillò e Antonio sussurrò: – No… no… no… . – Carlo si voltò e vide uno dei leopardi adagiato come una sfinge maculata sul cofano del Land Rover, guardava all’interno con gli occhi socchiusi e il respiro affannato. L’altro stava divorando David.

– Non vi muovete – disse Carlo, ancora per metà sdraiato tra i sedili posteriori e il bagagliaio. Un intenso odore di urina riempì l’abitacolo, un rivolo di liquido colava lungo la gamba di Antonio, che non era mai stato così bianco come in quel momento. Il leopardo sul cofano sembrava assonnato, si leccava le zampe e ogni tanto guardava l’altro senza partecipare al banchetto, per poi riportare la sua attenzione sui tre umani chiusi nella loro scatola di ferro e vetro. La paura interruppe il corso regolare del tempo, i loro telefoni e l’orologio elettronico della jeep erano fuori uso; non potevano dire quanto durò l’assedio, sembrava un’eternità. Il sole era ancora alto nel cielo quando il leopardo scese dal cofano e raggiunse l’altro, addormentato e satollo accanto ai resti della guida.

– È finita – sussurrò Giulia.

– Smettila! – intimò Antonio, nervoso e immobile al posto del passeggero. Con movimenti lenti e cauti provò ad attivare la radio. – Cosa facciamo? – chiese dopo l’ennesima conferma che non funzionava.

– Quando non ci vedranno tornare manderanno qualcuno a cercarci, magari i ranger del parco. Con un po’ di fortuna, potrebbe passare un’altra jeep di turisti – rispose l’amico con ottimismo forzato. Pensava a sua moglie Sara, rimasta nel lodge.

– Fortuna? – ridacchiò Giulia.

Restarono in silenzio a lungo, tenendo d’occhio i due predatori che non sembravano avere alcuna fretta di andarsene. Carlo, con il binocolo della guida, controllava che almeno le iene non li avessero seguiti fino a lì. Poi, di colpo, i leopardi s’inoltrarono nell’erba alta e sparirono alla vista. La luce cominciava a declinare. Antonio afferrò la mappa della riserva e studiò la loro posizione segnata dalla guida.

– Ci vorranno almeno due ore per tornare al lodge – annunciò dopo qualche minuto.

– E come vorresti tornarci? – chiese Giulia, ma lui non rispose.

– No – disse Carlo scuotendo la testa con decisione. Posò il binocolo e guardò l’amico, aveva inteso la sua allusione di attraversare a piedi i pochi chilometri che li separavano dal campo. – I leopardi non sono gli unici animali di cui preoccuparci se vogliamo tentare una corsa, e tra non molto calerà il sole – disse indicando il lucore arancione che cominciava a colorare l’orizzonte, screziato dal banco di nuvole che sembrava avere rallentato la sua corsa. Era una barriera orizzontale bianco-grigia di strani cumuli, che si agitavano e cambiavano spesso forma senza mai spezzarsi. Sperò che rimanesse a quella distanza anche durante la notte. Ci mancava solo una tempesta.

Antonio si guardò intorno. I leopardi erano spariti, ma era ragionevole supporre che non si fossero allontanati troppo. Avevano trovato un ricco buffet a cui servirsi senza bisogno di correre dietro ad altre prede. E poi c’era il resto del bestiario africano pronto a ucciderli dopo pochi metri nella savana: oltre ai grandi felini c’erano altre bestie pericolose e i serpenti da considerare, ed era una vera fortuna se in quei pochi giorni non ne avevano visto nemmeno uno. – A ogni modo, ci serve un’arma – disse Antonio e puntò gli occhi sul Ruger a terra fuori dalla jeep.

– Non pensarci neanche – intervenne Giulia.

Carlo si allungò nel bagagliaio e prese il cestello da picnic di Sara, rimasto intoccato per la sua assenza. – Vediamo se sono davvero andati via.

Giulia cominciò a protestare. Carlo si issò per sbirciare dalla fessura del tettuccio, troppo sottile perché una di quelle bestie riuscisse a fare breccia, ma abbastanza larga per lanciare fuori il cibo. Staccò un pezzo di club sandwich e lo lanciò il più lontano possibile, seguendo l’arco di pane tostato, insalata e pollo che precipitavano sull’erba come i pezzi di un aereo che si sfaldava un po’ alla volta in volo. Rimasero immobili e in silenzio, pronti alla ricomparsa dei leopardi attirati dal rumore e dall’odore. Ma non successe niente.

– Ancora – lo incitò Antonio.

Carlo staccò un secondo pezzo di sandwich e lo lanciò in un’altra direzione.

Niente.

– Proviamoci – disse Carlo dopo un minuto.

Antonio annuì e scacciò le mani di sua moglie che tentava di impedire un’azione folle e disperata. Antonio scambiò una rapida occhiata con Carlo; si era già munito di un altro boccone ed era pronto a scagliarlo fuori.

– Ora – disse Antonio, e aprì lo sportello nello stesso istante in cui una banana e la metà rimasta del sandwich volarono dalla parte opposta della jeep per distrarre gli eventuali predatori. Balzò giù dal Land Rover, fece pochi metri di corsa e afferrò il manico del fucile tirandolo a sé. Non poté fare a meno di lanciare un’occhiata al punto in cui giaceva il corpo maciullato di David, che sarebbe dovuto affiorare dai ciuffi d’erba gialla. Non c’era più. Era stato trascinato via, probabilmente per essere consumato su qualche ramo di acacia o baobab, proprio come la loro sfortunata guida gli aveva mostrato con entusiasmo nei giorni precedenti con i resti di una gazzella o qualche altra preda. Antonio si sforzò di non pensarci, tornò indietro altrettanto rapidamente e si rintanò nell’abitacolo tirando un sospiro di sollievo e ridendo per scaricare l’adrenalina.

– E adesso? – chiese Giulia.

Fuori era quasi buio.

– Aspetteremo l’alba – disse Carlo.

– Almeno abbiamo un’arma con cui difenderci – gli fece eco Antonio, ringalluzzito dall’impresa appena compiuta.

– Hai mai usato un fucile in vita tua? – chiese perplessa Giulia.

Lui ci pensò sopra mentre controllava il Ruger con apparente perizia. – Mio zio Enrico era un cacciatore, da ragazzo l’ho seguito in qualche battuta. Non ti preoccupare – rispose e si voltò a fissarla sollevando un momento l’arma, come a dire: “Ci siamo noi a difenderti, stai tranquilla”.

– Da non crederci – sghignazzò lei e batté le mani.

Prima si piscia addosso e ora parla come se fosse il re della foresta, solo perché imbraccia un fucile che non sa usare, pensò Giulia. Chissà a quali battute aveva partecipato con suo zio Enrico, poi: innocui fagiani e cervi, al massimo un paio di cinghiali. Suo marito era nato e cresciuto nella bambagia, con le mani più delicate del pianeta, al massimo aveva i polpastrelli schiacciati per il troppo tempo passato a battere sui tasti del computer. Antonio era il tipo di uomo che telefonava orgoglioso agli amici per annunciare di avere cambiato con successo una lampadina.

Stabilirono di trascorrere la notte nella jeep. Giulia crollò spossata sui sedili posteriori. Carlo si sistemò come meglio poteva nel bagagliaio, stringendo a sé il machete di David e senza smettere di osservare i dintorni, anche se l’oscurità era assoluta; decise di concentrarsi più sui rumori circostanti, senza ottenere grandi risultati se non spaventarsi a ogni fruscio e scalpiccio lontano. Antonio sembrava imbambolato, fissava la notte dal parabrezza del Land Rover, abbracciato al fucile. Nessuno parlò per un bel pezzo, e Antonio riuscì a immergersi in un sonno a sprazzi, torbido ed esausto, popolato da sogni frammentati e incoerenti che dimenticava subito. Si svegliò per un colpo sulla spalla. Carlo lo chiamava sottovoce per non svegliare Giulia, indicò davanti a loro con un cenno del capo. Si era spostato accanto a lui sul sedile anteriore mentre dormiva. Sembrava sveglio e lucido. Antonio si sfregò gli occhi, si sporse sul cruscotto e guardò. Un rossore sospeso sopra la linea dell’orizzonte, che dalla loro posizione era più facile misurare in centimetri di lunghezza che in chilometri di distanza, bucava il nero pece della notte. I due amici si scambiarono un’occhiata. Proveniva dal lodge? Carlo afferrò d’impulso il telefono e provò ad accenderlo, ma lo smartphone non ne voleva sapere di ubbidire. Frustrato, lo gettò con rabbia sul pavimento della jeep e ruppe il display. Giulia si svegliò per il tonfo e per l’imprecazione di Antonio.

– Cosa succede? – chiese con la voce impastata.

Antonio le indicò il bagliore, anche lei pensò subito al lodge e a Sara che era rimasta lì. D’istinto si voltò verso Carlo e gli posò una mano sul braccio, guardandolo con un’espressione strana, all’improvviso quasi distratta.

– Che cos’è? – chiese Giulia.

– Sembra un incendio – rispose Antonio.

– Non quello, intendo là in fondo – ribatté lei sporgendosi quasi contro il vetro. Come avevano fatto a non accorgersene?

Si voltarono anche i due uomini.

– Sembra l’aurora boreale… ma succede anche in Africa? – disse Antonio stupito.

Un riverbero verdastro copriva una porzione di cielo notturno nel punto in cui si era ammassato l’enorme strato di nuvole.

Bang!

Il fuoristrada oscillò violentemente sollevandosi di qualche centimetro su due ruote. I tre occupanti urlarono per lo spavento. Appena il veicolo si stabilizzò Antonio imbracciò il Ruger, Carlo brandì il machete e Giulia si schiacciò contro il sedile per sbirciare da un angolo del finestrino.

– Che cos’era? – chiese Carlo.

Antonio stringeva il fucile sorvegliando da destra a sinistra oltre il parabrezza, senza vedere altro che inchiostro. – Una bella botta – commentò quasi tra sé.

– Un rinoceronte? – propose Carlo, la sua domanda cadde nel vuoto.

Passò qualche minuto lungo come secoli, poi Antonio ruppe il silenzio.

– Non possiamo stare qui.

– Cosa intendi? – chiese Giulia, che in realtà aveva già capito.

– Non è più sicuro – rispose.

– Ti sei bevuto il cervello? Antonio! – urlò lei furiosa. – Qui siamo più al sicuro che là fuori! – Allungò un indice verso la savana nera.

– Siamo armati – insistette il marito con poca convinzione.

Giulia scuoteva la testa, incapace di credere a quella proposta.

– Antonio ha ragione – mugolò Carlo dopo un momento.

– Cosa? Siete entrambi impazziti? – Giulia era troppo incredula per piangere dalla disperazione. – Anch’io sono preoccupata per Sara, ma uscire dalla jeep è pura follia. Stamattina c’era un elefante a meno di cinque metri dal finestrino e non l’abbiamo visto. Un elefante! Quanto sperate di sopravvivere lì fuori, di notte, con quei leopardi che hanno sbranato la nostra guida e probabilmente sono ancora nei paraggi? Cinque minuti, trenta secondi? -

Antonio si rivolse a sua moglie con grande calma e sicurezza. – Tu resta qui, quando la radio e i telefoni riprenderanno a funzionare potrai chiamare aiuto. Mi raccomando, non uscire mai dalla jeep.

Giulia era paralizzata dalle altitudini a cui poteva arrivare la paura umana, quando panico e disperazione davano una spallata alla ragione e la follia soppiantava la logica. Non trovò niente con cui ribattere, poté solo scuotere la testa allibita, con le lacrime che si rifiutavano di scorrere di fronte a tanta stupidità.

Non preoccuparti, e non uscire mai dalla jeep.

– Siete pazzi – sussurrò, senza reagire nemmeno quando Antonio si allungò a baciarla sulle labbra gelide. Anzi, in quell’istante non lo riconobbe nemmeno come suo marito, il suo uomo, ma come una fonte di imbarazzo, al punto da rinnegare la propria intelligenza per avere voluto, anzi scelto proprio lui per mettere al mondo un figlio. Doveva essere la grande notizia, il coronamento perfetto di una vacanza stellare: l’annuncio di essere incinta. Aveva aspettato i consueti novanta giorni, e non l’aveva confidato davvero a nessuno, e non vedeva l’ora di condividere quella gioia e felicità finora inesprimibili. Generare una vita. Diventare madre.

Ritornò al presente quando lo sportello si chiuse con violenza, e un attimo dopo Carlo e Antonio apparvero come ombre veloci in un’oscurità più grande di loro; sfrecciarono accanto alla jeep per sparire inghiottiti dal buio e dall’erba alta. Correvano dritti verso il bagliore rossastro all’orizzonte, senza voltarsi indietro. Lei rimase a scrutare la notte. Meno di dieci minuti dopo udì lo sparo. Non sembrava molto lontano. Poi un secondo boato. Un grido di dolore. Voci concitate nel silenzio della notte. Un nuovo colpo di fucile. Un ululato che di animale aveva solo la brutalità, ma che riconobbe come la voce sofferente di Antonio. Infine più nulla.

Giulia sentì un rombo crescere nella sua testa fino a esplodere, e solo allora reagì nell’unico modo possibile. Il vuoto che sentiva occupare tutto il torace si compresse in un bolo di materia oscura, decollò come razzo e uscì dalla sua bocca come un urlo disumano, una lingua universale parlata da ogni forma di vita intelligente, in ogni era geologica, da sempre. Un urlo che avrebbe fatto inginocchiare in segno di rispetto qualsiasi predatore alfa, animale o no. Non durò a lungo e terminò come era iniziato, ma al contrario, con un’implosione: come se la bocca spalancata di Giulia avesse risucchiato l’aria appena espunta. Poi si sentì sfinita. Rimase sdraiata sui sedili posteriori del Land Rover, con gli occhi puntati sul tettuccio panoramico, senza davvero vederlo. E udì un ringhio. Proveniva dalla parte posteriore del fuoristrada. Giulia si sollevò cautamente con il busto per sbirciare verso il lunotto del bagagliaio, inzaccherato da terra e polvere. Non si vedeva niente.

Il ringhio si ripeté.

Proveniva dal buio stesso. Giulia si allungò di nuovo sui sedili e chiuse gli occhi, l’ultima cosa che avrebbe immaginato di fare. Eppure si sentiva davvero al sicuro, adesso che aveva marcato il suo territorio. Riuscì persino ad addormentarsi, senza accorgersi di tenere le mani incrociate sul grembo, come uno scudo protettivo o un talismano sacro.

Aprì le palpebre per la luce. Era già sorto il sole, anche se non da molto. Non stava sognando, era come se uno scossone l’avesse strappata al sonno. Per prima cosa provò ad accendere il telefono, la radio e il motore della jeep. Niente da fare. Esaminò i dintorni del veicolo sforzandosi di ragionare lucidamente, in modo pragmatico. Era ancora in panne, non funzionava niente, la guida, suo marito e Carlo erano morti e lei non aveva opzioni. Se non cedere alla loro stessa follia. O resistere… ma fino a quando?

Decise di aspettare, avere fiducia. Non poteva essersi spento tutto così, di colpo. Doveva essere un calo di qualcosa. Ma lei non ne sapeva niente delle possibili ragioni, e doveva solo affidarsi alla speranza. La jeep ondeggiò dolcemente, come lambita da un corpo massiccio. Giulia restò immobile, spostava solo gli occhi da destra a sinistra. Si sentiva spiata, era una sensazione ineluttabile. Ma non capiva da quale direzione. Si girò lentamente verso la parte posteriore del veicolo e guardò oltre il lunotto sporco e dai finestrini. Niente. Alzò la testa sul tettuccio panoramico. Due paia di occhi si affacciavano dalla fessura, musi maculati e lunghe vibrisse. Non emettevano alcun verso, ringhio o mugolio. I leopardi sbirciavano nell’abitacolo senza provare ad aprire un varco, né mostravano le zanne. Guardavano lei.

Uno sparo li mise in fuga. Balzarono giù dal tettuccio del Land Rover e si dileguarono nell’erba alta in direzioni opposte.

– Giulia!

Guardò fuori dal parabrezza. A una decina di metri davanti al muso del fuoristrada, Carlo arrancava nell’erba con il fucile puntato. Non aveva un bell’aspetto. Era lordo di sangue, con i vestiti dilaniati e lembi di carne sfilacciata su gambe e torace, staccati a morsi come piccoli assaggi. La faccia era piena di graffi e tagli, lui senza fiato.

Giulia si issò sul tettuccio panoramico per avere una visuale migliore e li vide prima di lui. E non seppe pronunciare una sola parola. Erano perfetti e meravigliosi nella loro feroce armonia, e non avrebbe potuto fare comunque niente per salvarlo. Un leopardo si muoveva nascosto nell’erba alta alla sua sinistra, vedeva gli steli piegarsi sotto il suo peso, mentre l’altro stava aggirando la preda alle spalle. Agivano come un’unica cosa, e in quel momento le sembrò quasi giusto che Carlo e Antonio pagassero per la loro stupida avventatezza.

– Giulia… – la chiamò di nuovo con un filo di voce, era a pochi metri dalla jeep. Girava su se stesso con il fucile spianato, senza immaginare dove fossero acquattati i predatori. Lo tenevano d’occhio, senza fretta, come per ascoltare ciò che si sforzava di dire. Era spossato, faticava a tenere sollevata l’arma, ma riuscì ad alzarla per indicare lontano. Giulia seguì la direzione. Il banco di nuvole si era avvicinato, era a una distanza incalcolabile in quella vastità e nelle condizioni mentali in cui si trovava, ma comunque più vicino. Emetteva una specie di pulsazione, come un movimento al suo interno, e sembrava ammantato da un riverbero verdastro che propagava verso terra. Aveva l’aspetto di una strana pioggia di luce.

– Gli animali… – farfugliò Carlo.

– Dov’è Antonio? – chiese lei pur immaginando la risposta certa.

L’altro la guardò per un istante. Giulia rimase sconcertata dalla sua espressione, il terrore gli aveva quasi cambiato i lineamenti. Sembrava un’altra persona, qualcuno che aveva perso il senno.

Carlo scosse la testa. – Gli animali… gli animali sono più– – iniziò a dire.

Uno dei due leopardi balzò fuori dall’erba e lo interruppe artigliandolo a una gamba. Carlo cadde e sparò un colpo che finì in aria, appena a terra l’altro sbucò allo scoperto e lo bloccò al suolo con una zampa premuta sulla faccia, impedendogli di parlare. Quello che lo aveva abbattuto azzannò un polpaccio ma senza strappare le carni. Poi quello che teneva la testa di Carlo schiacciata spalancò le fauci e le strinse intorno al suo collo. Il corpo si agitò per pochi spasmi, infine il secondo leopardo si avventò con furia sul polpaccio staccandone morsi voraci. Dopo un po’, i due predatori si allontanarono nell’erba trascinando via il corpo di Carlo, che sobbalzava floscio sul terreno come un bambolotto sgonfio.

La radio riprese a gracchiare all’improvviso. Giulia quasi strillò per la sorpresa. Ormai non ci credeva più, aveva quasi dimenticato il suo rumore fastidioso, che in quel momento però significava vivere. Si calò immediatamente nell’abitacolo e raccolse la trasmittente dal gancio, schiacciò il tasto della comunicazione come aveva visto fare a David e parlò, chiese aiuto ma non ottenne risposta, provò a girare le frequenze sul display ma non usciva altro che statica. Tentò ripetutamente, poi provò ad avviare la jeep. Il motorino girava, ma i ripetuti urti avevano compromesso qualcosa e non partiva. Il telefono. Giulia lo trovò imbucato in una fessura tra i sedili posteriori, lo accese. Funzionava, ma non c’era campo. Anche l’ora era saltata. Faceva mezzanotte e un minuto del primo gennaio di dieci anni prima. La stessa cosa quello di Antonio, che era anche quasi scarico. Forse lasciando la radio e i telefoni comunque accesi avrebbero localizzato la sua posizione. Si animò per la rinnovata speranza di uscire viva di lì insieme alla futura vita di cui era responsabile.

Quando vide apparire la sagoma di qualcuno che avanzava verso di lei, si convinse che era un miraggio. Invece no. Le mancò il fiato dalla gioia. Si proiettò sul tettuccio e cominciò a gridare per richiamare l’attenzione. La figura era controluce, camminava con il piglio pacato e deciso che aveva visto in David e nei Masai, esperti conoscitori del territorio e dei suoi innumerevoli pericoli. Doveva essere un ranger del parco. Poi la figura sparì, come abbattuta da uno sparo silenzioso.

Giulia sbatté le palpebre. Allora era davvero un miraggio.

Dal folto dell’erba davanti a lei uscì uno dei leopardi. Lei si guardò intorno per cercare l’altro, ma non lo vide. Alzò lo sguardo e chiamò aiuto, sognando che il miraggio di prima fosse davvero qualcuno che era venuto a salvarla, e adesso aspettava nascosto nell’erba folta che il leopardo si allontanasse dalla jeep per soccorrerla. Ma non ci credeva nemmeno lei. Era convinta di urlare a pieni polmoni, ma ormai non aveva più voce. Così rise, una risata rauca ma sincera, persino catartica. L’incubo era senza fine. Incapace di ragionare, accantonata ogni traccia di ragionevolezza, aprì lo sportello e scese dalla jeep ridacchiando inebriata dalla disperazione e dalla follia.

Il leopardo rimase a un paio di metri da lei, la fissava acquattato come una sfinge. Giulia si appoggiò al fianco del veicolo e ricambiò lo sguardo. Piangeva e rideva, coprendosi il ventre con le mani.

Il predatore studiava i suoi movimenti. Si sollevò pigramente da terra e avanzò verso di lei. Quando fu a meno di due metri, piegò la testa di lato e la studiò con una specie di smorfia curiosa. Giulia era pietrificata dal terrore eppure, nonostante la certezza della fine imminente, non riusciva a ignorare la bellezza incomparabile di quella bestia. Forse più per l’insensata disperazione di ricorrere a ogni espediente per ritardare il momento fatale, si sforzò fino a convincersi di trasferire la sua percezione di meraviglia al leopardo, che si avvicinava sempre di più, con la pancia quasi appiattita contro il terreno, come un gatto che esplora con estrema cautela un ambiente ignoto e potenzialmente infido. Sperava che in qualche modo l’animale la risparmiasse, mostrando un gesto di compassione che sapeva impossibile. Il leopardo arrivò su di lei e Giulia chiuse gli occhi, pregava solo che facesse alla svelta. Sentì il suo fiato caldo sulle braccia nude, la pelliccia morbida che sfiorava la pelle accapponata dal terrore. La stava annusando. Sentì un peso caldo sul grembo e sussultò, quando aprì gli occhi di scatto vide la testa del leopardo appoggiata sulla sua pancia. Poi la bestia cominciò a leccarla, con le orecchie abbassate, con una dedizione amorevole che le ricordò le due leonesse prima di sbranare la zebra, solo pochi giorni prima. Dall’erba spuntò anche il secondo leopardo. Si fermò a pochi passi da loro, lanciando occhiate guardinghe nei paraggi, in allerta per l’arrivo di altri potenziali predatori. Poi si bloccò in una direzione, puntava qualcosa all’orizzonte. Forse aveva captato un rumore inudibile per Giulia.

Invece no. Il rumore era reale. Ora lo udiva chiaramente: era un veicolo in avvicinamento.

Giulia non arrischiò di guardare per capire da dove provenisse, non osava girare la testa mentre il leopardo la teneva bloccata, e dovette sforzarsi per non gridare aiuto. Fece giusto in tempo a voltarsi di pochi centimetri quando sentì qualcuno chiamare – Ehi! – ma lei sentiva solo la lingua del leopardo che raspava sul suo corpo, sul ventre gravido e arricchito da una vita che, ormai ne era certa, non sarebbe mai sbocciata. E lei non aveva più la forza di fare niente, compreso piangere, ridere o disperarsi. Gli animali forse non conoscevano la cattiveria, come sosteneva David, ma non conoscevano nemmeno la pietà; erano stati creati per ottemperare altre funzioni, seguire altri ritmi che con i codici emotivi degli homo sapiens avevano poco o niente a che fare. Per una frazione di secondo immaginò di scamparla; quante volte aveva visto sul web filmati di bestie feroci che dimostravano insoliti comportamenti affettivi verso le prede? La leonessa che accudiva la gazzella rimasta orfana, l’orso che aveva stretto amicizia con un cagnolino invece di trangugiarlo come una merendina. Perché non poteva capitare anche a lei?

Si abbandonò contro la fiancata della jeep, chiuse gli occhi e inalò una boccata di aria selvaggia della savana. Quando li riaprì, era tornato anche l’altro leopardo. La fissava dall’alto, con la testa leggermente piegata e perfettamente eretto sulle zampe posteriori, con quelle anteriori allungate con disinvoltura lungo i fianchi agili e perfetti. Giulia rimase a bocca aperta, con le pupille sgranate. Forse era già morta e non se n’era accorta, e adesso si trovava in un aldilà dove gli animali si reggevano in piedi e camminavano come esseri umani. Fece per dire qualcosa, ma l’altro leopardo smise di leccarla.

L'autore

Massimo Gardella (Milano, 1973). Scrittore e traduttore. Il suo primo romanzo (di fantascienza) è Il Quadrato di Blaum (Cabila, 2009), a cui sono seguiti gli pseudo noir dell’ispettore Remo Jacobi, Il male quotidiano (Guanda, 2012), Chi muore prima (Guanda, 2013) e il racconto Il trofeo nell’antologia Un inverno color noir (Guanda, 2014), oltre al racconto Storia di un giovane soldato nel mosaic novel Cronache dalla polvere (Bompiani, 2019) con il nome collettivo di Zoya Barontini. Tra le sue traduzioni: la trilogia di Vorrh di Brian Catling (Safarà Editore), Jerusalem di Alan Moore (Rizzoli Lizard, 2017) e alcuni romanzi e i racconti della nuova edizione del Libro del Nuovo Sole di Gene Wolfe (Mondadori, 2023).

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