I

«Allora?» 

Lo psicologo impugnava una stilografica perlata, la cui punta tamburellava sul blocco appunti in cui doveva essere raccolta la versione dei fatti. 

Una deposizione che non ci sarà, pensai, fissando il panorama dal ventesimo piano oltre le sue spalle. Era un crimine contro la natura, quell’edificio: perché era un grattacielo. E un crimine contro la mia natura: perché ospitava lo studio Boidi. 

Lo psicologo gettò la stilo sulla preziosa scrivania che ci separava e si alzò dalla sedia coordinata; le gambe di legno stridettero sul pavimento. Appoggiò la schiena sulla spessa vetrata che si affacciava su metà Milano e incrociò le braccia. 

«Signorina De La Calla.» 

In quel momento notai due cose. 

Primo, l’uomo, che a spanne doveva avere tra i ventotto e trent’anni, era notevolmente più alto e imponente di me. 

E secondo: se avessi agito in velocità, avrei avuto il tempo sufficiente per rompere con la sola, nuda mano il robusto vetro su cui era adagiato, sbalzare nel mezzo del cielo lui e tutto ciò che rappresentava, ricompormi e uscire dall’entrata principale prima che la sicurezza si accorgesse del mio operato. 

Lo psicologo scostò il polsino della camicia, scoprendo l’orologio. 

«Ho già esplicato la mia versione alle autorità competenti» dissi, calibrando bene tono e parole. «Non capisco perché sia costretta a seguire una serie di incontri con lei, dal momento che il caso in merito non mi riguarda affatto.» 

I suoi occhi saettarono. 

Forse avevo sovrastimato lo studio che mi aveva preso in consegna. Non avevo dubbi: era un novellino del mestiere, un neolaureato fresco di studi assunto per sbaglio o per raccomandazione. Rivolsi lo sguardo sulla targhetta di ottone esposta sul bordo della scrivania, giusto per vedere con chi avevo a che fare. 

Dottor Mirko Borgia. Psicologo criminale. 

Tornai a studiarlo con più curiosità. In effetti quegli occhi verdi non mi erano completamente estranei e anche il resto della fisionomia non mi era del tutto anonima. 

Fece per aprir bocca, ma lo interruppi sul nascere. 

«Ofelia come sta?» 

L’uomo inarcò le sopracciglia. 

«Lei come…?» domandò. «A ogni modo, Ofelia sta benissimo, ora è in viaggio in Russia. Come la conosce?» 

«Oh, io e sua sorella eravamo molto amiche. Ci siamo dilettate in un tour dell’Africa insieme.» 

«Ma» esordì, con una mano sollevata per aria. 

Lessi sul suo volto il bivio in cui l’avevo posto: continuare la nostra conversazione professionale, che non avrebbe portato a nulla vista la mia reticenza invalicabile, oppure cercare di tracciare il mio profilo personale attraverso ciò che gli avrei raccontato sull’amicizia 

con la sua particolare sorella. 

«Quando ha conosciuto mia sorella?» cedette. 

«Due anni fa, durante una manifestazione sulle specie protette a Roma.» 

«Quindi, se non erro, lei aveva ventun’anni e mia sorella ventiquattro quando vi siete incontrate. Giusto?» 

Sapevo benissimo dove voleva andare a parare. «Certo.» 

«E da quanto non la vede o sente?» 

Altra domanda scontata. «Da un po’, ormai. Dopo il nostro tour africano è sparita.» 

«Capisco» disse, tornando alla postazione originaria dietro la scrivania. Allungò la mano verso il blocco notes e la stilografica; probabilmente aveva intenzione di riportare la conversazione su toni molto meno piacevoli, almeno per me. 

«Anzi» lo precedetti, «immagino che ogni tanto lei la senta. Le potrebbe lasciare un messaggio?» 

Il volto dell’uomo diventò una maschera. Rimasi in attesa della scusa che mi avrebbe propinato per giustificare la mancata risposta della sorella, qualsiasi messaggio io le avessi lasciato. 

«Ma certo» sibilò invece. L’angolo sinistro della bocca si raggrinzì in una smorfia. 

«Le dica allora che Alida la saluta e ricorda sempre con piacere quando ha salvato quel cucciolo di tigre dai bracconieri.» 

«Mia sorella… cosa?» Il Borgia corrugò la fronte e ridusse gli occhi a due fessure. Vederlo così valse completamente quell’ora inutile. 

«Comunque, glielo riferirò.» 

«Perfetto» risposi. «Noto con dispiacere che il nostro tempo a disposizione è finito.» 

Lo psicologo mi lanciò un’occhiataccia. «Signorina, non vorrei spaventarla troppo, ma sta sostenendo un processo per omicidio di primo grado. Per quanto parlare di mia sorella e dei tigrotti sia piacevole, non credo che il giudice che la indagherà accetterà come prova della sua innocenza il fatto che ha sostenuto attività di volontariato per l’ambiente in Africa.» 

Non avrebbe dovuto dirlo. 

Serrai le dita della mano destra attorno ai manici della mia Louis Vuitton e sbarrai gli occhi. «Io non ho commesso alcun omicidio.» 

«La parte che rappresento non vuole insinuarlo e lei ha a disposizione queste ore per dimostrare la sua innocenza. Se si rifiuta di usarle, andrà solamente a suo discapito.» 

Avrei voluto rispondergli che non avevo bisogno di dimostrare niente a nessuno. Che se avessi voluto avrei potuto attentare alla vita di lui e di chiunque si fosse messo sulla mia strada, che un giudice non mi faceva più paura di un insetto fastidioso. 

Stetti zitta. Sapevo che le cose non erano così semplici. C’era una gerarchia da rispettare anche per quelli come me, e soprattutto c’era una giustizia da riscattare, per la mia amica e per quello che aveva subìto; avrei trovato l’assassino e gli avrei reso il favore. 

«A domani» dissi. 

Mi alzai, gli diedi le spalle e uscii dallo studio, sbattendo la porta con un tonfo secco.