II 

Superai il giardinetto – il metro quadrato di erba finta con annesso angolo zen – e zigzagai le due ruspe di plastica gialla lasciate accanto alla porta d’ingresso della palazzina. La borsetta cartonata dondolava appesa al braccio, mentre salivo le scale. Appoggiai la mano sul corrimano della ringhiera, seguendo i ghirigori di ferro battuto. 

Mi fermai al primo piano. Rovistai nella Vuitton e afferrai il portachiavi a forma di cuore che Licia mi aveva portato da Venezia. 

Inserii la chiave rossa nella toppa e abbassai la maniglia. 

L’ingresso dell’appartamento era vuoto, ma la luce era accesa. In cucina, la televisione borbottava a raffica le domande dei quiz preserali. Depositai il sacchetto di Lovebra sulla credenza e sciolsi la cinta del soprabito. 

«Licia!» urlai, mentre passavo al primo bottone. «Ho trovato sconti sui reggiseni! Bellissimi, li devi vedere.» 

Abbassai le mani al secondo bottone, al terzo. La televisione borbottava altre domande. 

«Licia? Ci sei?» 

Appesi il soprabito e la borsa dentro l’armadio attaccapanni e mi recai in cucina. La lampadina a risparmio energetico illuminava la stanza di luce innaturale. Sul ripiano, una terrina piena di pop-corn e il cartone del latte, con l’angolo superiore tagliato. La forbice giaceva accanto al lavello. 

«Licia?» 

Tornai nell’ingresso. Silenzio, eccezion fatta per la pubblicità delle brioche allietata da musica e risate. 

«Licia!» esclamai e avanzai nel corridoio, sbattendo i tacchi. «Mi hai sentito? Intimo. Sconti. Abbiamo cose serie di cui occuparci domani!» 

Nessuna risposta. 

Infilai la testa nel soggiorno e nel bagno: vuoti. Camminai oltre la mia camera; la porta della mia coinquilina era l’ultima ed era socchiusa. Dalla fessura, una fetta di luce si espandeva nel corridoio. 

Allungai il braccio e posai la mano aperta sul legno bianco. La porta, lentamente, si aprì. 

«Licia, allora dove sei fin-» 

 Ma le parole morirono sulle labbra. 

Una goccia di sangue luccicava sul parquet chiaro, tra i miei piedi avvolti nelle decolletes di camoscio grigio. Un’altra, poco più in là, sprofondava tra le fibre del tappeto di lana. Altre ancora erano sparse 

sul pavimento, sui jeans appallottolati a terra, sul comodino, sullo specchio accanto alla porta. 

Sul bordo del letto erano immobili i piedi della mia amica. Una stilla rossa scivolò fino al calcagno e precipitò a terra. Si frantumò. 

Le gambe erano accavallate, il ginocchio sinistro sopra il destro, e dalla coscia si diramavano come tatuaggi i segni bianchi delle smagliature. Rivoli irregolari di sangue scendevano sui seni, percorrendo il torace fino all’ombelico: scie rosse che tagliavano la pelle candida. 

«Licia?» 

Mi avvicinai a passi corti. I tacchi s’inzupparono, le suole sciaguattarono nel sangue. Portai le mani alla bocca. La nuca s’irrigidì e una fitta di dolore attaccò la parte frontale del cervello. La testa girò: una bussola impazzita dentro un campo magnetico. 

Mi sedetti sul letto. 

Il ventre della mia amica non si muoveva riempiendosi e svuotandosi d’aria. Licia era immobile, con i capelli castani sparsi sul copriletto inzaccherato di rosso, le palpebre aperte, gli occhi fissi sul vuoto. Le braccia sopra la testa, le mani congiunte. Il sangue ancora fuoriusciva dall’enorme taglio sulla giugulare; grumi freschi attorniavano la ferita. 

Non poteva essere. 

Infilai un braccio dietro la schiena e le sollevai il busto. I polsi strisciarono sul copriletto, seguendo il resto del corpo. Le spalle e il collo si sporsero all’indietro e la testa scivolò. I capelli impiastricciati dondolarono e altre gocce rosse caddero come acquerugiola sul letto. 

Passai anche l’altro braccio dietro la schiena. «Licia?» 

Nessuna risposta. Spostai una mano sulla nuca e alzai il capo verso di me; le palpebre si abbassarono un poco e una ciocca di capelli si adagiò sul mio polso. Gli occhi erano bianchi e le labbra aperte come quando si dorme. 

La scossi. Una, due, tre volte. 

«Licia. Licia. Licia! Licia!» 

Il suo corpo seguì il ritmo. I capelli ondeggiarono, le labbra tremolarono. Dal taglio, rigagnoli di sangue corsero sulla clavicola e rigarono i seni bianchi. 

«Licia! No… no, no!» 

La gola pizzicò e la pressione sulle ghiandole lacrimali aumentò, una mano invisibile che mi agguantava e stringeva forte le dita attorno al collo, stringeva e mi toglieva l’aria. Dovevo piangere. Non ci riuscivo. 

Afferrai il polso sinistro della mia amica e abbassai la testa fino ad appoggiare l’orecchio sullo sterno, ad altezza del cuore. 

Silenzio. Nessun battito, niente. 

Non potevo fare niente per salvarla. Ero arrivata troppo tardi. 

«Tardi…» 

Aprii le dita e il polso cadde sul letto con un tonfo. Non spostai la testa; congiunsi le mani dietro la schiena e rimasi abbracciata a lei, ascoltando il vuoto della gabbia toracica. 

«Non andare» mormorai. «Ti prego, non andare. Non puoi andare, non puoi. Devi stare qui, con me. Con me.» 

Strinsi di più le braccia e appiccicai la guancia sulla pelle sporca di sangue; era tiepida. Affondai il naso sul suo seno e chiusi gli occhi. 

Inalai il suo odore e quello ferruginoso del sangue. 

«Nonandarenonandare. Troppo sangue. Troppo. Non andare… Ti voglio bene. Lo sai che ti voglio bene? Come faccio a dirtelo adesso. Come faccio. Come? Non può essere che… troppo sangue. Troppo. Sangue. Prega, Licia. Prega, prega, prega, tornerai. Devi tornare. Devi…» 

La mano invisibile mi stritolò la gola e io tossii. Tossii su di lei, mentre mi aggrappavo al suo busto e strizzavo gli occhi, sperando che uscisse anche una sola lacrima. Dovevo piangere. Dovevo. Non potevo. 

Il tempo diventò attimi, diventò niente. Trascorsi minuti, ore, forse un giorno intero con la faccia sulla sua pelle che pian piano si raffreddava e lacrime che non scendevano e sangue sulla mia camicia bianca, dentro le scarpe col tacco, tra i capelli e sugli zigomi, sul mento. 

Quando riaprii gli occhi, capii. Licia era andata. Era rimasto solo un corpo di carne. 

Una parte di me se ne andò con lei.