Istrione dal gusto retrò, Luigi De Pascalis firma il graphic novel ispirato al romanzo di Carlo Collodi. Un bel volume che regala a grandi e piccini il sapore dei libri che si trovavano nelle librerie delle nonne. Già dalla copertina sembra di avere tra le mani un libro antico, come quelli passati da fratello in fratello e poi arrivati ai cugini, un po’ sporco di graffi di matita colorata. Poi sorprende la lettera dell’autore all’Autore. Una lettera accorata e onesta, in cui, nonostante certi arcaismi della lingua, che gridano vendetta, emerge una mentalità aperta e sagace, che analizza, oltre il dato evidente, i significati reconditi dei messaggi.

Pinocchio, di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, non è una favola, ma a ben vedere una tragedia. Su questo De Pascalis è certo e ne spiega i motivi: il dramma della crescita, dell’abbandono di un mondo spensierato per le miserie quotidiane, con cui ci troviamo a combattere e verso cui, ignari, sogniamo di approdare, una volta rinati dal ventre del pescecane, appare in tutto il suo dramma. Le figure umane che emergono non sono così limpide e lodevoli: Geppetto è un padre che desidera un figlio-marionetta per solitudine e perché spera di fare qualche soldo portandolo in giro per il mondo; la Fata Turchina, come dice l’autore, è l’incarnazione del becero atteggiamento materno dell’amore a condizione, del ricatto affettivo, che tanto bene sa costringere i figli, dietro una parvenza di libertà, a fare ciò che la genitrice ritiene necessario; gli amici, a cui Pinocchio crede e di cui si fida, sono assassini, ladri, inetti, inconcludenti e ignavi; lo stesso burattino, nato libero, aspira a diventare come tutti gli altri, in un gioco di omologazione, che però, si spera, sia il segno di una crescita e una ricerca individuale matura.

Tutti, come dice De Pascalis, si chiedono cosa succeda a Pinocchio, una volta diventato uomo. Forse, continua l’autore, Pinocchio è Collodi stesso, che in una sorta di rivalsa, avvilito da conti da pagare, lavoro mortificante, cerca una via di fuga scrivendo “C’era una volta”.

E questa è solo la prefazione, che illumina con luce diversa l’intera storia.

Con occhi smaliziati, ma allo stesso tempo, laconici, si sfogliano le pagine in cui le figure volutamente bidimensionali, ci riportano a un mondo antico a tutto tondo. Ci ritroviamo immersi in un sogno, che senza sosta ci fa arrivare alla fine, apprezzando le tavole seppiate, acquerellate con inchiostro grasso e disegnate direttamente su lastre di acetato, come si facevi prima.

Ricco di particolari e dettagli, spesso trascurati in altri fumetti, ci sentiamo accompagnati per mano attraverso gli episodi di una saga evolutiva, che parla all’inconscio. È proprio questa la forza della fiaba-tragedia.

Il volume molto ben curato, ha una bella carta, è ben rifinito, nonostante la semplicità, è un segno dell’attenzione della casa editrice La Lepre, nata per passione e in vita per dedizione.

L’autore, che ha svolto moltissimi lavori, da sindacalista a pittore, a illustratore, a impaginatore, ha una lunga carriera anche come autore di saggi storici e di racconti. È inoltre uno dei fondatori del gruppo “Delitto Capitale”, insieme ad altri sette autori romani di mistery, e insegna scrittura creativa.