Bambina mia, mia adorata piccola tortora, è nato nell’odio il tuo piccolo cuore che ha avuto l’ostinazione di battere. Ti ho sentita muovere: la sensazione è stata come tenere un passero tra le mani, ma non eri tu che il mio ventre avrebbe dovuto portare. Le mie mani avrebbero voluto strapparti.

Finalmente ho visto il tuo viso, stravolto dalla fatica, dal dolore, sporco del mio sangue.

Tu somigliavi a lui. All’uomo che aveva messo dentro di me il seme che ti ha generato: un uomo che non avevo voluto, che ho odiato, che ho disprezzato più di ogni creatura al mondo.

Il tuo faccino era identico al suo.

Io per tutta la mia vita ho aspettato un altro sposo, un altro abbraccio.

Nessuna levatrice ci ha assistito. Abbiamo fatto tutto da sole. Tu ed io. Finalmente i miei gemiti sono finiti. Il dolore è finito. Il mio.

C’è stato il tuo pianto e il rumore della pioggia sull’acqua delle paludi.

Il tuo pianto: innocenza e dolore.

Sei nata in un antico tumulo, a ricordare l’abbraccio con cui la vita e la morte conducono la loro danza eterna, ognuna possibile grazie all’esistenza dell’altra.

Eri appena sgusciata fuori da un ventre che mai avrebbe voluto ospitarti ed eri lì sul pavimento. Sono rimasta immobile, non ho fatto nulla. Non ti ho presa. Ho messo le mani sulle orecchie per non ascoltarti. Quanto tempo ci sarebbe voluto perché smettesse il tuo pianto e quanto perché smettesse il tuo respiro? Un giorno, due? Non avevo potuto impedire che tu ti formassi nel mio ventre, non avresti avuto il mio seno. Il tuo pianto alla fine sarebbe cessato. Tutto sarebbe stato come se mai l’orrore fosse successo.

Una minuscola bimba sul pavimento di una tomba.

Mi sono tolta le mani dalle orecchie.

Non ti ho soccorso. I miei occhi sono rimasti vuoti. Attorno a noi antiche pergamene raccontavano la storia del mondo, ricordavano ogni avvenimento dei popoli delle terre note, ogni guerra, ogni carestia, ogni inondazione, ogni assedio, ogni aggressione, tutto scritto in minuscoli caratteri ordinati.

Mi sono chiesta quale fosse il numero delle madri cui era successo lo stesso orrore che ora mi travolgeva.

Quante nel popolo degli elfi, quante in quello degli uomini o dei nani? O nello stesso popolo degli orchi? Quante madri avevano fatto in maniera che tutto fosse cancellato? Ci voleva così poco.

Un giorno, forse due.

Ci voleva così poco.

Molto meno di un giorno.

Sarebbe bastato un istante. Forse era anche più decente che lasciarti piangere fino all’esaurimento. Ovunque il mondo era morte e distruzione. Cosa sarebbe cambiato per un minuscolo cadavere in più?

Mi sono alzata e mi sono sporta dalla grande porta della tomba. Il cielo si specchiava sotto di me nell’acqua degli acquitrini su cui il tumulo si alzava verticale.

Sarebbe bastato farti cadere.

Dovevo farlo subito.

Subito e tutto sarebbe stato cancellato. Come mai avvenuto. Prima o poi il mio sogno si sarebbe avverato. Il mio principe, il mio sposo sarebbe venuto, e mi avrebbe trovato. Ed io sarei stata la sua sposa.

Ho ascoltato il tuo pianto: innocenza e dolore. Ho cominciato a sentire la tua infinita solitudine, la tua accorata disperazione.

E l’urgenza mi ha preso: dovevo farlo subito, o la compassione sarebbe diventata troppo forte ed io non volevo condannarmi a quella prigione, essere tua madre.

2

L’ho fatto. Ti ho fatto cadere. Mi sono chinata a prenderti, toccandoti solo con le mani, senza abbracciarti. Eri fredda. Una bimba piccola lasciata bagnata sul pavimento di una tomba. La tua pelle sudicia era gelata. Bastava un istante. A lui, l’uomo che ti aveva generata, avrei detto che eri nata morta.

Il mio principe sarebbe venuto e mi avrebbe trovata ad attenderlo: una fanciulla vestita di azzurro.

Il mio vestito era sporco e gelido.

Ti ho lasciato andare.

Sei caduta. Un lungo volo e poi l’acqua gelida dei canali. Una macchia cancellata.

Nell’istante in cui ti aveva preso, finalmente, una scintilla di gioia ti aveva riempito: la speranza di essere scaldata. Nel momento in cui ti ho lasciata andare quella bollicina di felicità è scomparsa. Sentivo la tua mente.

Freddo e rassegnazione.

Non hai fatto in tempo a morire, nemmeno a respirare l’acqua: ti ho salvato.

Mi sono tuffata, la mia mente mi ha guidato verso la tua, le mie mani ti hanno trovato immediatamente nell’acqua scura. L’orrore di quel gelo ti ha spinto ad un riflesso inevitabile: hai trattenuto il respiro il tempo necessario perché io ti salvassi. Appena uscita dall’acqua hai ripreso a piangere, disperata.

Mi sono appoggiata con i piedi al basamento del tumulo e ti ho messo nel corpetto della mia veste, poi, tenendoti lì, mi sono arrampicata.

Tremavo per il freddo.