Da Il sepolcro del nuovo incontro (secondo racconto)

Duravano a lungo, quelle ronde. Bordeggiavano isolati intrisi di odori forti, illuminati solo da qualche discount aperto fino a tardi e presidiato da occhi stanchi di indiani o cingalesi. Rimbalzavano contro le facciate del centro storico, derelitte come signore anziane dopo essersi struccate. Raramente lo portavano a incontrare qualcuno e, se capitava, Aurelio evitava di parlargli o anche solo di incrociarne lo sguardo. A volte, nella zona di Santa Croce, si era sentito fissare da sguardi femminili invitanti, ma aveva preferito tirar dritto.

C’era ancora lei, dentro, e se ne doveva liberare.

E così proseguiva lungo l’osso cavo di via Fiesolana, dentro il midollo scuro di via dei Pilastri e poi giù, nel profondo di Borgo Pinti, fin dove si allargava nel crocevia di via della Colonna, e quindi, elegante, proseguiva fino al Cimitero degli Inglesi, in piazza Donatello. Aveva sempre visto quel luogo come una stazione orbitante, una nube di energia calma in una galassia di strade. I viali, a tarda notte, lo lambivano come fiumi vischiosi paralizzati in una morsa d’asfalto. Era chiuso, ma ogni volta lo chiamava intensamente. Allora non ne capiva il perché, ma forse, adesso che era andato a vivere in un luogo simile, riusciva a intuirlo. Le vibrazioni di quelle lapidi parlavano di vite esalate in sussurri che giungevano da altri mondi. Si ergevano come spuntoni nel cielo scuro, illuminato solo in parte dai lampioni, la cui luce veniva inghiottita dalle chiome degli alberi sovrastanti.

Tutto sapeva di presagio. Un presagio tranquillo ma certo. Qualcosa che sarebbe dovuto succedere. Per forza. Era solo questione di tempo.