Antefatto

In cui si narra di come tutto iniziò e tutto finì, della vita e della morte, della fine dell’Era della Magia e degli albori di quella dell’Uomo

Dalle memorie di Aggart di Oressa, figlio di Rupert

Qualcuno penserà sia strano che quelli che furono gli anni più sereni della mia vita, abbiano coinciso con uno dei periodi più difficili e dolorosi per il Regno del Nord. Eppure è stato proprio così, e non me ne vergogno.

Dopo la sconfitta inflitta dall’Alleanza alle Orde dell’Oscurità e la fuga di Dagg Elath attraverso il portale della Fucina, il Regno si era trovato ad affrontare una delle crisi più profonde dall’epoca della caduta dell’Impero Avoniano; persino più profonda di quella che era seguita alla disfatta dell’Usur­patore, avvenuta cinque anni prima che io nascessi.

La guerra contro le armate del Signore delle Ombre aveva lasciato profonde ferite, non solo nelle città e nelle campagne, ma nei cuori e negli animi della gente. Le vecchie abitudini, i costumi che si erano consolidati nei secoli, persino le più antiche delle tradizioni, tutto era stato cancellato nel giro di pochi mesi. La guerra aveva provocato migrazioni di decine di migliaia di persone da una regione all’altra, rimescolando il Paese come la corrente che esce dall’estuario di un fiume rimescola le acque del mare. Gente che non parlava neppure la stessa lingua si era ritrovata a convivere fianco a fianco e a lottare assieme per la loro sopravvivenza. Spesso si erano creati forti contrasti, che erano sfociati in vere e proprie faide, per lo più provocate da equivoci e incomprensioni; altre volte, invece, erano nati nuovi legami e persino veri e propri patti di sangue fra famiglie e clan provenienti da regioni agli estremi opposti del Regno.

Era come se qualcuno, poco prima della semina, avesse mescolato nello stesso sacco sementi di decine di piante differenti, tanto che neppure lo stesso contadino fosse più in grado di dire se e quando queste avrebbero germinato, e soprattutto se avrebbero saputo coesistere nello stesso campo. Tutto questo in uno scenario nel quale bande di criminali, milizie cittadine spesso peggiori degli stessi banditi, movimenti indipendentisti e ambiziosi nobili, che oramai riconoscevano l’autorità del sovrano solo a parole, si contendevano ogni fazzoletto di terra di quello che una volta era stato un Regno unito e ragionevolmente sicuro.

Fu un periodo difficile, come ho già detto, che ben pochi ricordano oggi con nostalgia, eppure per me fu un momento magico, vissuto in un angolo di paradiso che mi ero ritagliato sulla costa meridionale della Penisola di Cora.

Ma si sa, nulla è per sempre.

Capitolo I

In cui si narra del Signore delle Ombre, del Senzaterra e di colei che fra le Alte Genti è nota come Tobar nam Maidne, la Sorgente del Mattino

Inferi, Terzo Cerchio, Piana delle Ossa

Il demone sollevò la testa, annusò l’aria, si guardò intorno, poi tornò a occuparsi di quanto restava di un Rosso dei Sassoscuro: infilò la mano nel petto del cadavere e strappò via il cuore. Era la parte migliore. A lui era sempre piaciuto il cuore, molto più del fegato, che alcuni consideravano una prelibatezza: era più sodo il cuore, bello compatto, senza grasso, non come quella massa gelatinosa che era il cervello e neppure come il fegato, appunto. Troppo dolce il fegato, scivoloso sotto i denti. Diede un bel morso all’organo grondante di sangue, si leccò le labbra con la lingua nera appuntita, quindi sollevò un’altra volta la testa, perplesso. Fece appena in tempo a vedere la lama calare su di lui e a domandarsi come avesse fatto quel dannato ad avvicinarglisi così tanto da non accorgersene. La pesante ascia tagliò di netto la grossa testa cornuta, congelandogli sul viso un’espressione di rabbiosa sorpresa.

L’ombra si chinò sul corpo, afferrò la testa per un corno e la scagliò via. Poi estrasse un lungo coltello ricurvo e aprì il petto dello Strappacarne. Anche a lui piaceva il cuore, ma non era poi così schizzinoso con il resto degli organi, come lo era stato la sua vittima. Aveva imparato che per sopravvivere non bisognava farsi troppi problemi. E poi aveva bisogno di forze per passare al piano inferiore ed erano tre cicli che non si nutriva. Finito il cuore, strappò anche il fegato. Doveva trovare il dolmen al più presto, o sarebbe stato lui il prossimo a fare da pasto. Funzionava così, da quelle parti.

Andria, Shabono degli Akuntsu

L’imbarcazione scivolava silenziosa sulla superfice nera del fiume. Era poco più di un tronco d’albero scavato, eppure aveva un’eleganza che si sposava perfettamente con le geometrie e i colori della foresta.

Tremayne invidiava quella gente. Su Kios l’umanità sembrava più una specie infestante che parte dell’ambiente in cui viveva, ma lì tutto era in perfetta armonia. Persino la lotta per la sopravvivenza aveva una sua grazia nascosta, che contribuiva a quella sinfonia cacofonica di fischi e strida, dove l’urlo di agonia si sovrapponeva ai richiami d’amore in un unico grande schema senza soluzione di continuità.

Il Senzaterra, seduto a prua, scrutava l’intrico di piante e arbusti, che si intravedevano a tratti nella nebbia che saliva dalle acque scure. A poppa un piccolo uomo, quasi completamente nudo, guidava con perizia la barca in quel labirinto vegetale, utilizzando una lunga asta di legno che fungeva ora da timone, ora da remo, ora da pertica per allontanare lo scafo da qualche intrico di liane in cui avrebbe potuto incastrarsi.

L’uomo era coperto da tatuaggi blu che si intrecciavano sulla pelle dorata come la vegetazione che ricopriva gran parte di quel territorio. Sebbene piccolo, era chiaramente molto robusto e perfettamente a suo agio in quell’ambiente duro e senza pietà. La foresta era vita ma era anche morte, e l’una nasceva dall’altra e dell’altra era cibo e nutrimento.

Tremayne chiuse gli occhi. Adesso poteva sentirlo. Era come una sorta di pressione che gli scivolava fra i capelli e gli sfiorava la mente. Delicata ma decisa, sicura di sé.

La barca si fermò contro un gruppo di arbusti. Il mago aprì gli occhi. Non riusciva a capire dove finisse il fiume e iniziasse il terreno, sempre che di terreno si potesse parlare. In realtà l’intero territorio era un intrico di canali e di isolette fatte a loro volta di vegetazione in decomposizione e di humus. Non aveva mai visto un luogo in cui l’energia vitale e quella magica si incrociassero liberamente in così grandi quantità, fiumi sopra fiumi in mezzo a fiumi.

– Îandé îasyk umã.[i] – disse il barcaiolo nella sua strana lingua. Non assomigliava a nessuna delle lingue che Tremayne conosceva, ma essere un mago aveva i suoi vantaggi. In realtà più che capire quello che diceva, ne percepiva direttamente il significato nella mente. La nuda lingua non era una vera e propria lettura del pensiero né una magia che permetteva di comprendere lingue sconosciute, ma piuttosto una sorta di legame fra chi parlava e chi ascoltava. Permetteva di comprendere i concetti che erano stati espressi, anche se non si capivano i suoni.

Tremayne fece un cenno con la testa, poi scese dalla barca, senza voltarsi o salutare. Non era necessario, né il barcaiolo se lo aspettava. Il terreno cedette sotto il suo peso. Era come camminare su un tappeto molto folto. Ovunque la foresta brulicava di vita, soprattutto di insetti. Non c’era ramo o foglia su cui non ce ne fossero, per non parlare del terreno e dei tronchi marci sparsi un po’ ovunque. Il mago non era certo un tipo sensibile, ma dopo un po’ quel continuo brulicare di insetti, aracnidi e altre piccole creature lo aveva infastidito, per cui aveva lanciato un semplice incantesimo per tenerli lontani da sé. Altra prerogativa dell’essere un potente incantatore. D’altra parte c’era talmente tanta energia magica in quel luogo, che non era certo un problema mantenere un incantesimo così semplice a lungo. E poi non faceva male a nessuno. In fondo ci guadagnavano pure loro, che non rischiavano così di essere calpestati.

Il sentiero, sempre che tale potesse chiamarsi, si addentrava nella foresta, seguendo un percorso sinuoso, pennellato qua e là da fasci di luce che penetravano la vegetazione fino quasi a toccare il terreno, quasi sempre perennemente immerso nella penombra. Tremayne avanzò paziente, un passo dopo l’altro, scostando ora un ramo, ora alcune foglie grandi quanto la vela di una piccola imbarcazione. Era sorpreso da quante diverse forme e dimensioni quel luogo fosse capace di generare. Alla fine giunse in uno spiazzo che si allargava nella foresta come l’enorme nido di un immenso uccello. Era arrivato allo shabono degli Akuntsu.

Il villaggio era formato da un grande anello di pali su cui era posta una tettoia circolare. Non c’erano vere e proprie capanne né alcuna divisione fra i vari nuclei familiari. Lungo tutto l’anello c’erano dozzine di amache, qua e là una tenda o un paravento ma nessuna reale separazione. Gli Akuntsu non intendevano la proprietà come qualcosa di legato alla singola famiglia e tantomeno all’individuo, ma più che altro alla tribù. Unica eccezione le armi, non tanto usate per difendersi da qualche tribù ostile, anche se ogni tanto era necessario, quanto piuttosto dedicate alla caccia.

Come il mago entrò nel villaggio, una torma di bambini nudi di ogni età gli si gettò addosso con grida di sorpresa e divertimento, toccandogli ora gli abiti, ora il lungo bastone che teneva con la mano destra, ora la pelle secca, pallida e screpolata, così diversa da quella lucida e dorata di quella gente. Gli indigeni erano praticamente vestiti solo dei loro tatuaggi. Sia gli uomini che le donne indossavano una fascia di stoffa intorno alla vita. L’unica differenza era che quella femminile lasciava scoperti i genitali, mentre quella maschile aveva un piccolo rettangolo di stoffa che copriva il pene. Alcuni avevano anche delle fasce di stoffa colorata intorno alle ginocchia e agli avanbracci. A parte i capelli lisci di un nero corvino, sia gli uomini che le donne erano completamente glabri. Oltre ai tatuaggi, molti avevano il viso e il corpo pitturato, soprattutto il volto, spesso colorato nella parte superiore di rosso o di bianco.

Tremayne si diresse verso un gruppetto di uomini che stavano fumando dei lunghi sigari, formati da una larga foglia arrotolata attorno a un intreccio di foglie più sottili e secche. Erano tutti anziani. Sorridevano e si scambiavano battute, per niente sorpresi o interessati dall’arrivo del forestiero. Sulla destra alcune donne stavano allattando dei bambini. Alcuni erano decisamente grandicelli per attaccarsi al seno, pensò il mago, ma ormai si stava abituando a quella strana cultura, così diversa da qualunque altra popolazione avesse incontrato in precedenza.

Erano passati esattamente due mesi da quando il Senzaterra era uscito dall’unico portale esistente su Andria o, quantomeno, l’unico di cui lui fosse a conoscenza. Pochi su Kios sapevano dell’esistenza di un secondo continente e ancora meno erano quelli che sapevano come arrivarci. Forse i Fois, forse qualcuno fra i magi innòti. Qualcuno diceva che le amazzoni in realtà venissero da Andria e che si fossero stabilite nelle foreste meridionali di Kios, perché erano quelle che più somigliavano alle loro di origine. Tremayne non ci credeva molto: forse le foreste erano simili, ma certo le amazzoni erano ben diverse dai popoli che abitavano quelle terre. Era pur vero che nessuno che viveva su Kios avesse mai esplorato l’intero continente di Andria, per cui tutto era possibile.

Quello comunque era il quarto villaggio che attraversava e, per quello che ne sapeva, l’ultimo, prima di affrontare il sentiero che lo avrebbe portato ai piedi del Massiccio Centrale, o il Dente Caduto dal Cielo, come lo chiamavano i nativi. Era lì che sperava di incontrarlo. Sapeva che c’era, su quello non aveva alcun dubbio. Sentiva la sua presenza. La domanda era semmai un’altra, ovvero se sarebbe stato ricevuto. L’avrebbe saputo a breve.

Kios, Terre degli Elfi Azzurri, Amerjin

La foresta sembrava non avesse mai fine. Vista da lassù, le cime degli alberi formavano un mare che ondeggiava sotto il tocco gentile del vento della sera, fino a infrangersi contro le pareti dei Monti del Tramonto, rosse per il calare del sole alle loro spalle.

Amerjin si stendeva ai loro piedi, eppure non un muro, un tetto o un balcone si poteva scorgere fra le fronde dei rami. La città dei Làidirlàhm, il clan più numeroso degli Spéirmil, gli Elfi Azzurri, sarebbe stata del tutto invisibile agli occhi dei comuni mortali. Non che fosse protetta da un qualche misterioso incantesimo, seppure le protezioni magiche non mancassero attorno all’abitato, ma le abitazioni degli Elfi non erano “costruite” bensì “coltivate”, sempre che questo termine avesse un qualche senso per quelle creature fatate. In effetti anche il concetto di coltivazione era a loro estraneo. Gli Elfi non coltivavano ma invitavano le piante a crescere in un certo modo, così che essi potessero trovare alloggio fra i loro rami.

Non che tali abitazioni fossero da meno in termini di eleganza e comodità di quelle umane, anzi, per certi versi erano ben più eleganti e confortevoli dei freddi castelli di pietra in cui vivevano i sovrani dei Quattro Regni. Sottili colonne di tronchi intrecciati sostenevano volte di pergolati, le cui foglie si intessevano a formare delicati arabeschi dalle mille tonalità del verde. Stanze, sale, lunghi e sottili corridoi, ponti sospesi e balconate: la città degli Elfi Azzurri era un intreccio di mille passaggi e ambienti, che si sposavano in modo magistrale con la naturale forma delle grandi latifoglie che formavano le tre foreste occidentali: Katbah a nord, Fionnach a est e Amerjin, appunto, a sud-ovest.

Al contrario dei loro cugini Bànmil, gli Elfi Bianchi, le abitazioni degli Elfi Azzurri erano collocate alla base dei grandi alberi, fra le radici o al massimo fra le fronde più basse. Gli Elfi Azzurri preferivano infatti la penombra e la frescura del sottobosco alle altezze vertiginose delle case sospese degli Elfi Bianchi, sebbene alcune sale si trovassero sui rami più alti se non addirittura proprio sulla cima dei grandi alberi. Erano usate per lo più come Sale dei Pensieri, dove ci si recava quando si dovevano prendere decisioni importanti oppure affrontare un momento difficile o una situazione critica. Alcune venivano anche utilizzate come sale di rappresentanza o per incontrare i delegati di altre razze. I più maliziosi dicevano che l’usanza era nata quando ancora la maggior parte delle creature fatate abitava Kios, per impressionare e mettere a disagio i loro ospiti con l’altezza, soprattutto Nani e Gnomi, che non vi erano abituati.

Oide Sebagh, sovrano dei Làmh-làidir, come gli Elfi Azzurri chiamavano gli Elfi delle Foreste del Vento Meridionale nella lingua antica, quasi dimenticata ormai, fissava l’orizzonte pensieroso.

– Cosa c’è, padre?

L’elfo non si voltò. Stava assaporando ogni singola pennellata di giallo e di rosa che dipingeva il cielo a ovest, mentre nell’aria già si poteva udire il canto degli usignoli. Oide amava quella foresta. Vi era nato, ben prima che la sua gente vi si trasferisse per sfuggire all’ostinata invasione degli umani in quelle che una volta erano le loro terre. Per lui era casa, sebbene non tutti la pensassero allo stesso modo.

Tobar nam Maidne, colei che gli umani chiamavano Maidnenoise, si avvicinò al padre. Il suo nome significava Sorgente del Mattino e invero tale era il suo aspetto e il suo carattere. Come l’acqua che sprizza gioiosa da una sorgente, spargendo nell’aria una nuvola di goccioline che luccicano brillanti sotto i raggi del mattino, Maidne era capace di portare gioia anche nelle giornate più scure e nei momenti più tristi. La sua forza, il suo coraggio, la sua determinazione, erano un punto di riferimento non solo per il suo popolo, ma anche per suo padre, sebbene più vecchio e maturo di lei. D’altra parte, quando vivi millenni, cosa possono fare pochi secoli di differenza d’età?

– Non pensi possa mai finire.

– Che cosa, padre?

– Questo. – disse l’elfo stendendo un braccio verso l’orizzonte che stava diventando sempre più scuro, con i gialli e i rosa che lasciavano il posto al blu profondo che aveva già avvolto, alle loro spalle, i Monti del Tramonto.

– Non capisco. – ribatté Maidne perplessa. – Cos’è che dovrebbe finire, e perché?

L’elfo si voltò verso la figlia.

– Conosci la Prima Profezia.

La donna lo fissò confusa, poi lo sguardo s’adombrò.

– È solo una leggenda. Una storia in mezzo ad altre storie.

– Conosci una leggenda che non abbia un fondo di verità? Quante, che i mortali chiamano miti o favole, tu hai potuto vedere con i tuoi occhi, udire con le tue orecchie?

– No! Non può succedere.

– Eppure tutto ha fine, prima o poi.

– Ma… – L’elfa si girò verso la notte che stava calando. – Come è possibile?

– Questo non lo so, – rispose il padre, dopo aver riflettuto per alcuni istanti – ma ne percepisco i segni. Solo che…

Si fermò, abbassò la testa.

– Solo che?

– Ecco, non pensavo che sarei stato spettatore del suo avverarsi. Che avrei visto la Fine.

Maidne poggiò una mano sul braccio del padre che volse il viso verso di lei.

– Perché non succederà. Non ci sarà alcuna Fine. Vedrai.

Oide le sorrise. Quanto era bella! Gli ricordava sua madre. Avere una lunga vita ha i suoi svantaggi. L’amore non è per sempre. Se un umano può sperare di vivere l’intera sua esistenza con la stessa compagna o compagno, così non è per gli elfi. Un amore può durare per un secolo, due, persino tre, qualche volta, ma poi finisce. Altre avventure si presentano sul cammino di chi conta gli anni come gli umani contano i giorni, e ti portano via da chi ti aveva amato e forse ti ama ancora. Così Laoise se n’era andata. Non un saluto, uno sguardo, una parola. Se n’era semplicemente andata, come sparisce la brina quando il sole si alza nel mattino. Maidne aveva pianto. Lui no. Le sue lacrime gli si erano fermate in gola, poi si erano gelate ed erano rimaste lì, come brillanti incastonati in un diadema d’argento. Non aveva parlato per un mese. Poi la vita era tornata a scorrere. Non l’aveva cercata. Avrebbe voluto, ma non poteva. Aveva una responsabilità verso il suo popolo e comunque quando qualcosa finisce, finisce. Sarebbe stato solo più doloroso vederla con un altro, forse persino felice. No, sicuramente felice: come lo erano stati loro. Come lo era stato lui, per 230 lunghi anni. Non era qualcosa che aveva fatto o che aveva detto. Per quello c’è sempre rimedio. Era che tutto finisce e non ci deve essere per forza un motivo per questo.

– Scendiamo. – rispose semplicemente lui. – I nostri ospiti ci aspettano.

Inferi, Terzo Cerchio, Piana delle Ossa

L’ombra si fermò davanti al dolmen. Era completamente avvolta da stracci e in mano aveva un lungo dente di colore giallastro. Si avvicinò alle pietre. Sapeva che lo stavano osservando ma non si sarebbero avvicinati. Avevano troppa paura di quel posto. O forse era di lui che avevano paura. Gliene aveva dato più di un motivo da quando era arrivato in quell’inferno.

Ora era proprio sotto all’architrave. Sollevò il dente con entrambe le mani, tenendolo dalla parte più spessa, quindi lo calò di colpo verso il centro della struttura, come se volesse colpire un muro invisibile posto proprio di fronte all’ingresso. Sì sentì come uno strappo, come se un’enorme tela si lacerasse. Un vento feroce iniziò a soffiare alle spalle dell’ombra, infilandosi nella fessura che il dente aveva creato nello spazio. Il vento era così forte che l’ombra faceva fatica a non cadere in avanti, ma la breccia non era ancora abbastanza ampia da farlo passare.

Iniziò a salmodiare. Erano parole antiche, di cui lui stesso non conosceva il significato, ma erano parole di potere, trovate in una vecchia tomba nel deserto del Davenhert. Continuò a ripetere le parole finché l’aria non divenne rovente e la breccia fu abbastanza grande da permettere il suo passaggio. Quindi ripose il dente nel fodero in pelle che portava alla cintura e con passo deciso attraversò il portale.

Poi, fu il caos.

Andria, il Dente Caduto dal Cielo, la Grotta di Smeraldo

Se la ricordava diversa. Più grande, tanto per cominciare. E poi non c’erano i ciclamini e l’isolotto d’alabastro. In effetti il lago era più o meno quello e pure l’isola, ma l’acqua era del colore dello smeraldo grezzo e la roccia non si trovava al centro del bacino ma formava uno scoglio collegato alla riva da una sottile lama di basalto. Una specie di promontorio, insomma.

Non bisogna mai fidarsi dei sogni, pensò Tremayne. Comunque il drago c’era, se non altro, ed era esattamente come se lo ricordava: un lungo serpente con una massiccia testa corazzata, il dorso crestato e sottili arti anteriori, che formavano un paio di grandi ali che la creatura teneva ripiegate sul dorso. Gli arti posteriori, invece, erano praticamente inesistenti. Il corpo era interamente coperto di scaglie di varie gradazioni di verde ma, adesso che poteva vederlo bene da vicino, era anche ornato da una miriade di ghirigori di colore blu, che sembravano dei veri e propri tatuaggi, sebbene fossero fatti anch’essi di scaglie.

Il Senzaterra non poté non riconoscere in quegli arabeschi dei segni di grande potere, un potere antico di cui le rune usate dai maghi più esperti erano solo una pallida imitazione.

– Aaaah…

Ricordava quella voce, quel respiro nella sua mente. Lo aveva salvato da morte certa a Libeth, quando era rimasto intossicato insieme ai suoi compagni dai funghi allucinogeni che avevano contaminato la carne secca trovata nella cittadina abbandonata.

Si avvicinò. Ora poteva vedere bene la testa della creatura. Era molto diversa da quella di un varano o di un coccodrillo. Innanzi tutto era tozza e corta, collegata al corpo da un collo spesso, i cui muscoli si allungavano sulla schiena per poi allargarsi a sostenere le poderose ali. Inoltre era completamente ricoperta da un’armatura di placche ossee piuttosto grandi, che lasciavano intravedere solo gli occhi, e non da piccole scaglie come il resto del corpo. Gli occhi, viceversa, erano abbastanza piccoli, di un giallo dorato, con la pupilla a taglio, come quelli di un gatto. Anche la bocca era corta, con le mascelle massicce e due file di grossi denti conici tutti uguali. Ai lati della mandibola aveva due protuberanze che formavano una sorta di barbigli ossei, mentre un tozzo corno, come quello di un rinoceronte, spuntava nella parte superiore del muso.

Insomma, se il corpo era un elegante esempio di aerodinamica, il muso era tutt’altro che bello. Troppo schiacciato, come se un’enorme mazza lo avesse colpito frontalmente e fatto rincagnare all’interno del collo. Era anche l’unica parte del corpo a non essere verde ma sfumata di rosso rame, oro e nero carbone. Sembrava quasi fosse stata abbrustolita sulla fiamma.

Aveva visto animali più belli, pensò Tremayne.

Una sorda risata gli attraversò la mente. Evidentemente il drago doveva avere un certo senso dell’umorismo, o più probabilmente non si curava dei giudizi sul suo aspetto.

Ora il mago era a meno di sei catene dalla creatura che, immobile, lo fissava con quell’unico occhio rivolto verso di lui. Il drago sembrava quasi far parte dell’isolotto, come se uno scultore folle lo avesse scolpito direttamente nella roccia per poi ricoprirlo di migliaia di grosse scaglie metalliche colorate. Neppure il respiro riusciva a smuovere una singola curva di quel corpo poderoso, sempre che respirasse davvero. Il Senzaterra incominciava a dubitarne.

– Ognuno di noi ha i battiti contati, figlio dell’uomo. – disse il drago, rispondendo a quella domanda implicita. La voce dell’Antico riecheggiò nella sua mente per poi rimbalzare più volte fino a perdersi in un’eco lontana.

– Cosa vuoi dire?

– Che a ognuno di noi è dato un tempo, e questo tempo si misura nei battiti del cuore.

– Non capisco. Cosa c’entra?

– Il cuore a sua volta si alimenta del respiro, quindi…

– …quindi, a ognuno di noi è dato un certo numero di respiri, terminati i quali… – continuò il mago.

– …anche il nostro tempo è terminato.

– Non sei quindi immortale?

Di nuovo quella risata.

– Tutto ha un termine, mago, persino il tempo svanirà nel nulla più assoluto, alla fine. L’ultimo battito dell’ultima creatura vivente durerà per l’eternità.

– Così, rallentando il battito…

– …posso allungare il tempo della mia vita, sempre che tu possa chiamare vita questa prigione di carne e ossa che ho avvolto attorno alla mia anima.

– Prigione? Allora perché…?

– Lo sai il perché. — ribatté secco il drago.

– Per proteggerci.

– No.

La risposta gelò il Senzaterra. Ci sono molti modi di dire no. C’è il no della fanciulla, quando il suo uomo le chiede di andare oltre agli sguardi e alle carezze: un no che non è necessariamente negazione ma prova, non chiusura bensì ammonimento. C’è il no del genitore quando il figlio vuole allentare il vincolo che li lega e affrontare così rischi e responsabilità. Anche quello non è un no definitivo ma piuttosto una sfida, un modo per misurare la determinazione di chi sente che è arrivato il tempo di diventare adulto. Ma quel no, quel no chiaro, limpido, categorico, era semplicemente e solamente un no. Nessuna alternativa, nessuna scelta, nessuna possibilità di aggirarlo o contrastarlo. Era no, e basta.

– Non capisco. Pensavo che l’Ultimo fosse rimasto nel nostro mondo per proteggerci dal Male.

– Così è, infatti.

– Allora, che significa “no”?

– Qual è il Principio Primo?

Tremayne scosse la testa, irritato. Si sentiva come uno studente sotto esame.

– L’Equilibrio. L’Equilibrio è il Principio Primo, il fondamento di tutto ciò che è.

– E che cos’è l’Equilibrio?

– Beh…

Adesso il mago si sentiva davvero a disagio. Che razza di domanda era quella? Anche il più giovane degli apprendisti conosceva la risposta. Dove voleva andare a parare quella creatura? Rispose, quasi automaticamente.

– È quando nell’eterno confronto fra Caos e Ordine nessuno dei due prevale sull’altro.

– Quindi quel cristallo accanto al tuo piede è in equilibrio? Ed è in equilibrio quel giglio bianco che è sbocciato sul bordo della finestra della volta di questa grotta?

– No, io… Oh, immagino di sì.

Questa volta non vi fu alcuna risata. Solo un impenetrabile silenzio. Tremayne rimase in piedi a fissare quell’occhio che brillava nella penombra, come un topazio incastonato in una roccia. Alla fine, sbottò:

– D’accordo, ascolta. Non so a che gioco stai giocando, ma se vuoi dirmi qualcosa, fallo. Non mi sono mai piaciuti gli indovinelli e non ho tempo da perdere. Tu forse avrai anche l’eternità davanti a te. Io no. Perché mi hai fatto venire qui?

– Aaaah…

Il Senzaterra strinse la mascella, attese in silenzio che la creatura gli dicesse qualcosa, quindi scosse rabbioso la testa e si girò per andarsene.

– Non è quello che pensi.

Tremayne si fermò ma non si voltò. Rimase immobile a fissare l’apertura dalla quale era arrivato, dalla parte opposta del laghetto, in attesa. Poi, dato che il drago non continuava, chiese:

– Cosa?

– L’Equilibrio. Non è quello che pensi.

Questa volta il mago si girò, incuriosito.

– Spiegami, e senza troppi giri di parole. Cosa vuoi dire?

– Il cristallo, quello che era accanto al tuo piede, è la massima espressione dell’Ordine nella sua semplice eleganza di forme immutabili. Così come quel fiore rappresenta la vita nel suo continuo divenire, e quindi è espressione del Caos, inteso come continuo cambiamento. Entrambi non sono in equilibrio eppure sono parte di quello che chiamiamo Equilibrio.

– Non capisco.

– L’Equilibrio è nel Tutto. Le singole parti possono essere ora espressione dell’Ordine, ora del Caos, ora di entrambi, in varia misura. Il Tutto, no. Il Tutto deve essere in equilibrio perché se una di queste forze dovesse avere il sopravvento, sarebbe la fine di tutto ciò che conosci. La gelida immobilità dell’Ordine è la morte assoluta, la negazione stessa della vita. Il continuo rimescolarsi del Caos è la fine di ogni individualità, di ogni distinzione, di ciò che differenzia il noi dagli altri, l’io dal non-io. Entrambi dominano ora questa, ora quella parte del Tutto, ma non devono dominarne l’interezza, perché sarebbe la fine di ciò che noi chiamiamo realtà.

Il mago chiuse gli occhi, soppesando ogni singola parola. Le implicazioni. Stava iniziando a capire.

– Quindi — azzardò — che in un certo momento e in un certo luogo il Caos o l’Ordine governino…

– …fa parte della natura delle cose. — terminò per lui il drago. — L’equilibrio è dinamico, non statico. È tale nella sua interezza, non nelle parti o nei momenti. Persino la guerra che avete appena combattuto contro l’Oscurità non avrebbe potuto mettere in pericolo questa verità.

– Un momento! Vuoi dire che se il Signore delle Ombre avesse vinto tu non saresti intervenuto?

– No.

Di nuovo quella negazione, secca, dura, implacabile.

– Ma perché? Non capisco.

– Perché per quanto un tale evento avrebbe fatto pendere la bilancia dalla parte del Caos, non avrebbe davvero rotto l’Equilibrio. Un Impero del Male, per quanto abominevole sia, è sempre un impero, e quindi basato su leggi, regole. Fossero anche le leggi e le regole di un singolo individuo. Persino in esso c’è Ordine, perché se così non fosse non potrebbe esistere e perpetuarsi. La minaccia che questa volta dovrete affrontare è ben altra, perché mette a rischio l’essenza stessa della realtà.

– Di quale minaccia stai parlando?

— Sto parlando della Prima Profezia.

L’Abisso

Era come essere all’interno di un tornado, solo che non c’era vento. Si abbassò di colpo, mentre qualcosa di scuro gli passò sulla testa, gridando. Qualcosa o qualcuno: non era chiaro cosa fosse vivo e cosa non lo fosse lì. Si aspettava qualcosa del genere, o almeno, si era fatto un’idea di cosa avrebbe potuto essere un mondo fatto di puro caos, ma neanche la sua mente disumana e avvezza all’impossibile avrebbe potuto immaginare quello. Chiunque altro sarebbe impazzito, ma Dagg Elath non era chiunque altro. In effetti non era neanche più umano e, a dirla tutta, neppure più un Arcano, ormai. Lui stesso non avrebbe saputo dire cosa fosse diventato. Rabbia pura, forse, e fame, un’eterna insaziabile fame.

Fece un passo avanti, ma in quel continuo cambiare persino lo stesso concetto di direzione perdeva di significato. Non si aspettava quello. Non sapeva cosa fare. Aveva immaginato che una volta entrato in quel piano Lui si sarebbe fatto vedere, che avrebbe potuto parlargli, fargli la sua proposta. Si era preparato a lungo per quel momento. Non ricordava neppure quanto.

All’inizio, non appena arrivato negli Inferi da Kios, subito dopo aver attraversato il portale, si era solo preoccupato di mettersi in salvo. Pensava di attendere un po’ per poi tornare da un’altra parte, ma era stato subito attaccato da un paio di demoni ossuti. Erano degli Scarnificatori. Allora non lo sapeva, ma quegli esseri erano poco più che delle bestie, persino per gli stessi moloch. Sembravano degli scheletri coperti da una pelle grigia e rugosa. Avevano forma umana ma si muovevano sugli arti come degli strani ragni a quattro zampe. Braccia e gambe lunghe, piedi e mani armati di lunghi artigli affilati. Erano ciechi ma avevano un ottimo udito e un odorato persino più acuto. La testa era schiacciata, come un pallone sgonfio. D’altra parte non è che avessero bisogno di un vero cervello per quello che facevano, che poi era mangiare qualsiasi cosa avesse una lontana sembianza di vita.

Erano gli spazzini degli Inferi, come erano chiamati su Kios i primi tre piani demoniaci. Ed era un nome ben meritato, gli Inferi, salvo che non c’erano anime tormentate o dannati. Lì i veri dannati erano i demoni. Divisi in clan in continua lotta fra loro, perseguivano un unico imperativo: sopravvivere. E lui era sopravvissuto. Nonostante tutto. Non gli ci era voluto molto per capire che il portale da cui era arrivato era stato chiuso e così anche gli altri: non poteva più tornare su Kios, non senza un qualche aiuto, almeno, e non l’avrebbe certo ricevuto da quell’accozzaglia di creature demoniache che abitavano quel piano.

Aveva una sola possibilità. Trovare colui che aveva dato potere a Níðhöggr, il Traditore, condannato dalla Signora dei Quattro Spiriti allo smembramento e allo spargimento dei resti ai quattro angoli del mondo. Era il Senza Nome, in quanto aveva ogni nome e nessuno, ogni forma e nessuna, ogni volto e nessuno: era il Caos, era un’essenza primordiale, qualcosa che andava oltre la divinità, non seconda a nessuno se non allo stesso Fato. E tuttavia era anche la sua unica speranza di tornare su Kios e vendicarsi dei suoi nemici.

Alla fine ce l’aveva fatta. Era arrivato dove solo un Antico era riuscito ad arrivare. Adesso doveva solo trovarlo.

Kios, Terre degli Elfi Azzurri, Amerjin

La sala era splendente di mille luci. C’era il giallo dorato delle lucciole di Alto Bosco, e quello più rossastro delle lucciole di Sottobosco; c’era l’azzurro della Polvere di Luna e il verde quasi spettrale del Lichene di Roccia. E poi le gemme. Ognuna brillava di un colore diverso, trasformando ogni più sottile flusso di magia in luce.

Rispetto alla lucentezza della sala, gli abiti degli ospiti erano quasi spenti. Nonostante quello che pensavano gli umani, che li dipingevano spesso in vesti sgargianti, gli Elfi preferivano i colori della terra e della foresta a quello dei fiori e delle farfalle. Il colore doveva sempre e solo essere una piccola macchia, un impreziosimento. Ora una spilla, ora un diadema, ora un piccolo ricamo sulla spalla o all’attaccatura del mantello, ma l’abito nel suo complesso era quasi sempre di un verde scuro o marrone, a volte con tonalità rossastre, a volte quasi nero, ma mai brillante. In questo Maidne era l’eccezione. Lei amava il bianco.

Oltre agli Spéirmil di Amerjin, c’erano quelli di Fionnach e Katbah: i clan degli Aon-Fhillteachd, degli Ard-Bheann, dei Balg-Shuileach e quello più grande, i Glòir-Mhiannach. Ma non c’erano solo gli Elfi Azzurri nella sala. Separati dagli altri, dove le ampie finestre davano sul sole morente a ovest, c’erano gli Elfi Bianchi di Drum Celen e Drum Cain. A differenza dei loro cugini occidentali, i Bànmil non erano solo divisi in clan: le città-stato più importanti, infatti, formavano dei veri e propri principati che raggruppavano più clan. Quello appunto di Drum Cain, governato dal Principe Tighearn Uasal an Teine Naoimh, e quello di Drum Celen, governato dalla Principessa Ailios Davina an Glas Gleann, entrambi presenti quella sera.

Se i Bianchi dei Drum spiccavano per altezzosità, ancora di più lo facevano due personaggi che se ne stavano in un angolo della sala a parlare fra loro, ignorati, almeno in apparenza, da tutti gli altri. I due erano vestiti di nero ma la loro pelle era bianca, di un pallore mortale che contrastava col blu profondo dei loro occhi. Anche i capelli erano bianchi, sottili come fili di ragnatela, mentre le unghie, lunghe, erano laccate di nero. Era difficile capire di che genere fossero. Entrambi avevano gli occhi e le labbra truccate, ma la forma delle spalle e della vita faceva ritenere si trattasse di maschi.

Un suono di corno si levò nell’aria a interrompere il brusio che aveva dominato nella sala fino a quel momento. Tutti gli sguardi si volsero verso l’arco, dal cui centro Oide Sebagh e Maidnenoise stavano entrando nella grande sala. Non ci fu nessun annuncio. Non era necessario. Ognuno lì, con forse l’unica eccezione dei due elfi vestiti di nero, sapeva chi fossero gli altri, e le presentazioni formali non rientravano nelle usanze degli Elfi. Non che questi non avessero dei protocolli anche piuttosto complessi, ma erano legati ad altri aspetti della loro vita sociale.

– Che il vostro cuore possa battere in accordo con quello della terra.

I presenti sollevarono la mano nel segno di risposta tradizionale all’antico saluto. Rispondere a voce tutti insieme sarebbe stato quantomeno inappropriato.

Il sovrano degli Spéirmil si portò al centro della sala, quindi invitò i suoi ospiti a sedersi. Nel salone non c’erano vere e proprie sedie e tanto meno divani con cuscini come si trovano nei palazzi reali degli umani, ma rami e radici formavano tutta una serie di panche naturali tutto intorno alla sala, su cui cresceva un fitto tappeto di muschio. Quando tutti si furono accomodati, Oide fece un cenno con la mano ai due stranieri che erano rimasti in piedi. Questi si avvicinarono al sovrano e lo salutarono con un antico gesto nella lingua dei segni, che veniva usata fra i vari clan quando ancora ognuno parlava solo il proprio dialetto. Era oltre un millennio che molti dei presenti non vedevano usare quella lingua e fissarono incuriositi i due personaggi, così simili a loro eppure così diversi. Che fossero Elfi era abbastanza chiaro, infatti, ma non erano certamente né Bianchi né Azzurri. Tuttavia era considerata cattiva educazione mostrare curiosità o sorpresa in un incontro formale, per cui attesero in silenzio che il sovrano dei Làidirlàhm li presentasse.

– Suppongo che alcuni di voi si ricordino di quando la nostra razza dominava su tutta Kios. A quell’epoca il continente era abitato da altri popoli elfici, come gli Uainemil delle foreste meridionali, o i Deargmil del deserto centrale.

Alcuni annuirono, altri aggrottarono la fronte, essendo nati dopo che oltre la metà dei popoli elfici aveva lasciato Reta, assieme alla maggior parte delle creature fatate. Oide ignorò quelle espressioni di perplessità, così inappropriate. Sapeva che non sarebbe stato facile. Era passato davvero troppo tempo, anche per loro.

– Quello che tuttavia non sapete è che agli albori della Terza Era, quando gli Antichi stabilirono con noi il Patto, c’era un altro popolo elfico, un popolo “nascosto”, poco noto persino alla maggior parte degli altri di noi.

– Un momento!

A interrompere il sovrano era stato il Principe Tighearn Uasal.

– Non starete parlando degli Elfi Scuri?

Un brusio si sollevò nell’aria. Oide non rispose. La risposta era evidente, almeno per lui, e probabilmente ora anche per gli altri. Gli sguardi increduli e anche piuttosto scettici che gli stavano rivolgendo, tuttavia, gli confermò che sarebbe stato ancora più difficile del previsto. Adesso, ogni apparenza di formale cortesia era svanita.

– Gli Elfi Scuri sono solo una leggenda. Nessuno del nostro popolo servirebbe mai il Caos. Noi siamo i campioni della Luce e dell’Ordine, non dell’Oscurità.

Ora a parlare era stata Ailios Davina. La principessa aveva dei lunghissimi capelli neri che le scendevano sulle spalle nude. Indossava una semplice tunica di cotone grezzo, stretta sotto il seno da una fascia verde scuro e bloccata su un lato da una spilla d’argento.

– Vorrei ricordare che questa è la vostra interpretazione del Patto. – replicò Oide, facendo riferimento al fatto che gli Elfi Bianchi consideravano il mandato dei Grandi Draghi come un invito a contrastare il Caos con l’Ordine, al contrario degli Azzurri che perseguivano solo l’Equilibrio.

– L’Oscurità è figlia del Caos. Quale altra interpretazione sarebbe possibile?

– Ce ne fu un altro.

Il silenzio calò sulla sala. A parlare era stato uno dei misteriosi ospiti. Aveva un accento strano, di antica memoria.

– Permettete che mi presenti. Sono Talek Withell, Onorario del Sesto Cerchio e Protettore del Patto, dei Dubhmil.

– Ce ne fu un altro? Di cosa? – chiese Tighearn Uasal, che trascurò deliberatamente di presentarsi a sua volta, un comportamento che sarebbe stato considerato offensivo da qualsiasi altro elfo del suo stesso lignaggio. L’elfo scuro, tuttavia, sembrò ignorare l’atto di maleducazione del suo interlocutore.

– Di Patto.

Fu Oide a rispondere. Questa volta, più che un brusio, si sollevò un vero e proprio clamore fra le due dozzine di elfi che erano presenti nella sala.

– Cosa state dicendo? Questo è assurdo. Di quale altro Patto state parlando?

Oide sollevò una mano. Il silenzio calò di nuovo nella sala. Si era andati ben oltre, sebbene quanto detto fino a quel momento giustificasse in parte comportamenti che in altre circostanze sarebbero stati considerati gravi violazioni del protocollo. Oide era uno dei sovrani più vecchi e questo, fra gli elfi, aveva più valore di qualsiasi titolo.

– Conoscete tutti il Principio Primo. Sapete bene che non è l’Ordine o il Caos che vanno perseguiti, ma l’Equilibrio.

– Questo è ovvio. – ribatté il Principe di Drum Cain – Ma questo riguarda la realtà nel suo complesso. Noi rispettiamo il Caos nel continuo divenire della vita, ma senza l’Ordine nessuna società sarebbe possibile. Questa deve essere fondata sulla base di regole e leggi. Se applicassimo a noi stessi gli stessi principi che regolano il ciclo della vita, saremmo in costante conflitto gli uni nei confronti degli altri!

– Conosco bene le vostre argomentazioni e non ritengo questo né il momento né il luogo per discuterne. Non sono qui per dissertare di filosofia, ma per rivelarvi un segreto che è noto solo a pochissimi fra noi. In verità, solo due, in quest’epoca.

– Parlate, quindi. – lo invitò Ailios Davina.

– Quando gli Antichi decisero di lasciare questo mondo, fecero un patto con i nostri popoli. Avremmo dovuto contrastare il Male ed evitare che prendesse il sopravvento. Ovviamente il loro intento era quello di garantire l’Equilibrio ma sapevano che alcuni di noi – e qui si volse verso il Principe di Drum Cain – lo avrebbero interpretato come un invito a sostenere l’Ordine.

Si fermò per un istante, guardandosi intorno, quasi a sfidarli a voler replicare. Ma nessuno lo fece. Così continuò.

– Così fecero un Secondo Patto. Se il Caos non doveva avere la meglio, così avrebbe dovuto essere anche per l’Ordine. Si recarono sui Monti Oscuri, all’interno dei quali viveva l’unico popolo elfico ad abitare nelle viscere delle montagne, gli Elfi Scuri, perché essi servivano il Caos, e con loro strinse un altro Patto. Avrebbero dovuto impedire che fosse l’Ordine a prendere il sopravvento. I due Patti, insieme, avrebbero garantito l’Equilibrio. E dato che gli Elfi Scuri erano formati solo da quattro clan, diedero loro un vantaggio: dissero loro che analogo Patto era stato fatto con gli altri popoli elfici, ma si guardarono bene dal rivelare a quest’ultimi di questo secondo accordo.

La Principessa di Drum Celen si alzò e si avvicinò a Oide. Era visibilmente preoccupata.

– Perché ci state dicendo tutto questo? E perché ora?

– Perché siamo in pericolo. – rispose l’altro Elfo Scuro, quello che ancora non si era presentato. – Tutti noi.

L’Abisso

Non lo avrebbe trovato. Non così. Continuava a ragionare come un comune mortale. Doveva smettere di pensare al Caos come a qualcosa di ben definito, a qualcuno a cui rivolgersi. Lui era già lì, tutto intorno a sé. Doveva solo trovare il modo di… era assurdo, ma doveva riuscire a comunicare con lui, anche se non c’era nessun “lui”, non nel senso che solitamente si dà a quella parola.

Si fermò, quindi sollevò il capo e allargò le braccia. C’era solo un modo. Diventarne parte. Solo così poteva arrivare a lui: negando sé stesso, ciò che era, la propria individualità. Era il Sacrificio Supremo, l’Annullamento. Ora comprendeva le antiche scritture, le pagine su cui aveva speso notti intere per capire ciò che una semplice mente umana non poteva neppure immaginare.

Il Caos non ammetteva che potesse esistere qualcosa che non fosse caos. Qualsiasi realtà alternativa era un differenziarsi e quindi un passo impercettibile ma ineluttabile verso l’Ordine. L’Ordine era enumerazione, era lo spezzarsi del continuo nel discreto, il ripetersi dell’unicità in un’uniforme molteplicità della stessa realtà, come un’immagine riflessa da una teoria infinita di specchi paralleli.

Chiuse gli occhi e si lasciò andare. Fu come addormentarsi. Un abbandonarsi, ricordo dopo ricordo, in un mare di oblio che lo fece a brandelli, lo disperse come il vento disperde il fumo che si avvita nell’aria. Poi il nulla, o il tutto, che era poi la stessa cosa. Seppe. Capì. Decise. Scelse.

Un nuovo sacrificio, contro la sua stessa natura, stavolta, perché necessario. Dal Tutto di nuovo all’Uno. Dal caos di nuovo a quel piccolo frammento di ordine che è l’essere un individuo, perché diventasse il seme capace di generare una crepa nel tessuto stesso del tempo e dello spazio. Una crepa che si sarebbe allargata e gli avrebbe permesso di inondare ogni piano, ogni realtà, fino ad avviluppare l’intero multiverso nella sua non-essenza.

Quando il vento calò, un’ombra si addensò dove prima c’era l’Arcano. Un’ombra che prese le sembianze di un giovane dallo sguardo chiaro come il ghiaccio e i lunghi capelli neri come il piumaggio di un corvo. La pelle, quasi eburnea, spiccava nella penombra rossastra che lo avviluppava. Il corpo era sodo, muscoloso, asciutto: pelle, muscoli, tendini e ossa, tesi a formare una struttura solida eppure leggera, quasi femminea.

L’essere abbassò la testa, come se stesse ascoltando qualcosa in lontananza, quindi la sollevò, fissando un punto davanti a sé. Allungò una mano e strappò un brandello di spazio. Al di là dello squarcio, una distesa di tronchi sottili dalla corteccia biancastra brillava sotto i raggi luminosi di una luna argentata. L’aria era limpida. Il blu di quel paesaggio contrastava col rosso ardente che circondava la sua figura.

L’uomo, seppure tale era solo nell’aspetto, fece un passo avanti. Mentre attraversava lo squarcio, una nebbia scura avvolse la sua pelle, per poi trasformarsi in un paio di pantaloni di tela e una camicia di cotone grezzo, tenuta alla vita da una fusciacca nera. Quando sollevò lo sguardo verso la luna, ritto nel mezzo di un’ampia strada che mostrava qua e là le vestigia di un antico ciottolato, indossava ora anche un paio di stivali di pelle nera, un mantello e una spada col fornimento della guardia alla “Pappenheimer”.

Il Signore delle Ombre era tornato. 

[i] Siamo arrivati.

Dario de Judicibus, Il Signore delle Ombre , ciclo: La Lama nera, Delos Digital, Odissea Fantasy 21, isbn: 9788825406627, ebook formato kindle (su Amazon.it) o epub (sugli altri store) con social drm (watermark) dove disponibile , Euro 4,99 iva inclusa

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