Quando un ragazzo ti mette in guardia dal pranzo di Natale con la sua famiglia, e tu sei già in macchina con le portiere bloccate, non è mai un buon segno. La città si sfalda fuori dai finestrini, sostituita da una campagna piatta e omogenea che sembra congelata in un inverno perenne, come  nelle fiabe. È in quel momento, a pochi chilometri dall’uscita per Gropello Cairoli, che Damiano mi posa una mano sul ginocchio senza togliere gli occhi dall’autostrada.

- I miei sono gente affettuosa, sai? – mi assicura. – Solo, non farti spaventare dalla zia Titti.

Io trattengo un singulto: – Spaventare? In che senso?

- Lo vedrai.

- Se dici così è ovvio che mi spavento…

Lui ride, e stavolta mi lancia una delle sue occhiatine sornione. – Sul serio, non c’è niente di cui aver paura. È solo che all’inizio può fare un po’ impressione.

Mi volto a fissare il guard rail che scorre a lato della carreggiata, senza rispondere. Io e Damiano ci frequentiamo da più di sette mesi, ma non ha mai parlato di questa zia Titti. Fin dal nostro primo incontro, seduti allo stesso tavolo del bar affollato in cui pranziamo ogni giorno, mi ha stupito per la sua propensione a condividere tutto, ad aprirsi per farsi leggere dentro. Ero abituata a tipi di poche parole, che dovevo implorare in ginocchio perché mi parlassero dei propri sentimenti e della famiglia. Di Damiano invece so tutto, o almeno così credevo: genitori insegnanti (lei di scienze sociali, lui di storia e filosofia), una sorella maggiore, un’infanzia sonnacchiosa trascorsa in Lomellina, e poi l’università a Milano, dove lavora come amministratore di rete in un’azienda di telecomunicazioni. Io invece assisto la direttrice di un’agenzia pubblicitaria, e il bar dove ci siamo conosciuti è a metà strada fra i nostri uffici.

- Guarda, qui un tempo era tutta campagna – dice all’improvviso, accennando con la testa ai campi arati che costeggiano l’autostrada. Io però non ho voglia di scherzare.

- Non capisco perché fai tutto questo mistero – rispondo. – Mi dici cosa cos’ha questa tua zia? Chi è?

- La sorella minore di mia madre.

- E perché mi dovrebbe spaventare?

Si stringe nelle spalle, facendosi tutto cupo. – Flo, non ti preoccupare. È solo che spiegarlo non è facile. Quando vedrai, capirai.

Non aggiunge altro per tutto il resto del viaggio, che fortunatamente dura poco. Quando passiamo la rotonda di accesso a Gropello e percorriamo la via principale, bastano tre minuti per raggiungere la casa dei suoi. È una villetta circondata da un giardino, incastonata fra altre villette simili, spesso affiancate da una piccola aia dove pascolano polli e galline.

- Certe cose non ci sono mica in città – dice Damiano mentre parcheggia nel vialetto a lato della casa. Mi tratta sempre come se non avessi mai visto un animale in vita mia, quando invece sa benissimo che i miei zii hanno una fattoria, e da piccola ci passavo i fine settimana. Credo sia un modo per compensare il suo senso d’inadeguatezza nei confronti della grande città: se io posso guidarlo nella foresta urbana di Milano, lui si sente in dovere di fare lo stesso tra i campi della Lomellina.

- Senti che aria! – esclama poi quando scendiamo. In realtà c’è un odore strano, che scopro provenire dalla fabbrica di concimi poco distante. Damiano però si comporta come se mi avesse portata sul K2, respirando a pieni polmoni, petto in fuori, finché non scoppio a ridere e gli dico di smetterla. In quel momento dalla porta d’ingresso vedo uscire una donnina con le labbra velate di rosso, gli occhiali dalla montatura dorata e i capelli color acciaio, tagliati corti: sua madre Giovanna.

- Florinda, che bello, finalmente ci conosciamo! – Mi abbraccia forte, solo che io ho le mani occupate da un vassoio di biscotti fatti in casa, e non posso ricambiarla. Resto lì, rigida e goffa, mentre oscilliamo entrambe da un piede all’altro. – Buon Natale! – aggiunge non appena scioglie la stretta. Mi prende sottobraccio e mi porta dentro, con Damiano che mi posa una mano sulla schiena come quando entravamo insieme in un ristorante, all’inizio della nostra relazione.

Nel soggiorno, tutto colori tenui e mobili in legno, un albero decorato di blu e argento se ne sta ritto in un angolo, con i rami che sfiorano la finestra. Carlo, il padre di Damiano, mi viene subito incontro: è un uomo robusto dai capelli radi, con piccoli occhi vivaci sotto la fronte prominente. Mi stringe la mano con vigore dopo avermi liberata dal vassoio per poggiarlo sul tavolo, gesto di cui gli sono grata. Sul divano, un bimbo e una bimba si passano il tablet della madre, che è Sonia, la sorella di Damiano. Hanno le guance arrossate dal freddo perché sono appena stati fuori a giocare, e Sonia – che ha ereditato la costituzione massiccia e il viso tondo del padre, le spalle larghe da nuotatrice – sta appendendo i loro cappottini a un attaccapanni. Suo marito Giorgio è un bel tipo alto e squadrato, con una piccola cicatrice sul labbro dovuta ai suoi trascorsi nel rugby. Ora lui e Sonia hanno un’agenzia immobiliare che opera nella zona, e mi rivolgono i classici sorrisi di chi è abituato a trattare con gli estranei. Anche Bruno, il cognato di Giovanna, mi sorride. Ha gli occhi di un azzurro molto limpido, un folto pizzetto grigio che gli incornicia la bocca, ed emana un profumo pungente, legnoso. È il marito della famosa zia Titti, quella che dovrebbe farmi paura. Lei però non c’è da nessuna parte, e comincio a pensare di essere stata presa in giro.

- Vieni, ti faccio vedere il giardino sul retro – mi dice Damiano, sempre posandomi una mano sulla schiena.

Oltrepassata la cucina, una porta finestra si apre su un prato ben curato, delimitato sul lato opposto da una grossa rimessa per gli attrezzi. Al centro si staglia un cachi, ormai completamente spoglio, con l’esclusione di alcuni frutti aggrappati ai rami superiori. Sembrano gioielli sulle dita di un morto. Corvi e altri uccelli passano ogni tanto per dare una beccata, e si vede che i frutti sono belli morbidi e polposi, pronti per essere colti. Anche i miei zii avevano un cachi, prima che si ammalasse e lo facessero tagliare. Mi avevano insegnato a scavare i frutti con un cucchiaino, anche se a me piaceva affondarci i denti finché il succo non mi colava sul mento.

- Maturano proprio a Natale, sai? – dice ancora Damiano. – Lei torna giusto in tempo per vederli, ogni anno.

All’inizio non capisco a chi si riferisca, poi abbasso lo sguardo e la vedo. Vicino al tronco, a solo un paio di metri di distanza da noi, c’è una figura che si confonde nell’aria. Sembra una di quelle meduse che si vedono nei documentari sugli abissi marini, ma la forma del corpo è chiaramente di una donna, esile come Giovanna, solo un po’ più alta e con i capelli lunghi. I raggi del sole, che solo adesso ha bucato la nebbia, le passano attraverso, dandole una sfumatura azzurrina. Non si distinguono bene gli occhi, è come se fossero perennemente in ombra. Vedo però che ha la testa rivolta verso l’alto: sta fissando i frutti in cima all’albero, come facevo io poco prima. Le mani sono coperte da guanti di pelle marrone tutti consumati sulle punte, ma il corpo è così evanescente che paiono sospesi nel vuoto.

Giovanna ci raggiunge con passo leggero, attutito dall'erba. – Immagino che Damiano ti abbia avvertito – dice. – Titti è la nostra ospite speciale.

Io non rispondo, sono troppo concentrata sulla strana sensazione che avverto dietro al collo e sulla nuca. Ho cominciato a sentirla non appena sono uscita in giardino. È come quando, da piccola, mi sfregavo un palloncino sui capelli per farli drizzare. Mi rendo conto che è la zia di Damiano a fare quell’effetto, sento persino la peluria delle braccia che si solleva sotto il maglione. È bizzarro, ma non spiacevole.

Mi raccontano che Titti è morta cinque anni fa, proprio mentre coglieva i frutti da questo albero. Lo faceva sempre, sotto Natale: indossava i guanti per proteggersi dai rami aguzzi, e riempiva una cesta con i cachi attaccati alle fronde più basse. Ma per quelle più alte, dove ora i corvi pasteggiano indisturbati, aveva bisogno di una scala. Cinque anni fa, la mattina della vigilia, la brina aveva reso i pioli scivolosi, e Titti era caduta mentre cercava di raggiungere gli ultimi frutti. Si era spezzata il collo battendo sul terreno.

- Da allora abbiamo smesso di prendere i cachi sui rami più alti – commenta Giovanna con un velo di tristezza. – Li lasciamo agli uccelli.

Poi però, l’anno successivo alla sua morte, Titti è tornata. La mattina della vigilia, Giovanna e Carlo hanno visto la sua sagoma traslucida sotto l’albero, i vecchi guanti lungo i fianchi, la testa sollevata a guardare i frutti. Lo spavento iniziale si è trasformato ben presto in familiarità, e ora l’aspettano a ogni Natale, come un parente che si è trasferito lontano e può farsi vivo solo per le feste. Beh, “farsi vivo” non in senso letterale, ovviamente.

- Amore, vieni a tavola con noi – dice Bruno allo spettro di sua moglie. Le prende la mano per uno dei guanti e la guida dentro casa. Titti si lascia condurre, fluttuando sull’erba dietro di lui. Per quanto mi riguarda, sono più stranita che spaventata: se a loro sta bene così, io non discuto. Ho avuto fidanzati con segreti peggiori.

Damiano è contento della mia reazione, mi fa quasi sentire come se avessi passato un test. Ha persino smesso di indicarmi ogni singola creatura animale o floreale che non potrei trovare in città. A tavola, racconta di come l’abbia salvato dal caos della metropoli, proprio quando cominciava a stancarsi. Sono stata io a fargli scoprire il Quadrilatero del Silenzio, i vicoli di Brera e Chinatown, le case di via Lincoln, il quartiere Maggiolina e altri scorci tranquilli di Milano. Intanto faccio il mio dovere: rido nei momenti giusti, mi complimento con Giovanna e Carlo per le lasagne, racconto del mio lavoro senza monopolizzare l’attenzione. Tra una battuta e l’altra bevo un ottimo vino dell’Oltrepò Pavese, e lancio qualche rapida occhiata a Titti. C’è un posto anche per lei, vicino a Bruno, con un piatto e un bicchiere vuoti dal valore probabilmente simbolico. Sta persino seduta sulla sedia, o quantomeno ci fluttua sopra. Mi chiedo quanta memoria delle antiche abitudini abbia conservato dentro di sé.

- Credo sia carica elettrica residuale, sai? – mi dice Bruno posando una mano su quella della moglie, dopo aver notato che la stavo guardando. È ingegnere elettrotecnico, e sostiene di averci riflettuto a lungo. – Il nostro corpo produce energia elettrica, e questo è ciò che resta di lei. In qualche modo, è riuscita a tenersi insieme.

Titti si limita a fissare il vuoto davanti a sé. Ogni tanto Bruno le parla, ma è chiaro che non si aspetta una risposta. Nemmeno i figli di Sonia ci fanno molto caso. L’unica eccezione è quando la bimba si avvicina a Bruno: – Posso? – gli chiede, senza specificare a cosa si riferisca. Lui replica che va bene, – ma solo una volta – aggiunge con un sorriso. Allora la bimba si avvicina a Titti, alza un braccio e affonda la mano nella spalla eterea della zia. Per un attimo, le piccole dita sono avvolte dalla luce azzurrina del suo corpo, e si muovono piano come se fossero immerse in un acquario. Poi, la bimba ritrae il braccio e scappa via ridendo, con tutti i capelli ritti sulla testa.

Il pranzo continua, un bicchiere di vino dopo l’altro, fino a un delizioso pandoro farcito di crema. Ormai sono piuttosto brilla, e il clima è molto rilassato. I bambini guardano un film d’animazione in TV, mentre Damiano promette a sua sorella che darà un’occhiata alla rete dell’agenzia. Nessuno fa caso a me quando mi alzo per prendere un po’ d’aria, cullata dal cibo e dall’alcol. Sono però abbastanza lucida da soddisfare una curiosità: passando dietro alla zia Titti, le sfioro la schiena con un dito. È come se dentro di lei l’aria fosse più densa. Sento un solletico molto gradevole, e poi un lieve intorpidimento, simile a un arto addormentato. La sensazione mi rimane addosso mentre osservo le foto su una credenza dall’aria antica, ma che forse proviene da uno di quei grandi mobilifici che costellano la provincia. Sono scatti recenti, tutti del periodo natalizio: i bambini, non molto più piccoli di adesso, giocano attorno al cachi nei loro giubbotti invernali, sorvegliati da Giovanna che è ritratta di spalle. In un’altra foto, Giorgio è inquadrato dal basso verso l’alto, proprio sotto i rami dell’albero, e tiene in braccio il maschietto che allunga la mano per cogliere un cachi tutto ammaccato. Nello scatto vicino, ancora l’albero: i frutti superstiti concentrati in cima, le fronde spoglie e tristi più in basso, l’intera famiglia riunita per le feste che socchiude gli occhi al sole dorato. Tanti bei quadretti familiari, non c’è dubbio, ma la costante di ogni foto è sempre quel maledetto albero con i suoi cachi intonsi.

Esco nel giardino per dargli un’altra occhiata dal vivo, e rimango per un po’ con la schiena poggiata al muro della casa, a fissarlo. Dall’interno, sento ancora Damiano che parla di lavoro. Nel frattempo due corvi, gracchiando a intervalli regolari, piluccano i frutti sul ramo più alto. Molti però sono ancora integri, li vedo floridi e luminosi contro il cielo spento. È un peccato lasciarli così, penso. Guardandoli, mi torna in bocca il piacere di mordere un cachi maturo, sentirlo che si spappola sotto i denti mentre il profumo dolce ti riempie le narici. In quel momento, percepisco l’alcol che comincia a manovrare i fili del mio corpo. Muovo un passo davanti all’altro fino alla rimessa degli attrezzi, dove trovo una scala pieghevole in alluminio: forse la stessa da cui cadde Titti, chissà. Da ubriaca mi faccio molte domande, ma non perdo tempo a cercare le risposte. I pioli sono asciutti, e la scala è leggerissima, la sollevo quasi senza accorgermene. Si apre con uno scatto soddisfacente mentre la colloco sotto l’albero. Guardo le bucce arancioni dei cachi e li desidero, ma non è solo quello. Tra i fumi dell’alcol, sento di voler dimostrare a questa famiglia che non c’è niente di cui aver paura. Voglio dimostrare che sono all’altezza di qualunque sfida mi metteranno davanti, compreso sfatare un tabù quinquennale. Sarò la loro eroina.

Salgo la scala fino in cima con un cesto di plastica che ho trovato nella rimessa, e comincio a raccogliere i cachi. Quelli mangiati dai corvi ormai sono consumati, ma gli altri vanno benissimo. Li stacco dall’albero e li ripongo nel cesto con delicatezza, scendendo di volta in volta per riposizionare la scala. Quando ne mancano solo una manciata, guardo in basso e trasalisco: là sotto, immobile sul prato, c’è Titti che mi osserva.

- È un peccato che tu non possa più mangiarli – dico con la voce un po’ strascicata. – Però sto finendo il tuo lavoro, sei contenta?

Anche Bruno è uscito in giardino, sulla scia della moglie defunta. – Cosa fai? – grida non appena mi vede. – Sei impazzita? Scendi subito!

Giovanna, Damiano e gli altri si precipitano fuori, e la voce di Damiano si assottiglia in un sibilo nervoso, come accade sempre quando è preoccupato. – Flo, ma sei matta? Scendi, dai!

- Tranquilli, ho quasi finito!

Titti continua a scrutarmi, la testa sollevata. Mi sembra di vedere la luce tenue del suo corpo che freme, mandando piccoli lampi eccitati. Di cachi ne è rimasto solo uno: lo afferro per bene, con i polpastrelli che affondano nella buccia morbida, e lo stacco di netto dal ramo.

- Ecco, adesso sei soddisfatta? – dice ancora Damiano avvicinandosi alla scala. – Vieni giù da lì!

Io non lo ascolto, sto guardando Titti. Emette una specie di vibrazione, con un ronzio che ricorda quello dell’alta tensione. Sta fissando l’albero spoglio, e per la prima volta riesco a scorgere la sua bocca. Dopo alcuni secondi, sposta di nuovo gli occhi su di me: ho l’impressione che stia sorridendo, ma potrei sbagliarmi. Di certo vedo i tratti del suo viso rilassarsi, e i contorni del corpo diventare ancora più rarefatti. Il ronzio cresce fino ad arrestarsi di colpo, anticipato dai guanti che cadono a terra con un tonfo discreto. Pian piano, Titti si lascia andare fino a dissolversi nell’aria.

- Amore, no! – esclama Bruno. – Aspetta, ti prego! – Ma ormai è troppo tardi, sua moglie se n’è andata.

Nessuno dice niente quando rientriamo in casa. Damiano mi fa sedere sul divano e mi porta un caffè, ma Bruno e Giovanna mi guardano come se avessi appena ucciso un membro della famiglia. Tecnicamente non è cosi, dato che era già morta. Dal canto loro, Carlo e Giorgio non danno molto peso a quanto è appena successo, e si versano un amaro in cucina. Sonia invece è troppo occupata con i bambini per serbarmi rancore. Sul tavolo, il vassoio con i miei biscotti natalizi non è stato toccato da nessuno.

Io e Damiano decidiamo di andare a vivere insieme dopo poche settimane. Ripete spesso che la sua famiglia non poteva continuare così, e che la morte della zia Titti prima o poi andava superata. Mi ringrazia per il mio “fondamentale contributo alla causa”, come si diverte a chiamarlo, ed è sicuro che entro il prossimo Natale tutto sarà perdonato. Intanto, a fine febbraio si trasferirà da me: la mia casa è più grande del monolocale che ha preso in affitto, e vuole aiutarmi a pagare il mutuo. Gli dico che non è necessario, ma lui insiste più a lungo di quanto non voglia fare io, e alla fine mi arrendo. Averlo incontrato è la cosa migliore che potesse capitarmi, dopo una sequela di uomini scorbutici e deludenti. Damiano invece è di tutt’altra pasta, non ha il carattere ombroso e irrisolto dei miei ex: anticipa sempre le mie esigenze, è dolce ma propositivo, sa ascoltare e consigliare senza fare prediche. Non sembra nemmeno un uomo.

Chissà come reagirà quando gli farò conoscere tutti gli spettri che infestano casa mia.