Scompare così l’anno in tanti ieri

e torna ancora l’inverno, com’è legge del mondo

- Anonimo, da Sir Gawain e il Cavaliere Verde

– Se proprio devi fumare, almeno fallo come una donna. – È stata sua madre a dirglielo, la prima volta che l’ha vista con una sigaretta in mano. Viola ci ripensa mentre fa scattare l’accendino, irrigidita dal freddo di dicembre. Nonostante i rimproveri della madre – o forse proprio per quelli – regge ancora la sigaretta nell’incavo delle dita, invece che fra le punte: come faceva suo padre. Soffia fumo azzurrino verso il cielo scuro, mescolato al suo respiro gelido e all’odore del ristorante nepalese lì vicino. È stanca.

La chiusura della mostra di Tolisso, nella piccola galleria d’arte che gestisce da pochi mesi, è andata bene. Eventi del genere hanno sempre successo prima di Natale, la gente ha voglia di festeggiare. Ora non c’è più nessuno, a parte l’artista e due persone che non conosce: Viola li vede attraverso la vetrina, impegnati a sorseggiare ciò che resta del loro spumante. Poche auto sulla strada, preannunciate dai coni luminosi dei fari. Ai lati della carreggiata, gli ultimi grumi di neve sono duri e anneriti. Poco sopra, le sparute luminarie natalizie le ricordano che i festeggiamenti continueranno altrove, almeno per un po’.

Un tempo qui ci vivevano soprattutto operai, prima che le fabbriche venissero delocalizzate. Adesso il quartiere trabocca di spazi espositivi, atelier di moda, mercatini dell’usato, birrerie artigianali e uffici per il co-working. L’età media degli abitanti si è notevolmente abbassata. Deb l’ha paragonato a una zona di Brooklyn, ma Viola non ricorda quale. L’unica traccia del passato che ancora resiste è un vecchio capannone industriale, crollato pochi giorni fa sotto il peso della nevicata. L’area è tutta recintata, ma nessuno ha ancora mosso un dito per sgomberare le macerie: ne hanno parlato anche al telegiornale.

Chissà se è rimasto un po’ di spumante.

Viola fa per rientrare, il mozzicone ancora acceso che le si consuma fra le dita. Non ha voglia di andare fino all’angolo per buttarlo nel cestino, farà finta di niente e lo schiaccerà per terra. Tanto non c’è nessuno in giro, o almeno così crede. Si guarda intorno con un brivido, incassando la testa nelle spalle, e solo allora ci fa caso: sul marciapiede opposto c’è un uomo che la osserva. Non riesce a vederlo bene, però. Viola socchiude le palpebre per focalizzarlo meglio, ma la sua figura rimane poco chiara, come se fosse schermato da un velo di foschia. Veste un giaccone scuro, che gli cade lungo il corpo dalle spalle incurvate. Il resto non riesce a distinguerlo, a parte un dettaglio curioso: non ha le scarpe. Indossa solo dei calzettoni chiari, o qualcosa del genere. Con quel freddo, Viola si stupisce che l’uomo si regga ancora in piedi.

Quando si volta per rientrare nella galleria, spingendo la porta a vetri con le mani intirizzite, cede alla tentazione di lanciargli un’ultima occhiata. Sul marciapiede opposto non c’è più nessuno.

Tolisso sta illustrando i dettagli di un quadro alle altre due persone, un uomo e una donna che annuiscono all’unisono ed emettono vocalizzi ammirati. È un artista di appena 25 anni, l’età giusta per credere che l’informale e il ready-made abbiano ancora qualcosa da dire. Però il talento non gli manca: è bravo a prendere oggetti del quotidiano per mutarne il contesto e trasformarli in idee astratte… o forse il contrario, Viola non ricorda cos’ha scritto sul catalogo della mostra. Il quadro di cui sta parlando, ad esempio, s’intitola Sulle orme dei giganti. Tolisso ha inchiodato due vecchi scarponi alla tela bianca, con impronte color sangue dietro di loro. Le suole sono imbrattate di vernice, la stessa che ha usato per imprimere le orme. Tutt’intorno calcinacci grigi, incollati insieme a pagine di giornale accartocciate, pezzi di stoffa macchiati di rosso, foglioline secche schiacciate dai detriti. È la sua opera più recente, l’ha ultimata giusto in tempo per la mostra.

– Sì, uso solo materiali di scarto – dice con un cenno del capo rivolto al quadro, sorridendo a Viola quando si accorge del suo arrivo. – Gli scarponi e i calcinacci li ho trovati tra i resti del capannone… quello crollato, avete presente? In fondo alla strada. Mi piaceva l’idea di usare il territorio per creare qualcosa. Gli oggetti trovati sono pieni di verità.

Viola sorride tra sé, pensando a quanto suonano ingenui gli artisti che spiegano la propria arte. L’uomo e la donna però sembrano apprezzare, o almeno sono bravi a fingere. Nei loro calici è rimasto solo un tenue fondo ambrato. Se Deb fosse qui, si metterebbe dietro di lei simulando uno sguardo assorto nel quadro, ma intanto le percorrerebbe la linea della schiena con le nocche della mano destra, e una lama di piacere taglierebbe la carne di Viola fino ai fianchi. Poi tornerebbero a casa insieme, biascicando battute stupide tra l’italiano e l'inglese, brille di spumante, ridendo come sceme fino alla porta dell’appartamento di Viola, dove magari comincerebbero già a baciarsi, togliendosi le sciarpe e i berretti a vicenda, cercando la pelle nuda fra strati di lana, le mani intente a scavare, fino al calore dei corpi nudi e affannati. Farebbero l’amore sul letto, lo stesso dove per tanto tempo Viola ha dormito sola.

Ma nulla di tutto questo accadrà, perché Deb è tornata in America. Il suo master in design industriale prima o poi doveva finire, lo sapevano entrambe. Si erano conosciute grazie a un vecchio compagno d’università di Viola, il fratellastro di Deb, che le ha offerto ospitalità per due anni; anche se, alla fine, Deb ha passato la maggior parte del tempo in casa di Viola. E proprio in quell’appartamento, fumando una sigaretta dietro l’altra nel loro ultimo mese insieme (Deb le teneva tra il pollice e l’indice, come una canna), le due ragazze hanno trascorso notti intere a piangere e parlare, a cercare soluzioni che non esistevano, perché Deb sapeva che la sua vita non sarebbe stata lì. In casa indossava sempre una canotta bianca che lasciava scoperto il tatuaggio sul braccio sinistro, un intrico di rami spinosi che partiva dalla spalla, dov’era raffigurata una rosa rossa, e terminava in una rosa più piccola sul polso. Molte volte Viola aveva tracciato il percorso di quel disegno con le dita, mentre ascoltava Deb parlare della sua casa in Pennsylvania, dei suoi studi, della solidarietà col fratellastro contro un padre assente. E quando era giunto il momento di salutarsi, Viola si era chiesta perché le pene d’amore altrui erano sempre così nobili, eroiche, tempestose di rabbia e orgoglio, mentre le sue sembravano solo patetiche. Deb non aveva pianto in aeroporto, i suoi occhi erano già altrove.

Si ridesta dai suoi pensieri solo quando l’uomo e la donna le porgono la mano per salutarla. Tolisso li segue, andrà a cena con loro. – È andata bene, no? – chiede a Viola mentre si infila in fretta il giaccone e la sciarpa, che pende tutta da un lato.

– Molto. Quando parti per Barcellona?

– Appena dopo le feste. Voglio stare lì un po’ dopo l’inaugurazione. Spero di trovare un contatto anche per Madrid.

– Buona idea.

La mostra di Barcellona sarà il suo debutto internazionale: se avrà successo, Viola spera che Tolisso si ricordi della galleria che ha ospitato la sua prima esposizione, e della curatrice che l’ha organizzata. Si salutano con un ultimo cenno della mano, mentre Tolisso chiude la porta ed esce in strada. Ora nella galleria c’è solo silenzio, a parte il lieve ronzio di una centralina elettrica. Viola deve spegnere tutto, chiudere e tornare a casa. Con il buio fuori, la superficie della vetrina le restituisce il riflesso di troppe notti insonni, ombre scure sotto gli occhi e pallore lunare. Sembra scolpito nel ghiaccio, come l’ondata di gelo che all’improvviso le paralizza le membra, e Viola pensa di non aver mai avuto così tanto freddo come in quel momento. Lancia un’occhiata alla porta, che però è ben chiusa. Eppure il freddo resta, così intenso da farla tremare. Si stringe le braccia, facendosi piccola e compatta. Poi, nel riflesso della vetrina, qualcosa la turba: alle sue spalle, davanti a Sulle orme dei giganti, c’è una figura umana che guarda il quadro. Viola rimane immobile quel tanto che basta per focalizzare bene il riflesso, e sembra proprio un uomo con un giaccone scuro. Lo stesso di prima?

Trattiene il respiro e si gira di scatto: non c’è più nessuno. La galleria è vuota, a parte lei. Vede solo pareti di un bianco abbacinante, punteggiate dai quadri di Tolisso. Il gelo sparisce, e i suoi muscoli si sciolgono nel ritrovato calore. Quanto la prenderebbe in giro, Deb, se fosse lì con lei.

Cerca di scuotersi, di concentrarsi. La stanchezza è come una droga allucinogena, si beffa delle sue percezioni: è questa l’unica spiegazione. Meglio non pensarci. Prende la borsa, le chiavi, attiva l’allarme, e infine si avvia all’uscita. Quando allunga la mano per aprire la porta, però, il gelo ritorna. Lo sente correre nelle vene, e poi bloccarle i piedi come se non le appartenessero più. Stavolta intravede l’uomo scalzo con la coda dell’occhio, alle sue spalle, sempre davanti al quadro di Tolisso. Solo i battiti furibondi del cuore le ricordano che è ancora viva. Il freddo le arriva alle ossa come migliaia di aghi. Sempre con la coda dell’occhio, intorpidita dalla paura e dal gelo, vede l’uomo avvicinarsi a lei, ma è come se si muovesse a scatti. Sembra una di quelle animazioni a passo uno che studiava all’università. Ora l’uomo è proprio dietro di lei, alza un braccio e le sfiora la nuca. Per un attimo, Viola sente quelle dita ghiacciate intrufolarsi nella sua testa, ed è convinta che perderà i sensi. Ma dura poco: la sensazione svanisce di colpo, insieme al freddo e alle dita dell’uomo. Allora Viola coglie subito l’occasione, non si gira nemmeno a controllare. Esce dalla galleria, chiude a chiave la porta, abbassa la saracinesca e scappa nella notte. Solo quando arriva al portone di casa si accorge di aver corso per tutto il tempo.

Dopo aver infilato il pigiama, fuma un’altra sigaretta con le mani che tremano, seduta a gambe raccolte sul divano. La voce di sua madre le risuona in testa, sempre la stessa, e Viola stringe ancora di più la sigaretta nell’incavo delle dita. Non riesce a smettere di pensare all’uomo scalzo, al suo tocco glaciale che le trapassa la nuca. Deve averlo immaginato, non c’è altro da dire. È solo stanca.

Per calmarsi, beve una camomilla bollente. Era l’antidoto preferito di Deb alle notti d’inverno: ne hanno consumate tantissime insieme, davanti alla finestra del soggiorno, facendo commenti sui rari passanti che transitavano lungo la strada. Ora non c’è nessuno, ma le luminarie giallastre del bar di fronte proiettano una pozza di luce sull’asfalto umido. Il vapore che esce dalla tazza la tranquillizza, le scalda il viso a ogni sorsata. Adesso ha solo voglia di seppellirsi sotto due strati di coperte e dormire. Lascia la tazza nel lavandino e si trascina a letto senza nemmeno struccarsi, pur sapendo che se ne pentirà la mattina dopo.

Stavolta il freddo lo sente salire dalle punte dei piedi. È sdraiata sul fianco, avvolta in un bozzolo di lenzuola e piumoni, quando il gelo la inchioda al materasso. Si fa minuscola, le braccia che cingono le gambe piegate contro il petto, ma non serve a niente. Trema come se il suo intero corpo fosse martoriato da scosse telluriche. Apre gli occhi, e l’uomo scalzo è in piedi davanti al letto. La guarda. Il solito giaccone rende la sua figura più massiccia di quanto non sia in realtà. Viola è di nuovo paralizzata. Emette solo un gemito, e si stupisce che un suono del genere sia uscito da lei. Non riesce a vederlo in faccia, è troppo buio, e comunque i suoi contorni appaiono sfumati: come se si disperdessero nell’aria.

D’un tratto l’uomo abbassa il capo, solleva le braccia e le stringe attorno all’addome. Viola non capisce cosa significhi, ma in quel momento sente uno strano tepore concentrato nel ventre, che pian piano si espande al torace, al collo, alle gambe, a tutto il corpo. Sembra una cosa viva. D’istinto anche lei si stringe ancora più forte, per trattenere quel calore. Allora l’uomo alza la testa, fissa Viola per qualche istante, poi volge lo sguardo verso la finestra. Sta cominciando a nevicare. I fiocchi sono ancora pochi, ma grossi e compatti come piume d’oca. E Viola finalmente capisce quello che deve fare.

Non si riveste nemmeno. Infila un maglione di lana sopra il pigiama, gli stivali e il cappotto. Acchiappa il berretto e la sciarpa dall’appendiabiti all’ingresso e corre fuori. Mentre si dirige verso il capannone crollato, ricordi che non sono suoi le affollano la mente. Procede in automatico sui marciapiedi già imbiancati, con lampi di vita altrui davanti agli occhi. Un uomo che perde il lavoro in fabbrica. Un piccolo appartamento sottratto dalla banca. Lunghe giornate a vagare senza dimora, con i pochi averi che gli rimangono: i vestiti che indossa, un giaccone scuro, gli scarponi pesanti che lo tengono all’asciutto. Il ritorno nei luoghi dove lavorava, un capannone ormai sgombro e cadente, ma anche un nuovo calore che si stringe a lui nelle notti d’inverno. Gli scarponi lasciati da parte durante il sonno, per dar tregua alle vesciche. Infine il crollo, e un ultimo sforzo per proteggere quel piccolo calore rannicchiato contro di lui.

Viola raggiunge il capannone quando in strada non passa più nessuno, e le macerie sono ricoperte da un sottile strato di neve. Trova un varco nella recinzione, incespica tra calcinacci, vetri rotti e residui di metallo contorti. Sa dove andare, e dove scavare. Raggiunge quello che un tempo era il fianco destro del capannone, e sotto una selva di travi comincia a levare manciate di detriti. Scava fino a farsi male alle mani, piccoli pezzi, un poco alla volta. Un piede scalzo affiora dalle macerie, poi l’altro. A seguire compaiono le gambe, il corpo avvolto nel giaccone scuro, la testa insanguinata con la faccia sul terreno. Ma non è quello che sta cercando.

Viola dapprima nota una schiena con il pelo arruffato. Spunta da sotto il cadavere dell’uomo, insieme alla punta di una coda. C’è anche un suono quasi impercettibile, acuto ma bassissimo, come se fosse dettato dal respiro. Viola alza delicatamente il corpo, affonda le mani nel pelo umido, e il cane fa un piccolo sussulto. Lo tira fuori con dolcezza, reggendogli il capo con il palmo. Ha gli occhi socchiusi, il corpo irrigidito dal gelo e dal terrore. Ma è vivo. Slaccia il cappotto e se lo stringe al petto, strofinandogli il fianco mentre cammina sulle macerie e attraversa la recinzione. C’è un pronto soccorso veterinario in zona, lo porterà lì. Loro sapranno cosa fare.

Prima di attraversare la strada, quando si gira a guardare il capannone distrutto, vede l’uomo scalzo in piedi sui detriti. Poi la figura si confonde con la neve sempre più fitta, e sparisce.

Il giorno dopo è la vigilia di Natale. Il cane sta bene, nonostante la denutrizione e il principio di assideramento. Viola potrà portarlo a casa nel pomeriggio. Ha deciso di chiamarlo Lotto, come il suo pittore rinascimentale preferito. Prima però deve supervisionare lo smontaggio delle opere di Tolisso, che saranno spedite a Barcellona per la nuova mostra.

Entra nella galleria a metà giornata, quando il cielo è ancora bianco e compatto. Ha smesso di nevicare solo da poche ore. Accende le luci, e il suo sguardo cerca subito Sulle orme dei giganti. Sulla tela, fra i calcinacci e le pagine accartocciate, i pezzi di stoffa e le foglioline secche, vede soltanto il vuoto delle impronte color sangue. Gli scarponi non ci sono più.