Una madre e due figlie nella Taiwan di oggi affrontano diversi conflitti. La madre pensa alla sopravvivenza del piccolo chiosco di cibo da strada che gestisce, unica; la figlia più grande cerca la sua dimensione con espedienti, in conflitto con la madre e con il mondo; la figlia più piccola vede tutto dal basso, non contestualizzando appieno le difficoltà, cercando comunque anche lei una sua via. Ma le tre donne in realtà non sono totalmente sole, ma afferenti a una famiglia disfunzionale, con al vertice una nonna traffichina che propende patriarcalmente per il "figlio maschio" e un nonno superstizioso che instilla nella nipotina mancina (la Left-Handed Girl del titolo in inglese), un senso di inadeguatezza.

Tutte dinamiche che gradualmente, tra eventi rocamboleschi, piani sequenza e scene di vita in profondità di campo, si caricano come una molla, per deflagrare nel terzo atto, denso di rilevazioni esplosive.

Girato in gran parte con iPhone, La mia famiglia a Taipei, diretto da Shih-Ching Tsou, co-sceneggiatrice insieme a Sean Baker, ha una freschezza visiva che prescinde dal mezzo. Si sorregge sull'intuizione di raccontare la storia ad altezza dei suoi personaggi. La camera si pone infatti ad altezza di bambino o adulto a seconda del punto di vista, e la trovata non viene tradita neanche negli scambi campo/controcampo, anzi proprio in questi scambi trova la sua principale ragione d'essere, in un film che è incentrato sul tema della visione del mondo adulto della piccola I-Jing.

Un film da vedere per scoprire anche quanto, in diverse parti del mondo, tante dinamiche emozionali siano in fondo le stesse.