Vi ho mai raccontato di quella volta con il Grande Verme? No?… Be’, andò così. Me ne stavo in giardino, stravaccato sull’erba, all’ombra della mia quercia preferita. I raggi di un sole caldo, ma non fastidioso, filtravano fra le foglie che cominciavano a cambiare di colore. Già, le foglie! Maledizione a loro!… Vivevo una di quelle rare situazioni di assoluto benessere, uno di quei momenti di piacevole distacco dal mondo e da tutto quanto. Atarassia. Tutti dovrebbero provarla, quella sensazione. Almeno una volta nella vita. E’ un po’ come trovare improvvisamente la Saggezza, e uno si stupisce, e si prenderebbe a schiaffi per non averci pensato prima: diamine, era lì, a portata di mano, la Saggezza! Sarebbe bastato stravaccarsi sull’erba, all’ombra della quercia, e spiare oziosamente l’incomprensibile laboriosità delle formiche, e bearsi del cinguettio gioioso degli uccellini, con i raggi di un sole caldo, ma non fastidioso, che filtrano fra le foglie che cominciano a cambiare di colore. Già, le foglie! Stupide foglie!… Ma sto tergiversando. Torniamo alla nostra storia. Dicevo: me ne stavo in giardino, stravaccato sull’erba e tutto il resto, e fu così che vidi il buco. Intendiamoci, non che fosse un buco con caratteristiche particolari. Solo, era bello grande, con un diametro che doveva misurare almeno mezzo metro, centimetro più centimetro meno. Si apriva sull’altro lato della quercia e il tronco lo nascondeva parzialmente alla mia vista. Mi spostai un pochino, strisciando sull’erba, e ci guardai dentro, proprio nel momento in cui la testa del Grande Verme stava per raggiungere la superficie.

- Uff! Che faticaccia! – si lamentò l’invertebrato, affacciando il testone sul prato. – Questa uscita s’è rivelata più stretta di quanto avessi immaginato.

Aveva un aspetto aristocratico, solitamente cosa difficile da rilevare nei vermi, e una postura approssimativa ma piuttosto elegante. La colorazione grigiorosata gli donava un non so che d’esotico. Azzardai un saluto timido: – Buongiorno!

- Sì, sì… ah sì, buongiorno – mi rispose, guardandosi intorno con due occhietti ch’erano capocchie di spillo. – E così, questa è la crosta.

- La crosta?

- Be’, sì. Insomma, la parte esterna, quella di superficie – cercò di spiegare. – Sa, io sono il Grande Verme, e vengo direttamente dal mondo sotterraneo.

- Certo, ho visto.

- No, non ha capito. Intendevo dire che io provengo proprio dal mondo interno, quello che da queste parti chiamate Agartha.

- Agartha? Ma non è quello dei buddhisti? Il presunto mondo sotterraneo governato da Rigden-jyepo, il Re del Mondo?

- Appunto.

- Uh! La questione della Terra Cava, eh? Mi ero ormai convinto che si trattasse di una credenza senza fondamento.

Una formica addetta al facchinaggio mi guardò con aria scandalizzata, si caricò sul dorso la porzione di un seme e caracollò via borbottando: – Credenza senza fondamento? Bah!

Le foglie della quercia si agitarono in un frinire ridanciano. Già, le foglie, quelle antipatiche!

- Che cosa sa della Terra Cava? – m’interrogò il Grande Verme.

- Oh, più o meno quello che sanno tutti. Vecchie dicerie secondo le quali il nostro pianeta sarebbe cavo e presenterebbe due grosse aperture in corrispondenza dei poli, aperture che permetterebbero, insieme a una fitta ragnatela di gallerie, di accedere alla parte interna. Secondo queste teorie, le due porte giustificherebbero, fra l’altro, lo schiacciamento dei poli che fa della terra un geoide piuttosto che una sfera.

- E lei che cosa ne pensa?

- Della conformazione del pianeta? Mah, io mi fermo alle informazioni che fornisce la scienza, e cioè che la terra ha una circonferenza equatoriale di circa 40.000 chilometri e una superficie di circa 510 milioni di chilometri quadrati, di cui il 70 % ricoperta dalle acque; che è costituita da un nucleo centrale di ferro e nichel di 1.280 chilometri di diametro; che il nucleo è circondato da un mantello ancora di ferro e nichel fusi, che risulta a sua volta ricoperto da uno strato di roccia spesso 2.880 chilometri; che a circondare il tutto c’è la crosta esterna, con spessore variabile dagli ottomila ai cinquemila metri.

Il Grande Verme, che si era sdraiato accanto a me sull’erba, contorse il testone privo di rilievi nell’abbozzo di un sorriso saputo. – E delle famose teorie che mi dice?

- Non mi coglie impreparato – risposi con un certo orgoglio. Tempo addietro le ipotesi sulla Terra Cava avevano stimolato il mio interesse. – In passato mi sono preso la briga di esaminare qualche documento.

- Il diario di Byrd?

- Non solo quello.

- Sentiamo – invitò il Grande Verme, prendendo a brucare l’erbetta tenera. Ebbi l’impressione che la sua sobria gentilezza mal celasse un fondo di strafottenza, e la cosa cominciava a disturbarmi.

- Cos’è? Una specie d’interrogatorio?

- Lei ha frainteso. Mi dispiace – si scusò, continuando a brucare. – E’ mia intenzione aiutarla a perfezionare le sue informazioni. E potrò farlo soltanto dopo che ne avrò valutato la fondatezza.

Era riuscito a rabbonirmi facilmente. – Ah, be’! Se la mette in questi termini… La Terra Cava, dunque. Sì, in effetti scartabellando qua e là ho scoperto che l’ipotesi era stata presa in considerazione anche nell’antichità. A sentire qualcuno, se ne trovano tracce persino nella Bibbia, nel Libro di Giobbe e nelle Lettere agli Efesini; si tratta di accenni ambigui, naturalmente, che si prestano alle più disparate interpretazioni. Platone, però, appare più esplicito, e nel Krizia riferisce di “gallerie sia strette sia ampie all’interno della terra” e di”corsi d’acqua sotterranei” cui le gallerie condurrebbero. E poi c’è la storia di cui dicevamo, la convinzione buddhista dell’Agartha, governata dal Rigden-Jyepo che, per recapitare i suoi messaggi, si servirebbe di un esercito di scimmie e dei cunicoli segreti che collegano gli antichi monasteri al Centro Iniziatico e alla capitale del mondo sotterraneo, Shambala. Ricordo, a tal proposito, un interessante opuscolo di Renè Guenòn, Le Roi du Monde, che affronta l’argomento nel dettaglio.

- Devo darle ragione – commentò compiaciuto il Grande Verme, succhiando rumorosamente una foglia di cardo. – Sulla materia lei è davvero ferrato.

La sua espressione piacevolmente stupita mi era parsa genuina. E tuttavia mi chiesi: su quali basi l’invertebrato valuta l’esattezza delle mie informazioni? Là sotto… insomma, in quel posto lì, attingono alle nostre stesse fonti? Il Grande Verme anticipò una mia eventuale richiesta di chiarimento: – Fra l’altro, mi risulta che accenni alla Terra Cava se ne trovino anche in altre religioni di superficie, oltre che nei miti e nelle leggende di Eschimesi, Hopi, Incas, Maya, Egizi, Vichinghi, e chi più ne ha più ne metta – mi disse. Il commento risolveva il dubbio, e dimostrava che Loro, chiunque fossero, se non altro conoscevano le nostre di fonti.

- E non solo – ripresi. – Ideologie religiose a parte, ho dovuto riscontrare che si sono occupati del problema anche illustri rappresentanti del mondo scientifico. Edmund Halley, l’astronomo inglese che ha dato il nome alla conosciuta cometa, insospettito dalla posizione dell’ago magnetico nella bussola, che devia verso il basso piuttosto che posizionarsi sul piano orizzontale, si era messo a studiare l’anomalia in rapporto a longitudine e latitudine, ipotizzando infine l’esistenza di più poli magnetici; nel 1692 aveva sostenuto che “sotto la crosta della terra, che è spessa cinquecento miglia, c’è un buco vuoto. Entro questo spazio si trovano tre pianeti…”. In quegli stessi anni, Cotton Mather, l’ecclesiastico ricordato per la persecuzione delle streghe di Salem, nel suo libro Wonders of the Invisibile Word, riferì di un mondo “vuoto sotto i nostri piedi”, e il matematico scozzese sir Jhon Leslie corredò il mondo sotterraneo di ben due soli, Pluto e Proserpina.

- E poi fu la volta del capitano Symmes – ricordò il gigante strisciante. – All’inizio del 1800, se non sbaglio.

- Sì, esatto. Quella di Jhon Cleves Symmes fu una storia travagliata. Il capitano dichiarò: “La Terra e gli altri pianeti sono cavi. Esistono cinque sfere concentriche entro la superficie esterna”. Sostenne anche l’esistenza delle due porte ai poli, dettagliandone persino le misure. Detto fatto, si congedò dall’esercito e si mise a fare conferenze e a scrivere lettere ai capi di stato, che ricambiarono con l’indifferenza che si riserva a un malato di mente.

- Si dice, però, che la teoria di Symmes avesse suscitato l’interesse dello Zar di Russia – interloquì il Grande Verme.

- Sì. Le malelingue riferiscono che il sovrano fosse piuttosto preoccupato per quanto poteva trovarsi sotto i suoi possedimenti. Resta il fatto che Symmes morì prima che qualcuno gli concedesse sovvenzioni per realizzare il suo sogno: una missione esplorativa.

- Per tutte le larve giganti! – esclamò l’invertebrato. – Devo rinnovarle i miei complimenti. Lei conosce a menadito tutta la storia. – Di nuovo, nella sua espressione mi sembrò di cogliere un velo di strafottenza.

- Ah, ma ce n’è ancora! La spedizione di Joseph Reynolds, per esempio. Un imbroglione matricolato, a quanto si racconta. Sembra che, a differenza di Symmes, fosse riuscito a racimolare il denaro necessario a finanziare una spedizione. Partì, ma poi non se ne seppe più niente. Né di lui né del denaro. Si vociferò che si fosse stabilito a nord del Mare Meridionale o che addirittura non si fosse mai mosso da New York, dove sotto altro nome era rimasto a godersi i proventi della truffa.

- Mai arrivato dalle nostre parti – confermò il Grande Verme. – Nessuno di superficie è mai arrivato fino al mondo sotterraneo. Nessuno.

- Come fa a esserne così certo?

- Lo so – rispose, laconico. – Nonostante le fantasticherie dei vostri letterati.

- Ah, già! Ci sono anche loro. Gli scrittori che si sono lasciati influenzare dalle teorie di Symmes. Edgar Allan Poe e Jules Verne, per citarne due famosi. Le ipotesi del capitano ispirarono a Poe i racconti Ms. Found in a Bottle e Hans Pfaall , e il romanzo The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket; a Verne le presunte porte ai poli suggerirono Voyage au centre de la Terre e Le Sphinx des glaces, seguito ideale del Gordon Pym.

- Personalmente citerei anche Lord Edward George Bulwer Lytton, – aggiunse l’invertebrato, – che nel suo The Coming Race s’inventò di sana pianta usi e costumi degli abitanti della Terra Cava, battezzandoli Vril-ya e descrivendoli come esseri dotati di poteri sovrumani, che si preparano a venire in superficie per assoggettarvi. Bella fantasia!

- Di questo Lytton non avevo sentito parlare – borbottai, un po’ contrariato.

- Davvero? Si occupava di occultismo e riuscì a influenzare persino il Fürer.

- Adolf Hitler?

Il Grande Verme si profuse in uno sbadiglio rumoroso e l’alito caldo mi raggiunse con una zaffata che sapeva di terra e muffa insieme. – Già, proprio lui. Ma del rapporto fra i due potremo parlare dopo che mi sarò fatto un sonnellino. Sa, il viaggio dalle Profondità è stato lungo.

Comprendevo la sua esigenza di riposo, ma chi gli assicurava che al risveglio mi avrebbe trovato ad aspettarlo? La sua prosopopea? Ero lì che meditavo intorno a una qualche appropriata replica quando mi raggiunse un sommesso ronfare: s’era già addormentato, di colpo, come fanno i bimbi stremati da una giornata di giochi frenetici. Me ne sarei andato in punta di piedi, ecco cos’avrei fatto. E tanti saluti alla tronfia esca gigante! Ma chi credeva d’essere?… Sì, però, che diavolo! Proprio adesso che, con la questione del collegamento Lytton Hitler, la chiacchierata si stava facendo interessante. E poi c’era la storia del diario di Byrd ch’era rimasta in sospeso…

La foglia, la prima foglia d’autunno, si staccò dal ramo più basso e, descrivendo traiettorie arabescate, si adagiò sul prato. Mi aveva colto di sorpresa, maledettissima prima foglia d’autunno! Il Grande Verme mi aveva distratto con le chiacchiere sulla Terra Cava e lei, vigliacca, ne aveva approfittato. Nulla di grave, pensate voi? Nulla di grave? Solo una timida foglia di quercia? Ma lo sapete qual è il difetto della prima foglia di quercia che cade dal ramo in autunno? Che ce n’è sempre una seconda. E una terza. E dopo qualche ora ti tocca rastrellare il prato. E quando hai finito, ne cadranno altre, di quell’odioso giallo ocra che fa saltare i nervi. E, il giorno dopo, di nuovo lì a rastrellare e a raccogliere nei sacchetti di plastica. E poi ci sono quelle ribelli, quelle per metà ancora verdi, che rimangono saldamente appiccicate al ramo e non cadono nemmeno a percuotere il tronco con un ariete. E tu di sotto ad aspettare.

Certo, è così: non le sopporto, mi fanno impazzire le prime foglie d’autunno.

(continua)