Ismail Kadaré è il più grande scrittore vivente della letteratura albanese. Una personalità conosciuta a livello mondiale, non solo in campo letterario, ma anche sul piano politico e sociale  nel quale è considerato un indomito difensore dei diritti umani. Più volte candidato al Nobel è uno scrittore dalla prosa ricca e classica, la cui raffinatezza sottende una tensione etica unica nel panorama letterario contemporaneo.

In una parola, Kadaré, senza rinunciare mai allo stile, non scrive per una sola esibizione letteraria, ma sempre e comunque spinto dalla volontà di mettere in gioco, nelle sue storie, una visione e una soluzione della realtà. Indifferente è il genere in cui questo gioco intellettuale, culturale ed etico può essere svolto. Tra i suoi principali romanzi, troviamo romanzi storici quali Il generale dell'armata morta (1963), I tamburi della pioggia (1970), La città di pietra (1971), Chi ha riportato Doruntina (1980), L'aprile spezzato (1980),  ma anche fantastici come Il palazzo dei sogni e L’Aquila, recentemente ripubblicato da Longanesi.

La storia è molto semplice. Il giovane Maks, come tutti i giovani, non sempre riesce a confermarsi al parere e ai voleri dei suoi superiori. I giovani, sempre e ovunque, sono fatti così. Ma, nel paese di Maks, che dovrebbe più o meno essere l’Albania di Hoxa, questa intemperanza giovanile (lo stesso fatto di essere giovani) è veramente poco tollerata dal regime saturnino che, con avanzata sclerosi, regola alla precisione tutto e vigila con lo scrupolo del vecchio ossessivo che nulla deroghi dal suo impeccabile meccanismo.

Maks, del resto, esprime il suo dissenso semplicemente omettendo un suo entusiastico assenso. Questa è colpa sufficiente. I vecchi, le dittature e tutte le società molto efficienti non possono tollerare nei giovani l’esuberanza e la ribellione, ma al contempo devono anche badare che l’esercizio costante a reprimere i propri istinti non degeneri in atteggiamenti deviati, vizi, droghe, atteggiamenti suicidali o altre tristezze. Bisogna essere tristi, sì, ma con piena soddisfazione.

Maks non è soddisfatto, e deve essere punito. Infatti, una sera esce di casa per andare a comprare delle sigarette (questo bisogno di fumare non è suicidale?), scivola in una pozzanghera e comincia la mestissima favola: Maks si ritrova in un altro mondo. Questo altro mondo è una sorta di purgatorio. Qui finiscono tutti quelli che hanno espresso un dissenso. Qui vengono raccolti tutti i colpevoli affinché scontino la loro pena, che, molto probabilmente, consiste nel rendersi conto di cosa ci si è resi colpevoli. È quanto fanno molti dei reietti qui relegati: scrivono lunghe lettere a un immaginario ufficio di controllo.

In queste lettere vengono stesi sconfortanti cataloghi di ogni ipotetico peccato, cosa che conduce, come si sa, nel più classico dei vicoli ciechi: cercare peccati è, da sempre, il miglior modo di divenire peccatori. Del resto miglior successo non ha l’atteggiamento contrario, quello di chi vuole fuggire. Kadaré si concede il lusso di ospitare, al proposito, qualche eccellente figura mitologica. Figure che rappresentano nel nostro immaginario il paradigma della fuga. Infatti fra gli aspiranti fuggitivi vediamo Dedalo e Icaro (i nomi hanno appena subito una lieve modifica per renderli più verosimilmente illirici). Fra questi ritroviamo, infine, anche il protagonista del racconto che cerca, come un nuovo, e non meno estatico, Ganimede, di utilizzare una grande aquila (da cui il titolo del libro), reclusa in uno zoo, per fuggire.

Il lungo racconto è una favola. Una favola sul senso di colpa, in assoluto, e sul quel grande senso di colpa concretizzatosi storicamente nell’Albania comunista imposto dal dittatore Hoxa. Una favola sulla colpa e i suoi misteri. In questo senso L’Aquila ha contratto un debito piuttosto esteso a quella raffinata chiosa letteraria al Qoeleth (libro scritto per ammonirci che tutto, compreso le nostre colpe, sono solo vanità) che è stata tutta l’opera di Kafka, a cui Kadaré ha sempre chiaramente dichiarato di ispirarsi. Si potrebbe dire, in un certo senso che lo stesso Hoxa, nel congegnare il suo regime, si fosse ispirato allo scrittore praghese, e questo rende la favola di Kadaré sul senso di colpa e sull’Albania, doppiamente debitoria all’autore del Processo e della Metamorfosi. Un debito che, però, dovremo dire chiaramente che non è stato pagato in pieno.

Il libro di Kadaré, infatti, non è certo un gioiello. L’ispirazione è diseguale e le pagine, pur dotate di una grande fascino letterario, di un impasto di atmosfere dense, immagini, e riflessioni, proseguono a balzi, con forti cambiamenti d’umore. È come se l’autore sentisse troppo la materia e questo libro fosse uno scritto prematuro e non meditato. Probabile questo distacco non ci fosse proprio, il libro è stato scritto nel 1995, quando lo scrittore aveva appena riparato in Francia. E questo si sente. Abbiamo davanti una condizione umana assoluta, la colpa, e una sua circoscritta manifestazione, l’Albania: Kadaré non sa mai bene risolversi tra questi due corni. Tesse metafore e le abbandona, per cercare un fatto circostanziato. Non fa in tempo a scontornare questo che sente la necessità di sfumare, di passare oltre. L’impressione che se ne ricava è quella di un sogno molto intenso che non si riesce a  ricordare bene e che, peggio, non si è in grado di raccontare, abbagliato ora dai simboli che contiene, ora dai suoi elementi realistici.

 

L’aquila non è un gioiello. Eppure è impossibile interromperne la lettura. È impossibile non leggerlo tutto con avidità e finire questa lettura con la sensazione di aver avuto accesso a una nuova prospettiva; di aver partecipato a qualcosa di molto importante. Questo, probabilmente, significa fare letteratura.

Tzevan Todorov è, ultimamente, intervenuto con un articolo per stendere una ponderata valutazione sull’agonia della nostra cultura e, in particolare della nostra letteratura, e si fa una serie di domande. La decadenza della letteratura è dovuta al cinema, alla televisione o, forse, a internet? Risponde Todorov che questo non può darsi: la letteratura e i diversi media a cui si è fatto riferimento non entrano nella stessa sfera di competenza.

Il rapporto tra immaginazione e immagini non si esaurisce con due righe (e neanche con una sola discussione), però è piuttosto evidente che il cinema e la televisione fanno un uso spettacolare dei loro mezzi, svolgono la nobile attività di intrattenere e divertire (così come possono svolgere quella meno nobile di convincere o di indurre). In assenza di immagini, l’uomo, invece, immagina e l’immaginazione nel suo senso più puro e libero è quindi un mezzo come quello della letteratura. Stiamo parlando di due pianeti diversi.

Allora, si domanda Todorov, la colpa è dei cattivi libri commerciali che si pubblicano? E perché mai! Al massimo possono essere propedeutici a letture più ampie e impegnate. Il problema, risponde Todorov, è che la letteratura ha in buona parte rinunciato al proprio senso, divenendo una letteratura per la letteratura, autoreferenziale, sperimentale, espressiva e compiaciuta solo dei proprio mezzi di espressione. La letteratura, avverte ancora Todorov, comincia in una caverna dove uno sciamano racconta una storia e, poi, interrompendosi, la commenta e, infine, con una digressione, l’amplia in un’altra storia e, tutto questo al fine di offrire degli strumenti ai suoi ascoltatori per strutturare la realtà.

 

L’aquila, non è un gioiello. È un racconto dai molteplici difetti, ma è anche un libro che deve essere letto perché contiene con prepotenza ancora questo istinto letterario a capire, descrivere, commentare e dare una struttura e una chiave di lettura (in questo caso fantastica) alla realtà.