Cosa sarebbe successo, subito dopo la pervenuta unità italiana, se le favole e i miti nostrani fossero ben più che un contenitore di nuclei di verità? Se esistessero davvero Anguane, Beate Genti, Fauni, Fate (qui dette Fade) e altri dei tanti popoli fantastici di cui si narra lungo lo Stivale? Streghe e maghi ma anche profezie, illusioni e incantesimi?

Probabilmente ci sarebbe stata una qualche occasione per queste stirpi per incontrarsi in un dato luogo, tutte insieme, così come i miseri mortali dovettero fare, dalla Sicilia alla Lombardia, per combattere le guerre risorgimentali del dopo 1861.

Di certo, questo mondo fantastico non avrebbe avuto vita facile nelle tante città e nelle campagne troppo antropizzate, ma le nostre catene montuose sarebbero state, coi loro luoghi allora poco o per niente accessibili, una casa ideale.

Ancora così è in Lessinia - area montuosa situata fra le province di Verona, Vicenza e Trento - ricettacolo di antiche identità altrove dimenticate (qui, infatti, stanno tredici comuni che ancora si richiamano ai Cimbri, forse gli stessi che avrebbe “distrutto” il generale Mario, all’epoca della Res Publica romana.

 

Ecco allora Nero, uno dei due protagonisti del romanzo: ha moglie e figli, è un boscaiolo, non così robusto ma più allenato alla fatica di altri più grossi di lui, che si guadagna da vivere trasportando legna… o forse no? Ha strane frequentazioni con dei misteriosi figuri e per loro fa alcuni lavori, li chiama disegnando rune sulla neve, o sul terreno, bagnandole col proprio sangue. Per soldi, medicine e redenzione personale, apprendiamo, si possono servire “le genti dei boschi”, che hanno bisogno di questi famigli, perché le leggende non si sono mai fermate – contrariamente a quanto si pensa. Sui monti della Lessinia c’è una guerra dimenticata, in cui gli orchi, che hanno abbracciato la fede nella Croce dopo il Concilio di Trento, certo in un modo loro peculiare e mescolato a reminiscenze precristiane, sono impegnati contro oscuri stregoni incappucciati dal volto tatuato con un teschio, i regninsaori.

Il giorno in cui due soli brilleranno insieme in cielo e il morto condurrà il vivo, si racconta, la battaglia finale verrà combattuta e il sangue sparso in passato, sarà perdonato.

 

Zeferina invece è una ragazza, madre di un bimbo con un occhio solo. Il nome di lei è stato sussurrato dai boschi, e suo figlio è speciale: attorno a lui s’imperniano diverse attese nate dalle leggende. Tutti vogliono quell'infante, e per questo inseguono la strana ragazza dai capelli color arancia, allevata da una zia strega e costretta a fuggire, di luogo in luogo, proprio come il vento. Lei è l’altra fondamentale protagonista del racconto.

Zeferina fugge da tutti, da ogni fazione, poiché c'è chi terrebbe lei ma ucciderebbe il piccolo, e chi farebbe l’esatto contrario. Dove andare, alla fine di tanto correre? Forse in Merica, terra di redenzione sognata da tanti connazionali all’epoca, ma intanto deve nascondere il bimbo e far perdere le proprie tracce. Far calmare le acque, insomma, e poi si penserà a una meta definitiva, lontana.

I protagonisti costituiscono due punti di vista distinti che per la gran parte della vicenda vagano per conto proprio. Nero, famiglio degli orchi, in cerca di redenzione e quindi anche servo di un cambiamento atteso, e Zeferina trovata da piccola presso un fiume, una madre che cerca di salvare il proprio unico amore rimasto, espressione della circolarità della vita e dei suoi tanti nuovi inizi.

 

Se la storia fosse stata ambientata in un mondo secondario, forse, a questi due personaggi sarebbero state concesse più risorse. La loro storia avrebbe potuto essere uno Sword and Sorcery, magari una Epic Fantasy. Ma Zeferina vaga per la Lessinia dell’ultimo tumultuoso squarcio d’800 e Nero è un ex galeotto che arrotonda con i lavoretti extra per gli orchi per curare la moglie. Quando Zeferina varca un certo cancello, sarà prigioniera e succube delle forze che vi allignano nell’ombra e nel sangue; e Nero, quando è costretto a fuggire da Campofontana e viene arruolato nell’esercito degli orchi, ecco, lui non resterebbe: tiene famiglia e diserterebbe se solo gliene si presentasse l’occasione.

Siamo ben lontani da una narrazione dell’Avventura, quindi, e molto più vicino a un oscuro Picaresco.

 

Tanto sangue scorre dai monti, sino a investire le prime comunità più a valle. Quasi ne viene sommersa Zeferina stessa, lassù nel Regno oltre il cancello, ma gl’incantesimi che ha appreso leggendo dai Libri del Comando della zia, dopotutto, non sono stati scritti col sangue? Non sono forse una pallida ombra dei monti fatati?

Il libro è ben scritto, molto “parlato” con descrizioni mai eccessive e buone caratterizzazioni. La cartina a corredo è una delle più belle apparse negli ultimi anni e il nutrito glossario è esauriente, anche se sarebbe stato meglio, forse, se organizzato in ordine alfabetico.

Il libro è originale, oscuro, ricco di quelle ombre che subito possono balzare all’occhio non appena si cominci a scavare nella nostra complessa e articolata eredità culturale, sebbene forse troppo congestionato d'incontri, di arti mozzati, di ragazzini assassini. Personaggi come Masin e Gioseffi, a cui è stato dato spazio, sono riusciti, hanno un loro spessore anche se solo accennato; i gruppi di montanari indigeni - orke, regnisaori, beate genti - hanno un perché una volta accettata la loro natura di esseri umani non tanto “magici” quanto un po' particolari, ma tanti altri personaggi appaiono solo in brevi “flash” di cui forse si poteva fare a meno.

Tuttavia il libro è importante, poiché è uno dei primi che offre le sue pagine come suolo su cui camminano le creature del nostro immaginario tradizionale.