Due sono le aziende che si dividono il mercato nel mondo dell’informatica: la Dillinger, capitanata da Julian Dillinger, e la Encom, guidata da Eve Kim. Entrambe le compagnie sono in grado di materializzare ciò che è digitale, da un mezzo militare a un albero, fino a un supersoldato, ma la permanenza nel mondo reale è di appena 29 minuti. Kim è certa che la chiave per mantenere fissi nel tempo i costrutti digitali si trovi nei vecchi backup degli anni Ottanta su cui lavorava Kevin Flynn, il fondatore della Encom. Seguendo la traccia lasciata da sua sorella deceduta, Eva trova il “codice permanence” ma Dillinger è sulle sue tracce, pronto a tutto pur di impadronirsene. Richiama infatti dall’universo digitale i letali programmi Ares e Atena che si mettono sulle tracce della donna, ma l’interazione con la realtà porta i due soldati a prendere decisioni molto diverse su come affrontare il mondo.

Quando nel 1982 la Disney lanciò Tron, la critica restò spiazzata: la trama appariva debole, ma l’impatto visivo era rivoluzionario. Si trattava del primo film in grado di far immergere lo spettatore dentro un computer, mescolando live action e grafica digitale, e di anticipare il concetto di cyberspazio aprendo la strada all’immaginario virtuale che avrebbe ispirato la CGI moderna. Ci volle del tempo perché Tron diventasse un cult amato, per questo solo ventotto anni dopo venne sviluppato il progetto di un sequel, Tron: Legacy, che riprese quell’eredità con mezzi tecnologici spettacolari e la colonna sonora dei Daft Punk, confermando la forza estetica del brand ma senza eguagliarne l’impatto concettuale. Se l’originale fu un esperimento pionieristico capace di ridefinire la fantascienza digitale insieme alla nostalgia per gli anni Ottanta, il sequel non fu altrettanto incisivo, finendo ben presto per essere dimenticato.

Le origini del nuovo capitolo della saga Tron: Ares risalgono al 2010, quando il fascino visivo di Tron: Legacy spinse la Disney a pensare a un seguito, poi abortito nel 2015 portando il franchise a un lungo letargo, complice l’incertezza su come fondere nostalgia e innovazione digitale. Nel 2017 Jared Leto riaccende le speranze: nasce l’idea di un soft reboot con un mondo virtuale evoluto, ma il progetto resta fermo tra revisioni e indecisioni creative. Nel 2020 subentra Garth Davis, intenzionato a dare un tono più autoriale alla pellicola, ma lascia presto il timone a Joachim Rønning (Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar), mentre Jesse Wigutow riscrive la sceneggiatura. Non stupisce quindi che Tron: Ares abbia una profonda ambivalenza: da una parte l’impianto visivo e la regia sufficientemente di mestiere per girare scene d’azione dalla buona dose di adrenalina, dall’altra una sceneggiatura a tratti imbarazzante per la sua banalità.

Come i sequel che si rispettino, anche quest’ultimo capitolo segue tutti i check point di trama dell’originale, questa volta capovolgendoli: invece di far entrare nel mondo digitale gli esseri umani, sono i programmi a uscire. Un tentativo di dare un minimo di spessore alla storia sta nell’interazione tra umano e digitale, tra l’idea di empatia e rabbia, ma senza un serio approfondimento. Tutto è un pretesto: Evan Peters nella solita parte del cattivo assetato di potere, Ares (Jared Leto) empatizza con Eve senza un vero motivo, Eve stessa che soffre come si è già visto in mille altri film per la morte della sorella, o l’improvvisa gelosia di Athena (Jodie Turner-Smith) che scatena una guerra insensata.

Tron: Ares non ha un minimo di originalità ma fa il suo lavoro sul versante visivo, in una bella miscela tra un’estetica cyberpunk alla Akira (impossibile non riconoscere l’iconica moto rossa), creando un’atmosfera immersiva per lo spettatore, sia nel mondo digitale che in quello reale. Tuttavia anche su questo fronte non osa mai nello spingersi su trade troppo ardite, facendo un accenno nel riprendere l’estetica del film originale, ma addomesticandola al gusto dello spettatore medio contemporaneo senza il coraggio di usarla per davvero in una pellicola del 2025. Una sorta di film giocattolo a cui la Disney ormai sembra troppe volte puntare; divertente ma che lascia davvero troppo poco.
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