Carleon, estate del 570

«Che cos’è la pace, padre?»


Bethod fissò perplesso il suo figlio maggiore. A undici anni,Toro aveva a malapena intravisto la pace in vita sua. Pochi momenti, forse. Barlumi in una nebbia di sangue. Mentre cercava faticosamente una risposta, Bethod si accorse che anche lui ricordava a stento che sapore avesse.

Da quanto tempo viveva nella paura?

Si accosciò davanti a suo figlio, e ripensò a suo padre che si accosciava davanti a lui, piegato anzitempo dalla malattia e dalla vecchiaia. “Ci sono uomini che rompono qualcosa solo perché possono farlo” gli aveva sussurrato. “Ma la guerra deve essere l’ultima risorsa di un capo. Se combatti una guerra, hai già perso.”

Nonostante tutte le sue vittorie, tutte le difficoltà superate e i nemici spediti sotto terra, tutti i riscatti ottenuti e i territori conquistati, Bethod aveva perso per anni. Adesso lo capiva.

«La pace» disse «è quando le faide sono risolte, i debiti di sangue sono stati pagati, e tutti sono contenti di come stanno le cose. Be’, più o meno. La pace è quando… nessuno continua a combattere.»

Toro ci pensò su, la fronte corrucciata. Bethod gli voleva un gran bene, certo, ma persino lui doveva ammettere che il ragazzo non era un’aquila. «E allora… chi vince?»

«Tutti» sentenziò Calder.

Bethod inarcò le sopracciglia. Il figlio minore era lesto di comprendonio tanto quanto il maggiore era tardo. «Esatto. La pace vuol dire che tutti vincono.»

«Ma Sonaglio ha giurato che non ci sarà pace finché non sarai morto» disse Toro.

«L’ha fatto. Ma Sonaglio è un uomo che giura in fretta. Dagli un po’ di tempo, e potrebbe ripensarci. Soprattutto dal momento che ho suo figlio in catene, giù nelle segrete.»

«Tu ce l’hai?» fece seccamente Ursi da un angolo della stanza, smettendo di spazzolarsi i lunghi capelli per scoccargli un’occhiata. «Pensavo fosse prigioniero del Novedita. O sbaglio?»

«Novedita lo consegnerà a me.» Bethod la butto lì così, a sua moglie, con disinvoltura, come se dovesse solo schioccare le dita, e non racimolare ancora il coraggio necessario. Quale capo ha paura di chiedere un favore al suo stesso campione?

«Ordinaglielo.» Le parole virili suonavano strane nella vocetta infantile di Calder. «Faglielo fare.»

«Non posso ordinarglielo. Il figlio di Sonaglio è prigioniero di Novedita. L’ha preso in battaglia, e i Nominati han- no le loro usanze.» Per tacere del fatto che Bethod non era affatto sicuro che il Novedita avrebbe obbedito, né di quel che avrebbe potuto opporre lui a un rifiuto, e il solo pensiero di verificare la cosa lo riempiva di terrore. «Ci sono delle regole.»

«Le regole sono per i sudditi» sentenziò Calder.

«Le regole devono valere per tutti, soprattutto per chi è il capo. Senza regole, ognuno fa da sé, e possiede solo ciò che riesce a strappare al mondo con una mano e tenersi stretto con l’altra. Il caos.»

Calder annuì. «Capisco.» E Bethod sapeva che era davvero così. Si somigliavano così poco, i suoi due figli. Toro era robusto, biondo e sicuro di sé. Calder più smilzo, scuro di capelli, e scaltro. Così simili alle loro madri. Certe volte Bethod si domandava se ci fosse anche qualcosa di suo, in loro.

«E cosa faremo con la pace?» chiese Toro.

«Costruiremo.» Bethod sorrise mentre pensava ai suoi progetti. Ci aveva riflettuto così tanto che riusciva quasi a vederli come cose fatte. «Rimanderemo gli uomini alle loro terre, alle loro occupazioni, alle loro famiglie, in tempo per il raccolto. Poi gli faremo pagare delle tasse. A noi.»

«Tasse?»

«Sono una cosa del Sud» disse Calder. «Denaro.»

«Un uomo offre al suo capo qualcosa che gli appartiene» spiegò Bethod. «E noi useremo quel denaro per taglia- re le foreste, scavare le miniere, e alzare delle mura intorno alle nostre città. Poi costruiremo una grande strada da Carleon a Uffrith.»

«Una strada» borbottò Toro. Non vedeva alcun fascino nella terra calpestata.

«Gli uomini possono viaggiarci due volte più veloci» sbottò Calder. Cominciava a perdere la pazienza.

«I guerrieri?» chiese Toro, speranzoso.

«Se necessario» disse Bethod. «Ma anche carri e merci, bestiame e messaggi.» Indicò la finestra, luminosa nel buio, come se potessero tutti scorgervi un futuro migliore. «Quel- la strada sarà la spina dorsale della nazione che costruiremo. Cucirà insieme il Nord. Posso aver vinto delle battaglie, ma è per quella strada che sarò ricordato. È quella strada che cambierà il mondo.»

«Come puoi cambiare il mondo con una strada?» domandò Toro.

«Sei un idiota» disse Calder.

Toro lo colpì a lato della testa e lo gettò a terra, dimostrandogli i limiti della scaltrezza. Bethod sentì Ursi sussultare, e colpì Toro a sua volta, gettando a terra anche lui, dimostrandogli i limiti della forza bruta. Un’orribile sequenza, che loro quattro mettevano spesso in scena.

«In piedi, tutti e due» sbottò Bethod.

Calder guardava torvo il fratello mentre si alzava, una mano alla bocca sanguinante, e Toro ricambiava l’occhia- taccia, con una mano sulla sua, di bocca. Bethod li agguantò entrambi per un braccio e li attirò vicini con una stretta cui era bene non resistere.

«Noi siamo una famiglia» disse. «Se non siamo sempre l’uno per l’altro, chi lo sarà? Toro, un giorno sarai un capo. Devi controllare il tuo carattere. Calder, un giorno sarai il braccio destro e il primo consigliere di tuo fratello. Devi controllare la tua lingua. Insieme, avete il meglio di me e molto altro in aggiunta. Insieme, potreste trasformare il nostro clan nel più grande di tutto il Nord. Da soli, siete nien- te. Ricordatevelo.»

«Sì, padre» borbottò Calder.
«Sì, padre» grugnì Toro.
«Adesso andate, e se vi sento ancora azzuffarvi, vedremo

come ve la caverete nell’affrontare qualcun altro, insieme.» Si alzò con le mani sui fianchi. I due ragazzi si allontanarono a passi lenti fino alla soglia, poi corsero via nel corridoio, e si sbatterono la porta alle spalle. «Riesco a malapena a mantenere la pace tra i miei figli» mormorò, scuotendo la testa. «Come potrò farlo con i capi del Nord?»

«Speriamo che i capi si comportino più da adulti» rispose Ursi. La veste frusciava sul pavimento mentre lei arrivava alle spalle del consorte, e faceva scivolare delicatamente le mani sulle costole di lui.

Bethod sbuffò mentre lei gli stringeva le braccia sul cuore. «Temo sia una speranza avventata. Al Nord piacciono i grandi guerrieri, e dai grandi guerrieri raramente si ottengono grandi capi. Gli uomini senza paura sono uomini senza immaginazione. Usano la testa per sfondare le cose piuttosto che pensare. Qui celebrano chi è sprezzante, borioso, iracondo, e scelgono i più infantili nella folla, come capi.»

«In te hanno trovato un capo diverso.»

«Li ho fatti ascoltare. E farò ascoltare Sonaglio. E farò ascoltare anche Novedita.» Eppure Bethod si chiese chi stesse cercando di convincere, sua moglie o se stesso. «Sa essere un uomo ragionevole.»

«Una volta, forse.» Il respiro di Ursi gli pizzicava il collo mentre sussurrava all’orecchio. «Ma Novedita è ubriaco di sangue. Fiero delle sue stragi. Ogni giorno è sempre meno tuo amico, sempre meno affidabile, sempre meno uomo e sempre più una belva. Ogni giorno è meno Logen e più il Novedita.»

Bethod contrasse le labbra. Aveva ragione, e lui lo sape- va. «Certi giorni è abbastanza tranquillo.»

«E durante gli altri? La scorsa settimana ha ucciso un intero gregge di pecore, lo sapevi?»

Le labbra di Bethod fecero una smorfia. «Mi è giunta voce.» «Perché il loro belare gli dava sui nervi, ha detto. Le hauccise con le sue mani, una per una. Così calmo che le altre non si agitavano neppure.»

«Mi è giunta voce.»

«E quando la cagna da guardia ha abbaiato, le ha sfracellato la testa, e poi si è messo a ronfare beato tra le carcasse. È fatto di morte, e la morte lo accompagna ovunque vada. Mi fa paura.»

Bethod si voltò tra le sue braccia, per guardarla, e le portò delicatamente una mano al viso. «Non hai mai avuto paura di nulla. Non tu.» Ma i morti sapevano quanta ne avesse lui stesso. Da quanto tempo viveva nella paura?

Lei gli prese la mano. «Non ho paura di lui, ma dei problemi che può causarti. Che ti causerà certamente.» Ridusse la voce a un sussurro mentre lo fissava. «Sai che ho ragione. Cosa succederà, se riesci davvero a portare la pace? Novedita non è una spada che puoi appendere sul focolare per raccontare vecchie storie dopocena. È Novedita il Sanguinario. Se smetti di trovargli delle battaglie, pensi che smetterà di combattere? No. Ne troverà da solo, con chiunque sia nei paraggi. È fatto così. Presto o tardi combatterà anche te.»

«Ma sono in debito con lui» mormorò lui. «Senza di lui, non avremmo mai…»

«La Grande Mietitrice salda tutti i debiti» disse lei.

«Ci sono delle regole» ma la sua voce era debole, così debole da sostenere a malapena i suoi occhi neri.

«Oh, per favore, raccontalo pure ai ragazzi» sussurrò lei. «Ma noi sappiamo che non è così. Ci sono solo calcoli: ciò che è meglio, e ciò che è peggio.»

«Gli parlerò» ripeté, sapendo quanto suonasse debole al suo stesso orecchio. Si liberò dalla stretta e andò a grandi passi alla finestra. «Consegnerà il figlio di Sonaglio. Capirà il motivo. Deve farlo.» Piantò i pugni sul davanzale, e abbassò la testa. «Per i morti, non ne posso più. Non ne posso più di tutto questo sangue» disse lei.

Lei si accostò ancora, massaggiandogli le spalle, la base del collo, e al suo tocco Bethod fece un gran sospiro. «Non hai mai cercato il sangue» disse lei.

Ciò gli strappò una risata, ma poco allegra. «L’ho fatto,invece. L’ho ordinato. Non così tanto. Non ho mai pensato potesse essere così tanto, ma è il problema del sangue. Le ferite sono così facili da aprire, così difficili da chiudere. E io ero avido di aprirne. Avevo bisogno d’un uomo che combattesse per me. D’un uomo che non si fermasse davanti a niente. Di un mostro.»

«E l’hai trovato.»
«No» sussurrò lui, scostando la sua mano. «L’ho creato.»

Traduzione di Edoardo Rialti.