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Cartagine, 608 A.U.C.

 

Il tramonto era spettacolare quella sera. Il cielo infuocato tingeva di rosso e arancione ogni cosa; le mura inespugnabili della fiera Cartagine, la distesa del mare simile a magma sulla quale ondeggiavano le navi romane, la pianura dove era stato eretto l’accampamento degli assedianti.

Il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, che pure era un uomo devoto della Summa Ratio, era inquieto e continuava a passare le dita su una statuetta che teneva in mano, in un gesto che qualcuno avrebbe potuto definire superstizioso. Si trattava di una raffigurazione di una dea agreste, Cerere, che gli aveva regalato una vecchia balia e che lo aveva accompagnato tutta la sua vita.

«Che dicono gli auspici?» chiese non appena Arunthe, l’indovino etrusco che viaggiava con lui fin dalle prime battaglie, ebbe fatto il suo ingresso nella tenda. Anche questa era una concessione alla superstizione che lo infastidiva ma di cui non sapeva fare a meno.

L’uomo, un tipo magro e scuro, sorrise. «Il volo degli uccelli è favorevole.»

«È questa luce che mi preoccupa» disse allora Cornelio. «Sembra che ogni cosa sia intinta nel sangue.»

«Dici bene» rispose una voce dal forte accento egizio. Si trattava di Amun, che ormai a Cartagine e in tutto l’Impero di Mem era noto come il Traditore. Anche se l’intero Egitto era passato dalla parte di Roma, infatti, il tradimento di quell’uomo andava oltre perché riguardava tutta la sua razza. Cornelio represse il disgusto di fronte al suo aspetto sgradevole. Si diceva che la Ba (il nome che i Mem usavano per designare la Bestia) si rispecchiasse nelle fattezze del suo portatore e in effetti i pochi che avevano visto quella che viveva nel ventre di Amun sostenevano che fosse un avvoltoio o addirittura un’arpia. Persino la sua voce era stridente, come se facesse fatica a uscirgli dalla gola e, nello sforzo, raspasse con gli artigli su una superficie metallica. Il console si sarebbe disfatto di lui da tempo, ma la guerra durava da un secolo e non ci si poteva permettere di andare per il sottile.

Cartagine dove essere distrutta.

Era l’ultimo baluardo al di qua delle Colonne d’Ercole, oltre che il più vicino a Roma, di un impero vastissimo, che si estendeva dai deserti dell’Arabia fino alla Palude Meotide, per poi comprendere l’Egitto, la Mauritania, la Spagna e persino le Isole Fortunate. Purtroppo era apparso subito evidente che un tale impero non poteva coesistere con quello di Roma: lo minacciava economicamente, militarmente e soprattutto spiritualmente. Il Senato, dopo avere visto coi suoi occhi alcuni prigionieri di guerra che vomitavano la loro Bestia e dopo aver raccolto le testimonianze di centinaia di soldati traumatizzati, era stato inflessibile. I Bestiali, come venivano definiti a Roma coloro che possedevano una natura animale dentro il loro corpo umano, andavano sterminati, perché non insozzassero più la terra e non minacciassero coloro che vivevano secondo la Summa Ratio.

Vedendo che Cornelio non rispondeva, ma restava pensieroso, Amun continuò: «Il rosso di questo tramonto allude a tre cose: al sangue che sarà versato, al fuoco che distruggerà la città e al colore della lama che ti darà la vittoria.»

Detto ciò fece cenno a un ragazzo, un novizio del tempio cui Amun afferiva, di mostrare al Console la spada, avvolta in un panno di fine tessuto ricamato. Con delicatezza, il sacerdote ne scostò i lembi. Non era la prima lama scissoria che Cornelio vedeva, ma quella era la più splendente e al tempo stesso inquietante che avesse mai visto. Era costituita da un materiale traslucido, simile a vetro, ma rosso intenso e, in quella luce spettrale, pareva viva. Il suo istinto gli fece desiderare di ritrarsi di fronte a tanto potere, ma la sua volontà gli impose di resistere.

«Questa spada» riprese Amun, «è il più puro nonché il più potente strumento di morte per ciò che voi chiamate Bestia. È stata forgiata nei vulcani delle Isole Fortunate. Alla sua sola vista i Figli di Ashterot si ritrarranno in preda al terrore.»

Cornelio possedeva già un pugnale di quel materiale, fornitogli proprio dal sacerdote, ma ciò che Amun gli offriva quel giorno era un’assoluta meraviglia. La lunghezza della lama gli avrebbe consentito di colpire più agevolmente le Bestie che avesse incontrato sul suo cammino, durante il combattimento. Finora le battaglie erano state affrontate con una tecnica che aveva guadagnato alla gloriosa Roma l’epiteto di Codarda. Infatti, i soldati non si avvicinavano ai Bestiali, finché potevano, ma li colpivano con lance, frecce e proiettili, ben consci che non vi erano armi umane capaci di uccidere una Bestia e che l’unica possibilità era colpire i Bestiali a distanza. Nel corpo a corpo, infatti, le Ba avrebbero difeso i loro padroni come cani ben addestrati e invulnerabili.

Il resto dell’esercito, invece, costituito da comuni mortali, veniva isolato e attaccato in modo tradizionale. Purtroppo, però, le Regine di Mem, lungi dall’essere stupide, avevano cominciato a schierare, mescolati ai soldati comuni, combattenti dotati di Ba, che si camuffavano aspettando il momento opportuno per liberarla. In questo modo più volte i legionari avevano dovuto affrontare un pericolo inaspettato. Essere codardi, dunque, era una necessità, una scelta che aveva evitato il ripetersi della sconfitta di Canne. In quei neri giorni, i campi di battaglia erano stati coperti da un tappeto di cadaveri di legionari sui quali le Ba avevano danzato una danza macabra, facendoli a brandelli con le loro multiformi fauci.

Pur con ripugnanza, dunque, la mattina dopo, all’alba, Cornelio impugnò la spada fiammeggiante, guidando di persona un drappello di pochi valorosi armati di pugnali scissori. Attraversarono impavidi l’esercito nemico, già parzialmente falciato dalle frecce, dalle lance e dai proiettili incendiari scagliati con le catapulte. E, come aveva previsto Amun, le Bestie tremarono alla vista della spada, e così i loro proprietari. Ma c’era da ammettere che erano valorosi e non indietreggiarono neppure alla prospettiva del sommo sacrificio. Sapevano, infatti, che quella era l’ultima battaglia, quella decisiva. Cartagine era allo stremo dopo il lungo assedio. Non avrebbe resistito una settimana di più. Si lottava per la sopravvivenza o per una morte onorevole.

C’era un’oscura soddisfazione nel sentire le Bestie ululare di dolore quando venivano ferite o nel vedere afflosciarsi i loro proprietari come sacchi vuoti quando venivano uccise. Cornelio si abbeverò alla fonte della violenza e avanzò senza pietà. Tuttavia, la sua marcia di morte si arrestò di fronte alla regina Elissa, bellissima e fiera, con le trecce ondeggianti al vento e con l’armatura lucente. L’accompagnava la sua Bestia, una pantera nera africana dalle lunghe zanne e dal pelo lucente come una notte stellata. La magnificenza della nemica lo paralizzò, letteralmente.

Come sempre, lei lo fissò senza timore, come se in lui riconoscesse un eguale, degno di rispetto, sebbene sprovvisto di Ba.

«Amun ha superato se stesso!» gridò a un tratto. «Che Ashterot lo maledica e maledica anche te!»

Cornelio provò un brivido a quelle parole, ma mascherò lo sgomento sotto una facciata impassibile. «Per una volta combattiamo ad armi pari, regina. Ritira la tua Bestia e io rinfodererò la spada.»

«La mia Ba non ti attaccherà, ma tu sei così certo di potermi sconfiggere senza di quella?» chiese Elissa.

La regina era una valorosa guerriera e Cornelio lo sapeva. Nessuna donna romana poteva essere paragonata a lei. Lui annuì spavaldo e cominciò un duello feroce, senza esclusione di colpi, durante il quale il Console temette di soccombere più di una volta. Alla fine, però, riuscì a inchiodare la donna contro il terreno, con la spada alla gola. In quell’istante il mondo parve fermarsi. La Bestia ringhiava terribile pur nel frastuono della battaglia che stava volgendo a favore di Roma. Sarebbe bastato che la regina desse un comando alla possente pantera perché quella balzasse alla gola di Cornelio uccidendolo, ma non lo fece e la Ba restò al suo posto.

«Hai vinto, uomo di Roma» ammise a quel punto Elissa. «Che aspetti? Finiscimi. Non sopravvivrei comunque alla distruzione del mio mondo, ai miei sudditi venduti schiavi, alle donne violentate, ai templi profanati. Già il mio cuore sanguina per la morte del mio compagno. Uccidimi.»

Cornelio esitò. La legge di Roma prescriveva di avere pietà dei sottomessi e debellare i superbi. Elissa era di certo una donna superba, ma toglierle la vita equivaleva a un atto di pietà. E poi c’era la prospettiva del trionfo, con la regina e la sua Bestia al guinzaglio. Così il Console ritrasse la lama.

«Sei peggiore di quanto pensassi, Cornelio. E vai dicendo di essere uomo d’onore!»

«Taci, donna, non sai quel che dici.»

«Lo so bene, invece. Come so che tu stai combattendo contro la tua stessa stirpe.»

«Non dire sciocchezze. Vaneggi. Cerchi di indurmi ad ucciderti, ma non lo farò. Sarebbe troppo comodo per te.»

«Io dico la verità» lo sfidò la regina. «Sei tu che non vuoi vederla. Se tuo nonno, Emilio Paolo, che venne a minacciare l’Impero di Mem prima di te e fu trucidato a Canne, fosse vivo, te lo confermerebbe. Nelle tue venne scorre il sangue dei Figli di Ashterot.»

«Menti!» gridò Cornelio.

Ma lei continuò, pur coperta da ferite, pur immobilizzata contro il suo calcagno. «Tuo nonno, Emilio Paolo, che pure era così integerrimo, quando combatté contro gli Illiri, si invaghì della regina Teuta, la cui Ba era un lucente pesce dalla lunga spada. Da lei generò un bambino che tuo nonno, non avendo figli maschi, rapì dal seno materno e fece passare come figlio della propria moglie. Ecco perché si dice che in camera da letto tua madre vedesse spesso un serpente quando giaceva con tuo padre. Era la Ba di tuo padre.»

«Menti!!!» gridò di nuovo Cornelio, paonazzo.

Anche questa volta Elissa non si fece intimidire, anzi sul suo viso comparve un ghigno beffardo. «Anche se il Dono di Ashterot in te non si è manifestato, esso scorre nel tuo sangue e scorrerà per le future generazioni. Un giorno si manifesterà. E così farà coi figli degli stupri dei tuoi soldati. Roma si coltiverà in seno le Bestie che tanto teme. E quando esse verranno alla luce dovrà decidere se ucciderle uccidendo se stessa o invece accettarle.»

A quel punto, dalle labbra del Console uscì un urlo che pareva il muggito di un toro infuriato e si udì fino ai confini del campo di battaglia. Quindi la spada fu sollevata e piantata più volte nel petto della regina, come se questo potesse uccidere anche l’eco delle sue parole.

Da quel momento Cornelio fu spietato. Con l’aiuto di Amun e di un gruppo di sacerdoti traditori, cominciò a rastrellare ogni angolo dell’Impero di Mem, uccidendo senza pietà uomini, donne, vecchi e bambini. Se c’era il sospetto che il figlio di un soldato fosse nato da un’unione immonda con una Bestiale, esso veniva passato a fil di spada. Per evitare il propagarsi della sua stirpe, non ebbe figli, ma non osò svelare il peccato del loro illustre antenato e la vergogna del padre. Il fratello Fabio Massimo e il nipote Quinto non furono quindi toccati dall’epurazione da lui condotta, nella speranza che la maledizione di Elissa non si avverasse.

Quando i Bestiali furono dichiarati estinti al di qua delle Colonne d’Ercole, lottò perché nuove spedizioni venissero fatte nelle terre dove, affermava, erano fuggiti i Bestiali, prime tra tutte le Isole Fortunate. Il Senato, però, non gli diede ascolto. Egli, dunque, armò tre navi e arruolò un manipolo di uomini disposti a tutto allo scopo di stanare gli ultimi Figli di Ashterot. Non ebbe successo. Le sue navi naufragarono in una terribile tempesta nell’Oceano Atlantico.

Di tutto ciò, però, non si sa nulla perché venne stabilita dal Senato una damnatio memoriae: ogni traccia dei Bestiali fu cancellata dai libri di storia, dalle cronache e dai documenti ufficiali come se non fossero mai esistiti, anche se di sera, qualche volta, le balie, per spaventare i bambini parlavano delle Bestie feroci che uscivano dalle bocche degli Uomini-Bestia e divoravano i nemici.

A.U.C. = Ab Urbe Condita, dalla Fondazione di Roma