Prologo

I Campioni

 

Dodici anni prima

Ghentar levò le braccia sopra il capo, diede fondo alle ultime forze e si scagliò in avanti, spingendo la punta del Gran Corno di Barr nel muro di carne che pulsava davanti a lui. Il Corno era un Artefatto grande, pesante, arcaico, formato da un lungo cono osseo dalla strana forma irregolare, che si maneggiava tramite due impugnature squadrate. Le mani grandi e dure del guerriero le stringevano con forza, cercando di non perdere la presa per il sangue di Runnh il Bruno, il precedente portatore del Corno, che lordava la parte inferiore dell’arma.

Il puntale lavorato dagli alchimisti Jabbar affondò nel fianco della gigantesca creatura che gemeva, ventre a terra, fiaccata dalle orribili ferite che le avevano scavato le membra. Ghentar perse la presa sul corno quando questi scomparve quasi del tutto nel grande corpo martoriato. Subito un denso fiotto di sangue violaceo, dal forte odore vegetale, scaturì dalla pelle divelta ricoprendo il guerriero dalla testa ai piedi.

Il collo allungato del mostro, un essere simile a un rettile obeso con gli arti sottili, frustò il terreno svettando poi in cielo con un grido stridulo.

Quasi del tutto accecato dagli umori, Ghentar barcollò indietro di qualche passo mentre una sensazione oscena prese a risalirgli dal ventre. E nessun dolore. Lo squarcio bruciante sotto lo sterno, infertogli pochi istanti prima dal Portatore di Caos, sembrò scoppiare di colpo assieme a ciò che restava della corazza toracica. Il rumore umido che udì doveva essere quello delle viscere che toccavano terra. L’odore pungente degli escrementi lo stordì un poco. E non sentiva alcun dolore.

La creatura lanciò un nuovo grido di dolore.

Barcollando all’indietro, il Campione dell’insediamento di Vanai si passò una mano sugli occhi, ma la morbida benda della morte lo stava già stringendo, confondendogli la vista. Il suo ventre era un buco freddo. Cosa lo tenesse ancora in piedi era un mistero. Ringraziò mentalmente le piccole mani delle schiave di Drutha e le paste di chico che gli avevano preparato in vista dello scontro. Erano palline piccole e nere, amarissime ma capaci di far scomparire ogni dolore e risparmiargli una sofferenza atroce.

In quel mondo di immagini confuse solo i rumori avevano una qualche valenza. Immerso in un caleidoscopio sfumato, Ghentar sentì che la coda appuntita dell’essere riprese vita frustando di nuovo contro il terreno, sollevando nugoli di pietre o sbriciolandole di colpo.

E poi un suono sfrigolante. La mascella quasi spezzata del Campione piegò la bocca in una sorta di sorriso. Il Gran Corno di Barr continuava a penetrare il mostro, inesorabilmente, sciogliendone la carne come acido. Non avrebbe smesso di affondare nelle membra fino a quando il suo puntale non avesse trovato aria, o pietra.

Cercò di ripulirsi gli occhi dall’icore, ma non era tanto la sostanza organica a nascondergli le immagini del mondo, quanto la vita che se ne stava andando portandosi via bordi e forme nitide, lasciando solo un impasto confuso di colori.

Si voltò verso il bagliore morente del Muro di Luce, il quale dominava l’orizzonte.

N’il non aveva un sole.

Usando come riferimento l’orizzonte irradiato da un intenso color arancio, Ghentar cercò la sagoma lattea delle alte mura di Vanai, simile a una strana sequenza di angoli spezzati accostati l’uno di fianco all’altro. Ormai non restava nessuno che potesse spiegare il perché di quella strana antica forma di fortificazione. Oltre la pietra bianca, Frena, sua figlia, attendeva. Attendeva gli Araldi che ora erano ridotti a polpa. Attendeva i Campioni i cui corpi iniziavano già a perdere la rigidità seguente al decesso. E attendeva lui.

Qualcuno pronunciò il suo nome, o almeno lo balbettò.

Ghentar si voltò verso sinistra, cercando di trovare la fonte di quel bisbiglio umido. La prima cosa che vide fu il corpo di Thulk, o quanto ne era rimasto: al di sopra dello sterno vi era solo carne macinata. Tutt’intorno erano disseminati i resti degli altri Campioni dell’insediamento Vanai. Se-Ser il Rosso, Limer-sette-denti, Bastoll, Prie L’lhamach, Horilin di Drakkai e la lista continuava. I brandelli di una grande, terribile battaglia.

— Signore? —  mugolò la voce incerta.

— Sillach —  gorgogliò il corpulento guerriero, fissando una sagoma confusa e collegandola nella propria testa alla fisionomia esile del giovane.  — Sillach!

Un velo buio prese a calare, Ghentar udì uno strappo e il fetore delle interiora aumentò di colpo. Capì di essere caduto in ginocchio. Strinse i denti, spezzandone alcuni, e nel suo orgoglio di Campione Vanai trovò la forza di rizzare la schiena.

— A… Allora —  La sua voce era impastata.  — Allora hai visto, ragazzo? —  Deglutì una boccata di sangue denso.  — Lo dirai, vero? Dirai a tutti che cosa hanno compiuto i Campio —  Non finì la frase. Per Ghentar tutto scomparve in quell’istante. Il suo corpo venne ridotto a una pozza di polpa viva dall’ultimo guizzo della coda del mostro.

 

         Sillach, un efebo pallido, cadde a sedere. Lui era un osservatore, un supplice, un gregario. Riferiva e obbediva agli ordini, nulla di più. Quel giorno, però, il destino l’aveva scaraventato in un brandello di mondo che non obbediva ai ritmi lenti della sua vita. Sfuggito alla distruzione del carro degli Araldi, aveva atteso tremante dietro rocce che si spezzavano, o tremavano quasi fossero vive, l’esito della battaglia. L’odore del sangue lo aveva raggiunto aumentando a mano a mano d’intensità, fino a fargli vuotare le budella.

Quando aveva lasciato il rifugio di fortuna si era trovato in uno scenario che pensava appartenere solo all’Ephé, l’inferno di N’il. E pochi istanti dopo, davanti ai suoi occhi, l’ultimo difensore della città era stato schiacciato come un grasso pezzo di carne di Boma.

Il ragazzo avvertì l’eco di quello schianto fin dentro alle proprie ossa. La vescica gli cedette all’istante, lordando la lunga tunica color panna del proprio ordine.

A una quindicina di braccia da lui giaceva l’immenso corpo di un Portatore di Caos, il Vagatore, accasciato sul fianco destro. Il grosso ventre era un puntaspilli di lance e lame spezzate di spadoni, i sei lunghi arti mobili ridotti a poco più che moncherini gorgoglianti di icore giallastro. La coda lunga e terribile, spaccata in due dopo aver inferto l’ultimo colpo, fremeva in preda a spasmi irregolari, spargendo sulle pietre bianche i resti organici di Ghentar che ancora la lordavano.

Solo il collo allungato dava ancora segni di vita, se quell’intrico di lame, organi e placche di metallo poteva essere definito vivo. Il volto, al termine dell’appendice allungata, era umano. La bocca assurdamente piccola e circolare, gli occhi enormi, il naso appena accennato. Era solo un frammento di similarità con i membri della specie che aveva decimato. Un frammento appena in un corpo alieno, ma inequivocabilmente umano. Umano. E specchio di una vitalità ancora non spezzata.

Sillach raccolse tutto il coraggio che aveva e riuscì a rimettersi in piedi. La sua nuca, nuda e pallida, era madida di sudore. Non si accorse delle chiazze di orina che continuavano ad allargarsi sotto le vesti, all’altezza del pube. Seppur confusamente, sapeva quello che doveva essere fatto.

Se un Portatore di Caos non veniva stroncato del tutto il suo corpo prendeva a ricostruirsi.

Lo sapevano tutti.

Il Vagatore era sul ciglio della morte, ma ancora non cedeva. Sillach doveva spingerlo oltre la bocca dell’Ephé, o per lui e i Vanai non ci sarebbe stato alcun futuro.

I Portatori di Caos odiavano gli umani e lottavano fino allo stremo per distruggerne gli insediamenti.

Lo sapevano tutti.

Vincendo la ripugnanza, il giovane barcollò fino a una lunga lancia, sottilissima e quasi trasparente, che giaceva in mezzo a rocce infrante. Due mani inguantate stringevano ancora l’impugnatura. Uno degli arti del mostro aveva mutilato Ghighyas all’altezza dei gomiti. La volontà del Campione sembrava impregnare ancora quelle dita, perché Sillach rischiò più volte di svenire nel cercare di rimuoverle.

Le bestia ferita emise un lungo gemito, qualcosa di acuto e straziante.

La Luce di Ivor non aveva peso. Stringendola tra le mani, Sillach scoprì che la leggenda su quell’Artefatto a forma di lancia era vera. Respirò a fondo, cercando di vincere il panico, poi attinse alla disperazione convincendo le proprie gambe a muoversi. Finì con il compiere una strana corsetta traballante, ridicola in un altro contesto, lancinante in quel panorama di morte.

Il Vagatore sollevò lentamente la testa, avvertendo la presenza di quel paladino dal fare incerto. La bocca circolare emise una sorta di fischio stridulo, poi scattò verso il giovane con un guizzo fulmineo. Sillach ebbe appena il tempo di capire cosa stesse succedendo. Il capo della creatura sembrò mancarlo sul fianco destro, ma in realtà l’intero collo gli si avviluppò attorno alle gambe. Tutto in un secondo. Una stretta disperata, uno strappo e il ragazzo cadde a terra, orribilmente mutilato. L’agonia sembrò ridurgli le mani a morse d’acciaio, strette sulla Luce di Ivor.

Vide confusamente la testa del Vagatore allontanarsi di colpo, pronta a prendere forza per lo scatto successivo. Sillach gridò, le braccia pesanti come piombo. La testa della lunga arma cadde in basso, a destra. Il mostro fece schioccare il colpo, ebbro di rabbia, ma la facile preda riuscì a sollevare la lancia trasparente in un ultimo guizzo. Il puntale si piantò a metà del collo e il moto della creatura allargò il foro in uno squarcio terribile. Organi irriconoscibili e scaglie di metallo volarono in cielo.

Sillach apriva e chiudeva la bocca, un movimento automatico. Il peso del metallo sul petto lo soffocava, mentre ciò che restava della propria razionalità veniva strappato via dal dolore. Sentì qualcosa muoversi vicino alla sua spalla sinistra e vide il volto del Portatore di Caos accanto a sé. Strisciava su quanto restava del collo come un serpente.

Il giovane cercò di articolare un urlo, ma la voce scomparve quando sentì le parole della creatura. Fissò incredulo il viso del mostro, sempre più vicino a lui, poi avvertì la pressione di quelle piccole labbra circolari sulle sue.

Prima di morire sentì un forte sapore di agrumi.

Portatori di caos

Il libro

Qualsiasi cosa univa gli uomini davanti ai fuochi primordiali, o sulle grandi navi nel vuoto, è morta qui, su N’il.

Avevamo una prima città, ma i Portatori di Caos l’hanno rasa al suolo. Eravamo un popolo, ma a causa dei Portatori di Caos ci siamo spezzati in tante fazioni.

Temevamo i Portatori di Caos, ma iniziammo a combatterli, a morire, a impare e poi a vincere, a cannibalizzare e poi riprendere a combattere.

Ci siamo smarriti in un ciclo di violenza e abiezione.

E quando la speranza è tornata a brillare, oltre le mura di Dreados, a quella luce ci siamo scoperti indegni e degenerati.

A voi che sapete capire i segni vergati, e scoprire la nostra storia, non chiedo assoluzioni per i crimini della mia gente, ma un poco di indulgenza, e misericordia."

L'autore

Jari Lanzoni è nato a Castel San Pietro Terme nel 1975. Ha pubblicato diversi racconti e un romanzo fantasy, Domatori di Draghi. Su licenza di Valerio Evangelisti, ha sviluppato il gioco di ruolo Il Mondo di Eymerich, basato sul ciclo di romanzi dell’Inquisitore Nicolas Eymerich. Istruttore presso la Sala d’Arme Achille Marozzo – Istituto per lo Studio della Scherma Antica, ha collaborato alla Trilogia di Magdeburg di Alan D. Altieri, in qualità di consulente per le sequenze di combattimento.

Jari Lanzoni, Portatori di caos , Delos Digital, Odissea Fantasy 49, isbn: 9788825427608, ebook formato kindle (su Amazon.it) o epub (sugli altri store) con social drm (watermark) dove disponibile , Euro 4,99 iva inclusa

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