Profezia di un crepuscolo

di Umberto Maggesi

Il perimetro dell’arena si slanciava verso il cielo in alti pinnacoli, spessi camminamenti, torrioni immensi che parevano voler sfidare il cielo.

Secoli prima era stata una valle, ma il paziente lavoro dei mastri scultori ne aveva stravolto la fisionomia.

Le montagne stesse erano state scolpite su sei ordini architettonici. Archi che si rincorrevano in giri senza interruzione.

Con la sola forza di fiamme e artigli.

Mastodontiche colonne, scolpite in spirali, scanalate, addossate in costoloni o quadrate. Capitelli in cui si riconoscevano i tratti dei draghi che avevano fatto la storia del popolo. Archi decorati dai glifi dei clan che sovrastavano bifore, trifore e quadrifore. Geometrie che si perpetuavano nel perimetro, giochi di forme abilmente realizzati, armonie che si rincorrevano e richiamavano.

All’interno teorie di gradoni discendevano dagli ordini superiori, in balzi alti quanto alberi centenari.

Nessuna scalinata, niente scivoli per accedere alle zone superiori.

Quello non era luogo per creature prigioniere del poco decoroso deambulare.

Il campo era stato spianato, i torrenti deviati o interrotti, per favorire un’area libera di pietra e terra.

Sui gradoni non c’era un posto libero. I draghi attendevano in perfetto silenzio, allungavano il collo verso gli sfidanti, senza osare emettere il più flebile sospiro.

Nhemcak e Tiefahel stavano immobili nel raccoglimento prima della sfida. Artigli a riposo, zanne ripiegate dentro le bocche, occhi chiusi, cuore calmo e mente serena. Respiravano appena, lenti movimenti delle scaglie brune di Nhemcak e verdi di Tiefahel.

Aktaniel non riusciva a stare fermo, aveva seguito l’amico Tiefahel per tutti i tornei. Aveva barrito per lui, roso dall’ansia quando un combattimento minacciava di andare male, pieno di orgoglio per tutte le vittorie contro i campioni degli altri clan.

L’ombra del soletempo arrivò alla tacca mediana. I due sfidanti barrirono al cielo, spiegando le ali e avventandosi l’uno contro l’altro. Fra il pubblico esplosero barriti d’incitamento. I draghi sbattevano le ali, ghermivano l’aria con i possenti artigli, agitavano le code, fremendo per il loro campione.

Nhemcak era sostenuto dagli scuri Feigh’Lioton, abitatori di grotte e forre, un clan che prediligeva le zone fredde del nord e le dure montagne di Solmenot. Anche gli ambigui Mis’Unsifim lo sostenevano, insieme ai Mita’Moluk abitatori di laghi, fiumi e mari.

Aktaniel conosceva la storia di ogni clan, le alleanze politiche, i voltafaccia, le diatribe per questioni di territorio. Alla fine si arrivava sempre lì, il territorio per permettere al clan di sopravvivere, prede da mangiare, spazio in cui muoversi, luoghi sicuri per le uova.

Un’ovazione esplose, l’arena vibrò dei potenti barriti e ringhi: Nhemcak aveva scagliato un potente colpo di coda, scaraventando l’avversario a terra; se il rostro caudale non fosse stato ricoperto, come prevedeva il rituale della sfida, Tiefahel se la sarebbe vista brutta. Aktaniel sventagliò le ali e barrì un incoraggiamento, sperando di essere udito dall’amico in quella cacofonia. La massa scura di Nhemcak si avventò contro l’altro, artigli in presa, bocca aperta. Per un istante Aktaniel temette che avrebbe usato il fiato, venendo meno al rituale, ma poi vide che la sua intenzione era ghermire Tiefahel. Anche gli artigli erano protetti da spessi giri di cuoio: nella maggior parte dei casi, i campioni non riportavano ferite serie.

Tiefahel scattò all’ultimo istante, mentre le zampe dell’avversario affondavano nella polvere, colpì col muso e poi un potente colpo di coda. La situazione si era ribaltata: il campione degli Ojod’Lhun stava sul dorso dell’avversario e gli aveva imbrigliato le ali.

Il padre di Aktaniel, sempre così controllato, lasciò andare un lungo gioioso barrito, svolazzò sul suo posto, gli occhi gialli concentrati sualla sfida. Il figlio sentì un pungolo di gelosia: sapeva benissimo che suo padre adorava Tiefahel, non per altro aveva acconsentito a cedergli la sua unica figlia. Come dargli torto? Il campione del clan Ojod’Lhun era forte, fiero, buono e onesto. Le qualità che gli antichi dei avevano inteso spargere nel cuore di ogni drago. L’equilibrio delle virtù non sempre era stato raggiunto, molti draghi erano troppo fieri e non si piegavano a nessuno, perseguendo esclusivamente i propri scopi, oppure facevano della forza il loro cuneo per prendersi ciò che volevano. Bontà e onesta avevano costretto altri a rifugiarsi in eremi lontani, lasciando la propria gente, oppure a stringere alleanze con i più subdoli della loro e di altre razze. Erano i tempi bui, i tempi della barbarie. Un passato da cui il popolo dei draghi si era innalzato in quasi seimila cicli.