Immaginare di non poter più leggere, nè parlare, insomma essere impossibilitati a comunicare è un'ipotesi che fa rabbrividire. Essere colti da una deflagrazione, sentire il senso di colpa del proprio snobbismo, quasi questo fosse motore primigenio della catastrofe, è un peso troppo grande per qualunque uomo. La corsa, poi, alla creazione di una lingua, seppur personale, sedimentata attraverso i secoli, in cui emergano memorie esoteriche di lingue passate, morte, diventa necessaria, come la salvezza dei libri in Fahrenheit 451.

In un'ambientazione apocalittica, ma priva di tutti quei canoni da filmografia hollywoodiana, si ambienta il libro del bravo scrittore Andrea Bonvicini, edito nella collana Lab dedicata alla nuova narrativa del coraggioso editore Perrone.

La lingua colta, i rimandi dotti non appesantiscono la prosa, molto fisica, pulsante. Ottima è l'analisi psicologica, che aiuta il lettore a sospendere l'incredulità, calandolo nell'azione, che si svolge pian piano, in accordo alla follia della situazione descritta. Il lettore si trova, quindi, spaesato come il protagonista, vive il delirio di constatare l'annullamento di ogni comunicazione.

Quasi applicando una legge di sagace contrappasso, in un tempo in cui non possiamo fare a meno di comunicare, in ogni momento, in qualsiasi modo e luogo, tronfi e indifferenti alla opportunità della cosa, quasi dipendesse da questo la nostra vita, Bonvicini mette in scena la fine di queste capacità, di questa smania - perché c'è da chiedersi se sia più folle subire le urla, le discussioni dei nostri vicini in qualsiasi ora del giorno e della notte, o sia preferibile zittire tutti, facendo loro emettere solo suoni sconnessi e privi di significato-, e proprio per questo ridona alla parola, al verbo la dignità primigenia. In un onirico black out diventiamo torri di Babele ambulanti, costretti a inventare qualcosa che dia senso alla nostra esistenza. L'abuso, lo sfruttamento e lo svilimento di ciò che ci è arrivato dal passato sembra condannarci al buio.