– Avverti Gam e Onran di scegliere degli uomini con cui comporre un quarto contingente di guardia, e fa’ lo stesso anche tu – continuò Col.

Held annuì con riluttanza, ma Col ignorò la sua reazione e si girò invece di nuovo verso Ryke.

– Vieni – disse, – andiamo dal fabbro per togliere quelle catene.

Quando uscì dalla fucina, Ryke trovò Col ad aspettarlo, e insieme si avviarono verso gli alloggiamenti.

– Il tuo contingente sarà uguale agli altri – disse Col. – In questo modo, tutti e quattro ammonteranno più o meno a un centinaio di effettivi.

– Quanti uomini hai portato con te?

– Cinquecento. Ne abbiamo lasciati cinquanta a presidiare la Rocca di Zilia, e ne ho persi altri cinquanta in combattimento.

Ryke si costrinse a celare la soddisfazione che gli derivava dall’apprendere che Tornor era costata a Col la perdita di cinquanta dei suoi uomini, perché adesso era al servizio del vincitore e doveva tenere per sé pensieri del genere.

– Stanotte, a cena, annuncerò i nuovi turni di guardia – continuò Col. – Dovrai badare che i tuoi uomini siano sempre in forma e ben addestrati, perché fra un paio di mesi, una volta superate le nevicate più massicce, manderemo delle bande a tenere sotto pressione la Rocca di Cloud, in modo che non sia in grado di resistere a lungo quando arriverà il momento dell’attacco.

La Rocca di Cloud era governata da Berent il Guercio, che aveva perso un occhio a causa di una pietra fatta schizzare dagli zoccoli di un cavallo in corsa durante l’ultima guerra contro Anhard, nove anni prima. Ryke si chiese come facesse Col a sapere che la Rocca di Cloud era

debole, e concluse che doveva avere fra le sue truppe dei settentrionali… dei traditori, suggerì la sua mente, ma lui si costrinse a ricacciare indietro quel pensiero… che lo avevano ragguagliato sulla situazione nel nord.

– E dopo la Rocca di Cloud sarà la volta di Pel? – chiese.

– Sì. Quello sarà il boccone più difficile, anche più di Tornor. Sironen non è uno stolto, e si aspetterà di vedermi arrivare.

Oltrepassarono la Piazza d’Armi dove, nonostante la neve avesse coperto il terreno, alcuni uomini di Col si stavano esercitando con coltelli, spade e asce. Ogni Rocca, ogni grosso villaggio e ogni città meridionale, disponeva di una Piazza d’Armi. Sin dall’età di tredici anni ogni ragazzo doveva esercitarsi quotidianamente, un addestramento continuo senza il quale Arun sarebbe stato da tempo conquistato da Anhard. A Ryke avevano riferito che da quando era stata stipulata la tregua, l’addestramento si era fatto meno assiduo nelle Piazze d’Armi del meridione, ma del resto per quei contadini era facile cedere alla pigrizia, perché erano sempre le Rocche a subire l’impatto della guerra con maggiore violenza.

Un tempo, ogni Piazza d’Armi aveva avuto un Maestro, un uomo dotato di indiscusso talento che aveva la responsabilità di addestrare i ragazzi e di sovrintendere alle loro esercitazioni, una pratica che a Tornor era stata abbandonata.

Rallentando il passo, Col scrutò la Piazza d’Armi da un’estremità all’altra con occhi attenti a cui non sfuggiva nulla. Si soffermò a osservare due uomini impegnati a duellare con spade di legno.

– La sua guardia è goffa – borbottò Col, poi gridò qualcosa a uno dei due, che rispose senza voltarsi e sollevò leggermente lo scudo, mentre Col lanciava un’occhiata in direzione della fucina, aggiungendo: – Io fabbricavo scudi migliori.

– Eri un fabbro? – domandò Ryke.

– Sì, come lo era mio padre, e suo padre prima di lui. Vivevamo nel villaggio di Iste… lo hai sentito mai nominare? – replicò Col, e quando Ryke scosse il capo, continuò: – È solo un punto sulle mappe, vicino al Lago Aruna, sulla Grande Strada meridionale. Io ero solito guardare i signori delle Rocche viaggiare avanti e indietro fra le montagne e Kendra-sul-Delta, e desideravo di poter andare con loro. Ero geloso di ogni singolo stalliere al loro seguito. Il mio nome deriva da quello del mio villaggio: l’ascia da guerra di mio padre è stata la sola cosa che ho portato con me quando sono andato via da casa. Gli uomini potrebbero causarti dei problemi, dato che sei un settentrionale e che fino a poco tempo fa eri un nemico – proseguì poi, infilando i pollici nella cintura. – Fa’ pure tutto ciò che riterrai necessario per mantenere la disciplina. – Il suo tono lasciava chiaramente sottintendere che avrebbe tenuto d’occhio Ryke per vedere con quanta abilità avrebbe saputo gestire i suoi uomini.

– Ormai, dovrebbero essersi radunati – aggiunse, avviandosi verso gli alloggiamenti. Ryke, che aveva vissuto per dieci anni in quell’edificio e ne conosceva ogni pietra, lo seguì in silenzio.

Cento uomini erano in attesa nell’edificio sud-occidentale, quello più freddo e più lontano dai camini delle cucine, anche se da esse filtrava un intenso odore di prosciutto arrosto che pervadeva l’aria e che fece venire l’acquolina in bocca a Ryke. Quando Col entrò, gli uomini si alzarono in piedi, e nel guardarli Ryke si sentì uno straniero in mezzo a loro: chiaro di pelle e biondo di capelli, di statura decisamente più alta, spiccava tra loro come una volpe rossa sul terreno innevato. Notando le loro occhiate guardinghe, si chiese cosa avesse detto loro Held sul suo conto.

– Vi presento Ryke, che era il comandante di questa Rocca – annunciò Col. – Ora gli ho affidato il comando del nuovo contingente, con autorità pari a quella di qualsiasi altro comandante. – Fece una pausa, scrutando i soldati silenziosi, poi aggiunse: – È tutto chiaro?

La risposta fu un borbottato coro di assensi.

– Questo è tutto – concluse Col, avviandosi verso le scale e scoccando un fugace sorriso a Ryke.

Consapevole che gli uomini stavano attendendo che lui parlasse, Ryke incrociò le braccia, studiandoli in silenzio. La luce del sole rischiarava a chiazze gli sbiaditi arazzi appesi alle pareti, così coperti dal grasso colato dalle candele da rendere quasi irriconoscibili le scene di guerra raffigurate su di essi. Sull’arazzo più vicino, alcuni arcieri stavano prendendo di mira i soldati di Anhard; sotto gli elmi conici, le facce sull’arazzo erano irriconoscibili macchie chiare.

Ryke scrutò in volto i soldati veri che stavano schierati davanti a quelli dipinti, uomini che fino a pochissimo tempo prima erano stati suoi nemici.

Fra quei bruni volti meridionali scorse alcuni settentrionali, uomini che non conosceva e che suppose provenire dalla Rocca di Zilia, indotti da Col a passare al suo servizio con promesse di bottino o con minacce di morte. Senza dubbio, era stato uno di loro a rivelare a Col la sua identità.

Lentamente, camminò lungo la fila di pagliericci fino ad arrivare a quello più in fondo.

– Dormirò qui – annunciò, gettando a terra l’equipaggiamento posato su quel giaciglio.

Subito si fece avanti un dinoccolato soldato dai capelli rossi, che aveva il volto e le mani piene di lentiggini e portava al fianco sinistro un fodero d’ascia, ora vuoto.

– Come ti chiami? – chiese Ryke, consapevole che quello era il capo riconosciuto dal gruppo.

– Vargo – rispose il rosso, fissandolo dritto negli occhi. – Quello che hai preso è il mio letto.

– No, il tuo è quello – precisò Ryke, indicando il giaciglio successivo. – Tu sei il mio comandante in seconda.

Dagli altri soldati si levò un mormorio che esprimeva interesse e insieme sorpresa, e Vargo si umettò le labbra, chiaramente perplesso nel vedersi d’un tratto privato di una scusa per scatenare uno scontro.

– A cena, Col annuncerà nuovi turni di guardia. Prima di allora, riunitevi qui per un’ispezione dei vostri armamenti... avete tutto il pomeriggio per lucidare spade e corazze. Noto che siete a corto di coperte, cercherò di procurarvene delle altre. Vargo, tu rimani qui, gli altri sono congedati.

Lentamente, gli uomini uscirono alla spicciolata o si raccolsero in gruppetti accanto ai pagliericci per parlare fra loro. Ryke intanto sedette sul suo giaciglio, imitato da Vargo.

– Tu li conosci, quindi parlami di loro: voglio sapere quali sono i fannulloni e quali possono causare problemi – disse Ryke.

Prima di cena, fece allineare gli uomini nel cortile antistante gli alloggiamenti. Mentre gli sguatteri sbirciavano incuriositi dalle cucine e gli uomini del casotto di guardia interno osservavano con altrettanta curiosità, Ryke camminò lentamente davanti agli uomini schierati, esaminando le armi e fissando ciascuno di loro negli occhi. Uno di essi aveva un aspetto trasandato: i suoi abiti di cuoio erano sporchi di grasso e le armi non erano

state lucidate. Il suo nome era Ephrem, e Vargo lo aveva segnalato a Ryke come un possibile piantagrane. Largo di spalle, tozzo come un bue, l’uomo fissò Ryke con insolenza.

– Eri con gli altri e dovresti aver sentito i miei ordini – gli disse con tono duro.

– Ero occupato – ribatté Ephrem, guardandosi intorno, e assunse un atteggiamento ancora più spavaldo, sfidando Ryke a reagire.

Ryke indietreggiò di un passo, ma poi, proprio mentre Ephrem si rilassava, accasciando le spalle, si girò di scatto e gli sferrò un sinistro alla mascella. Ephrem venne scaraventato all’indietro e crollò sul freddo terreno del cortile dove giacque inerte e floscio come un verme.

Senza più curarsi di lui, Ryke proseguì l’ispezione, ultimandola in breve tempo.

– Tu e tu – ordinò infine, scegliendo due uomini a caso e indicando Ephrem, che era tuttora privo di sensi, – portatelo sul suo pagliericcio.

I due uomini si affrettarono a trascinare via Ephrem, fra i sogghigni degli sguatteri che si facevano beffe di lui. Gli altri rimasero schierati, e Ryke li lasciò in attesa per qualche momento, valutandone lo stato d’animo come avrebbe potuto fare con un cavallo appena domato. Alcuni si erano girati a guardare Ephrem; Ryke attese che tornassero a voltarsi verso di lui, mentre il silenzio si faceva sempre più opprimente. Da qualche parte, nella Rocca, si levò l’ululato desolato di un cane, e Ryke si chiese se si trattasse di uno dei cani di Athor, che stava cercando invano il suo padrone.