Sorren giunse alla porta principale. Nel medesimo istante, questa si aprì e un uomo ne uscì a passi decisi. I due si scontrarono e Sorren si piegò su un ginocchio, non tanto per aver perduto l’equilibrio, quanto per la rispettosa osservanza delle regole di cortesia.

Il profumo dell’uomo le risultò familiare. Gli lanciò un’occhiata furtiva. Sì, era proprio Isak. Strano però: erano nel mese del raccolto, e come mai non si trovava ai vigneti a sorvegliare i raccoglitori? – Mi spiace, Signore – si scusò.

Isak le sorrise. – Sorren. – La sua voce calda le rammentava sempre un gatto che faceva le fusa. Naturalmente l’incidente non lo aveva per nulla irritato. Isak non si adirava mai. – Sta’ un po’ più attenta, bambina. Non vorrai mica far cadere uno dei nostri eccelsi membri del Consiglio, vero?

– No – replicò lei.

– No, naturalmente! – Sfiorandole il capo con la mano inanellata, si allontanò a passo spedito lungo il cortile diretto al cancello d’ingresso. Sorren si alzò. Il ginocchio sinistro le doleva; lo strofinò leggermente. Isak si fermò un istante a parlare con la sentinella mentre il sole scintillava sulla seta azzurra della sua tunica. Sorren si chiese se stesse ordinando all’uomo di raccogliere la lancia.

Nell’impatto aveva sentito il vigore dei suoi muscoli, sodi sotto la stoffa leggera. Adesso avrebbe trovato Arré di pessimo umore; era sempre particolarmente irritabile dopo un colloquio con Isak.

Entrò in casa. Occorse qualche istante perché i suoi occhi si abituassero all’oscurità. Un profumo di lillà aleggiava nella sala lunga e fresca. Un vaso laccato, colmo delle odorose infiorescenze, adornava un tavolino posto sotto la statua del Guardiano. La scultura era nuova, ed era opera di Ramanth, lo stesso artista che aveva diretto i lavori di costruzione della grandiosa statua nel Tanjo. Sorren si inchinò alla statua: labbra di pietra le sorrisero, e occhi di pietra baluginarono.

Si domandò che fine avesse fatto la vecchia scultura. Era ovvio che non la si poteva ridurre in frantumi così come si fa con una vecchia pentola ormai inservibile. Un gesto simile sarebbe stato irriverente nei confronti del cea. Tese l’orecchio per carpire il suono della voce di Arré dallo studio. Quel mattino Arré aveva in programma una riunione con i suoi agrimensori per discutere un progetto di ampliamento di alcune strade. Dallo studio non giungeva alcun suono. Sbirciò allora nella sala grande. Elith era là, intenta a spolverare mormorando tra sé, mentre passava lo strofinaccio sulle pareti.

Era vecchia, Elith, grassa come un materasso di piume, e sorda per di più, ma un tempo era stata la cameriera personale della madre di Arré Med e, da allora, aveva continuato a servire in quella casa. Sorren chiamò a voce alta: – Elith! Sai dov’è lei?

La donna si voltò lentamente. – In cucina.

Sorren vi si diresse. Tutte le porte e le finestre erano aperte, schermate da reti per impedire alle mosche di entrare, ma la temperatura nell’ampia cucina era caldissima, più calda ancora dell’afa insopportabile del mercato. Arré stava lì, impegnata a discutere col cuoco. Si voltò non appena sentì Sorren entrare. – Ebbene? Cosa ti ha detto il pescivendolo?

Gocce di sudore scorsero sul labbro superiore della ragazza. – Il pescivendolo dice che non può mandarti il pesce persico ma, se vuoi, può servirti con delle buone passere – rispose strofinandosi il labbro.

– Le passere andranno bene.

– È così che gli ho detto anch’io.

– Come vuoi che le prepari? – le chiese il cuoco.

– Non ha importanza, purché non siano troppo speziate. Marti non può mangiare carne piccante.

Marti Hok era uno dei Consiglieri. Il pesce era difatti destinato al pranzo che si sarebbe tenuto in occasione dell’Assemblea del Consiglio. Il cuoco annuì e cominciò a chiamare i vari apprendisti cucinieri. Sorren rammentò il pericolo che aveva trascorso in cucina. Aveva detestato quella mansione. Una volta era persino svenuta suscitando il disgusto generale. Gli altri sguatteri l’avevano presa in giro per settimane a causa del suo terrore per il sangue, ma in realtà non era stata la vista del sangue a farle perdere i sensi, bensì il calore soffocante di quel luogo. Un caldo peggiore di quello che aveva sofferto nei vigneti. Probabilmente a esso si era aggiunta la puzza; era molto sensibile ai cattivi odori, e nella cucina ve n’erano sempre troppi... Non c’era da meravigliarsi che i cuochi gettassero via tanta roba.

Arré era vestita di bianco, e per contrasto la sua pelle bruna appariva ancora più scura di quanto lo fosse realmente. Il caldo le inanellava i capelli in piccoli riccioli; usava portarli corti quasi quanto quelli di Paxe, ma erano di una qualità diversa e striati da sfumature grigie.

Con un cenno del capo, invitò Sorren a seguirla. – Vieni – le disse, e uscì dalla cucina lastricata di piastrelle. Nell’aria più fresca del corridoio si accostarono entrambe a una parete.