Era stato Alain Garsault a definire Conan il barbaro di John Milius "un prodotto dell'immaginazione pura". Sebbene quel pionieristico articolo, uscito nell'82 sulle colonne di "Positif", non si preoccupasse eccessivamente del parallelo con i mondi immaginari di Robert E. Howard (il creatore del personaggio, nel 1932) rendeva tuttavia un sincero omaggio a quel cinema fantastico d'azione di cui non esisteva alcun esempio recente e che Milius, complice l'operazione Conan, aveva riportato in vita dai tempi di Raoul Walsh, Michael Curtiz, Douglas Fairbanks e soprattutto del peplum.

Quando, due anni dopo, Richard Fleischer accettò con rassegnazione, come un ennesimo acciacco dell'età, l'ingrato compito di dare un seguito a Conan il barbaro (ben consapevole che la richiesta di Dino e Raffaella De Laurentiis era quella di sovvertire la formula cupa e tutto sommato "adulta" del predecessore, andando a girare in Messico un film per adolescenti), i puristi gridarono allo scandalo e forse solo Arnold Schwarzenegger difese il film. Che era radicalmente diverso dal primo capitolo ma che soprattutto si rifaceva ai modelli del cinema avventuroso leggero senza l'ansia innovatrice di Milius, anzi offrendosi come un dignitoso "Conan-Trinità" – altro che Distruttore ! – laddove Il barbaro era stato l'equivalente di un Django o di un Grande silenzio

Ora tocca a Conan the Barbarian (2011), film di Marcus Nispel che personalmente ho visto con interesse, pur non potendo condividere il suo montaggio fatto quasi sempre di piani ravvicinati o primi piani, il suo ritmo da cardiopalma (che non costituisce più una sorpresa ma un vero e proprio dogma) e una violenza sì molto fittizia e grottesca, ma anche molto reiterata e, quel che è peggio, falsamente attribuita al barbaro come compiacimento o addirittura "degenerazione" (sono parole di Jason Momoa sul suo personaggio), invece che come terribile cimento esistenziale: cioè una serie di prove sfibranti, oltre che liberatorie, inserite in un contesto di "immaginazione pura" come avviene in Howard.

Dunque, il film di Marcus Nispel è lungi dall'avermi convinto al cento per cento, o anche solo al novanta. Ma più passano i giorni, più le stroncature degli altri appassonati mi inducono a ricordare i buoni momenti di questa pellicola, che pure non mancano. Il prologo con gli accenni all'Era Hyboriana (pronunciata dai doppiatori all'inglese, "Aiboriana", invece che alla greca) è affascinante e simile, per ricchezza di dettagli, al recitativo che apriva il film di Milius, e che in italiano era letto dal grande Mario Feliciani. Qui veniamo informati su un'epoca ancora anterore, e mentre la voce narrante parla del malvagio impero di Acheron, sullo schermo tri-D sfilano fiammelle cupe che potrebbero essere stelle, dando all'introduzione un respiro cosmico.

Nomenclatura, geografia e visualizzazione dell'Era iboriana sono abbastanza rispettosi ed efficaci, mentre ho rimpianto solo il fatto che a quelli canonici si sovrapponessero, di tanto in tanto, nomi "barbari" perché inventati lì per lì, e quindi dissonanti rispetto al canone.

Prima che si abbassassero le luci sul Conan di Milius, ricordo benissimo il mio batticuore dell'82, avevo ferventemente sperato di vedere sullo schermo i magici regni di Iboria come ce li aveva tramandati Howard: e se non proprio la regale Aquilonia, almeno Zingara, Shem, Koth di cui io stesso sono originario (perché corrisponde all'Italia mediterranea) o Stygia, la landa della negromanzia. Invece, niente di tutto questo. Avevamo dovuto "accontentarci" di qualche torre a Shadizar, qualche cammello, l'arena di un circo e un villaggio in Cimmeria con la neve finta. Per carità, l'estetica di Milius suppliva egregiamente alla mancanza di architetture possenti e almeno due ambienti – la torre del serpente e la sala dell'orgia progettate da Ron Cobb – facevano rivivere sul grande schermo i gloriosi pannelli di Frank Frazetta per le copertine Lancer. Nel Barbarian 2011, che per noi è barbaresco fin dal titolo, non c'è una simile progettazione visuale, non c'è nessun inventivo production designer al timone, eppure i toni cupi del colore, i fondali ottenuti con la CGI e i plastici tridimensionali dei regni iborei stesi "come mantelli azzurri sotto la volta delle stelle", un loro fascino l'hanno. L'immaginazione qui sarà "impura" – secondo canoni estetici che spesso condivido – perché troppo affidata agli elaboratori e troppo poco al talento di un architetto, ma intanto dai computer escono ogni giorno architetti virtuali sempre migliori, e il film di Nispel rimane il primo tentativo cinematografico volto aricreare il mondo di Robert E. Howard nella sua varietà oltre che nella sua essenza e rappresentatività.

La scena della danza in topless, all'inizio, non sarà compiutamente erotica ma è "teasing" in quel modo un po' ingenuo e guardonesco che sta alla base del cheesecake, con le belle ragazze seminude pronte a rendere omggio non solo e non tanto a noi spettatori di fila ma al peplum che fu (e che avrebbe voluto mostrare i seni nudi, pur astenendosene per ovvie ragioni). 

Tutta l'infanzia di Conan, dalla sua nascita sul campo di battaglia ai primi, micidiali duelli contro i pitti, è howardiana nello spirito e nella forma. E il Conan adulto di Jason Momoa non fa rimpiangere quello di Schwarzenegger, sebbene il tipo del capellone muscoloso che fa gli occhiacci sia diventato da tempo uno stereotipo del cinema e della TV.

Un discorso a parte meritano i comprimari: dalla coppia incestuosa Stephen Lang-Rose McGowan, gli stregoni del male (e, nel caso di Lang, un micidiale assssino), al padre di Conan Ron Perlman, fino all'inevitabile sacerdotessa vergine (Rachel Nichols) che Conan deve difendere e difenderà a tutti i costi. I loro sono ruoli riusciti, senza esclusioni, mentre l'inserto sui pirati e quello sulla vita vagabonda di Conan ladro e predone riassumono velocemente la lunga e variopinta carriera del cimmero.

Ripeto, non siamo di fronte a un film d'autore, per quanto disequilibrato, come poteva essere il cult di John Milius; qui siamo, più francamente, dalle parti del camp: ma è il cinema di oggi a parlare questa lingua, è l'estetica della non-estetica a volersi imporre sempre e comunque, almeno in superficie: perché al fondo la mano di un regista qui c'è, insieme a quella di un montatore deciso a raccontare per sincopi, per iterazioni assordanti piuttosto che per graduale crescita della suspense, come ormai temo faccia parte delle regole del gioco.

Un film genuinamente barbaro come questo terzo Conan non lo è solo involontariamente, né, lo abbiamo già escluso, perché insegua un'impossibile adesione a un autore letterario; lo è piuttosto perché i suoi eccessi, le sue lingue mozze e dialoghi mozzi, i suoi inediti smoccolamenti, i colori cupi e le miniature tridimensionali vanno ad arricchire, insieme ad una colonna sonora da telefilm, quel ricco e già forse straripante serbatoio di film "poco civili" che da Mad Max Interceptor, da Strange Days Waterworld,  e naturalmente ai Conan, da una trentina d'anni in qua manda in visibilio le platee barbarizzate di mezzo mondo. Alcuni con maggiore ingegno, altri con autentica prepotenza, ma l'andazzo sembra essere questo. Odi barbare, dentro e fuori il genere sword & sorcery. E apocalissi, alluvioni, invasioni, 2012… L'anno prossimo toccherà a John Carter di Marte, kolossal probabilmente più ricco del Barbarian e più ambizioso, ma in fondo anche quello ambientato tra gli spadaccini e gli uomini-mostro di un pianeta arcaico, anzi primevo.