Dekar, signore di Nebur, si avvicinò alla finestra e gettò uno sguardo verso il terrazzo incendiato dal sole.

La luce penetrava tra le colonne a spirale di marmo intarsiato, si rifletteva sui cristalli incastonati nelle pareti e riempiva la penombra della sala con mille scintille.

Dietro di lui, tre dignitari Arancio erano in obbediente attesa. Le loro tuniche cosparse di senso-spore fluorescenti avevano una tonalità cupa condizionata dall’umore.

— Non fate che portare cattive notizie — sbottò il sovrano girandosi di scatto — E mai nessuna soluzione concreta.

Le vesti mutarono sfumatura, mostrando una vivida preoccupazione. Uno dei dignitari si schiarì la voce e mormorò — Maestà, non dobbiamo nascondere la realtà. Le incursioni dei Kundar attraverso il Corridoio si fanno ogni giorno più frequenti.

Dekar sfiorò pensieroso la superficie del suo tavolo da lavoro, intarsiata di gemme preziose ma libera da carte e pergamene, e mormorò — In questo momento non possiamo permetterci una nuova guerra. L'esercito è logoro e mal equipaggiato.

— La situazione del nemico non è migliore — ribatté il dignitario — Non hanno la forza per una vera e propria offensiva, ma continuano a compiere razzie sanguinose lungo il Corridoio di Confine. Saranno sempre più audaci se non daremo una risposta ferma e decisa.

Dekar iniziava a essere stanco. Detestava sprecare tempo in quelle noiose questioni di stato e desiderava un buon bicchiere di vino, fresco e speziato.

— Insomma, la vostra proposta? — sbuffò esasperato.

Le senso–spore infiammarono d’entusiasmo i lunghi abiti dei dignitari Arancio, animando la stanza con miriadi di bagliori rossi.

— Mercenari — fu la secca risposta.

Dekar scosse la testa — Non ce ne sono nel Regno.

— Non saranno del luogo. Pensiamo di inviare emissari nelle lontane isole Quaran, e portare qui un piccolo gruppo di uomini — il dignitario fece una pausa, come per leggere la reazione negli occhi del Re — feroci, letali e sconosciuti.

— E costosi, immagino — concluse Dekar

— Sempre meno dei danni che subiremo se continueranno le incursioni.  Le vesti pulsarono d’incertezza nell'attesa della risposta.

Il sovrano si guardò in maniera distratta le unghie dorate, sollevò lo sguardo e sospirò — Va bene. Avete il mio permesso.

I colori dell’abito reale brillarono infastiditi.

— E ora, fuori di qui.

Il Palazzo di Nebur era enorme. Durante il lungo mese di viaggio, Xanar di Quaran aveva cercato di immaginarlo ma nulla lo aveva preparato a quella visione.

Un immenso ammasso, senza ordine apparente, di mura merlate dipinte in complicate sfumature, torri e cupole di ogni tipo e dimensione, sezioni in pietra sormontate da coperture e terrazze in legno, giardini pensili, guglie adornate di bandiere e grandi porte affollate di mercanti e visitatori già dal primo mattino.

Costruito al centro di un’infinita pianura brulla e desolata, il Palazzo riempiva da solo gran parte della linea d’orizzonte. Xanar aveva combattuto in molte terre, ma era certo di non aver mai visto nulla di paragonabile.

Afferrò un vecchio fazzoletto rosso, si pulì il viso sporco di polvere e lo usò per raccogliere in una treccia i lunghi capelli. Sistemò la spada in modo che fosse ben visibile e, spronando il cavallo, fece cenno al suo piccolo esercito di seguirlo.

Trenta guerrieri, con gli scudi rotondi legati alla schiena e le scimitarre infilate in scuri foderi di cuoio, si misero in cammino lungo la strada principale, in una nuvola di polvere bianca. L'arrivo non passò inosservato. Davanti alla porta d’ingresso principale li attendeva un plotone di soldati, comandati da un uomo con una tonaca purpurea.

Xanar si fermò, valutò l'espressione imberbe e le armi arrugginite della guarnigione e sorrise. Capì subito perché quel popolo aveva percorso tanta strada per ingaggiare dei veri guerrieri.

— Sono Xanar di Quaran — esclamò fermandosi sull'ingresso — Vengo su richiesta del vostro Re.

Il dignitario Porpora gli rivolse un sorriso di superiorità.

 — Sappiamo chi sei. Eri atteso.

La sua tunica fiammeggiò. Con un gesto indicò una via lastricata che si inerpicava verso il cuore della cittadella.

— Seguiteci — disse soffocando a metà uno sbadiglio annoiato.

Il drappello s’incamminò. Dopo pochi minuti, la strada divenne una larga arteria in marmo verde e rosa, piena di vasi e alberi dai colori vivaci, per poi sfociare attraverso un mirabile gioco architettonico, in un’ampia sala interna. Xanar osservò le pareti in travertino abbellite da arazzi e mosaici, valutando il luogo con occhi esperti.  Il palazzo e la città si fondevano così bene da non lasciar capire dove iniziasse l’uno e terminasse l’altra.

Il solerte funzionario, dopo aver indicato dove lasciare i cavalli, li guidò in un dedalo di corridoi turchesi e rosa, sale dai soffitti blu decorati con stelle d’argento, stanze foderate di specchi che moltiplicavano le immagini all'infinito.

Attraversarono cortili con piscine alimentate da sorgenti sulfuree, ammirarono chiostri e giardini rigogliosi, salirono rampe di scale in alabastro trasparente che sembravano sospese nel vuoto.

Alla fine, giunsero in un salone arredato con lunghi tavoli in legno, pieni di vassoi con carne, pane e frutta. La loro guida finalmente si presentò.

— Sono Par, Primo Consigliere Militare di Sua Maestà. Ho ordine di farvi rifocillare e portarvi subito al Confine del regno.

Xanar gli lanciò un’occhiata rabbiosa — Non ci fate nemmeno riposare una notte? Siamo reduci da un lungo viaggio.

— Prima inizierete — ribatté l'altro — Prima verrete pagati e potrete tornarvene alla vostra isola. Non siete stati ingaggiati per dormire ma per combattere. Sempre che ne siate capaci.

Era inutile proseguire la discussione con l'azzimato e pomposo consigliere. Valutata la pochezza dell'uomo e tratte le sue conclusioni sulla consistenza dell'esercito del Regno, Xanar si avvicinò ai tavoli, prima che i suoi uomini, affamati, facessero sparire tutto il cibo.

Il banchetto durò solo pochi minuti. Il drappello ripartì assieme a Par per un nuovo viaggio attraverso gli ambienti più disparati. Dopo l'ennesimo portone in legno laccato, questa volta in giallo e cremisi, sbucarono in un enorme corridoio interno, tanto lungo da perdersi in entrambe le direzioni.

Il Primo Consigliere si fermò, spolverandosi la veste con gesti irritati.

 — Ecco il confine del Regno. — disse.

Xanar lo guardò con aria sorpresa — Questo? — esclamò — Ma è un semplice corridoio del palazzo!

Par scosse la testa con disprezzo — Da barbari come voi non ci si può certo aspettare che conoscano qualcosa al di fuori di brutali combattimenti.

Mosse un passo verso l'esterno e iniziò a spiegare con un tono da maestro paziente.

 — Il nostro regno e quello dei Kundar sono contenuti all'interno del Palazzo. Non ci interessano le sterili e polverose distese di terreno esterno. Da sempre combattiamo guerre per ottenere il controllo di porzioni di edificio, fertili cortili o i ricchi pozzi sotterranei.

Quelle due aperture che vedete laggiù sono i Varchi di Confine, una frontiera stabilita duecento anni fa, ma che nessuna delle parti ha mai veramente accettato.

— E il vostro esercito sarebbe dunque…

— Le guardie di palazzo e i soldati visti nei corridoi, ovviamente — rispose Par — Il rapporto di forza con i Kundar è alla pari. Con il vostro aiuto — concluse allegro — ribalteremo le forze in campo. Li respingeremo sino all'Ala dei Ciliegi Brillanti e non sentiremo il loro fetore per almeno venti anni.

Il volto del mercenario si aprì in un sorriso feroce. Con un unico fluido movimento estrasse la spada e disegnò nell'aria una parabola, staccando di netto la testa di Par. Il corpo sussultò spruzzando sangue e crollò a terra con un tonfo sordo mentre la veste scoloriva sino a diventare nera.

 Poi Xanar si girò verso i compagni, immobili in posizione di combattimento. Non ci fu bisogno di parlare. Avevano già compreso tutto.

Entro qualche giorno i due Regni sarebbero stati riuniti e un nuovo sovrano avrebbe dominato, con rigore e ferocia, su tutto il Palazzo di Nebur.