NOVEMBRE 2013

Non c’era buio e non c’era luce. Non c’era nulla eccetto il freddo. Sono morto, pensò Pete, ma naturalmente non lo era. Lo pensava sempre, fin dalla sua prima volta, quando McAllister lo aveva avvisato: “La transizione sembra durare un’eternità.”

L’eternità era venti secondi sul lettore da polso di Pete.

La luce tornò, luce rosa pallido delle dita di un bebè, e allora Pete si ritrovò in un’alba nebbiosa. E restò senza fiato.

Era così bello. Un oceano calmo, piatto e scintillante come il pavimento del Guscio. Una spiaggia di sabbia bianca, irta di dune punteggiate da cespugli di canne. Uccelli volteggiavano in alto. Le loro grida acute e indignate crescevano d’intensità quando uno di loro si tuffava tra le onde e ne usciva con un pesce. Così, semplicemente. Una brezza fresca solleticò il naso di Pete con l’odore del sale.

Questo. Tutto questo. Non era mai atterrato vicino all’oceano, prima, sebbene ne avesse visto delle foto in uno dei libri di Caity. Questo… tutto distrutto dai Tessly, andato per sempre.

Non c’era tempo per il risentimento, nemmeno il risentimento antico diventato gonfio e maturo come le piante di soia alla fattoria. Le istruzioni di McAllister, ripetute incessantemente a tutti loro, echeggiavano nella sua mente. Avete solo dieci minuti. Non vi fermate da nessuna parte.

La sabbia scivolava sotto le sue scarpe e finiva nei buchi. Doveva toglierle, anche se le scarpe erano così difficili da procurarsi. Imprecando, corse goffamente a piedi nudi lungo la spiaggia, il ginocchio debilitato che già gli faceva male e la testa piegata sul collo lungo e sottile, verso la casa isolata che sorgeva dalla nebbia. L’aria fredda gli penetrava nelle gambe e le faceva dolere. Poteva vedere il suo alito.

Sul lettore rimanevano sette minuti.

La casa stava su una piccola cresta rocciosa che si levava dalle dune e si protendeva nell’acqua. Nessuna luce alle finestre. La porta sul retro era chiusa a chiave, ma McAllister aveva montato il loro prezioso laser sul lettore (Se lo perdi, ti ammazzo). Pete tagliò un netto, silenzioso foro, allungò il braccio all’interno e sganciò il chiavistello.

Cinque minuti.

Scale buie. Una luce notturna nel corridoio. Una stanza da letto con due figure addormentate, il braccio di lui gettato sul corpo di lei, la finestra aperta sulla dolce aria della notte. Un’altra stanza da letto singola, la figura sotto le coperte troppo lunga, vestiti non meglio definiti sparsi ovunque sul pavimento. E alla fine del corridoio, una miniera d’oro.

Anzi, due.

Quattro minuti.

Il bebè giaceva sulla schiena, gli occhi chiusi nella testa glabra, la boccuccia rosa che si muoveva persa in qualche sogno. Si era scrollato la coperta a esporre una striscia di pelle impossibilmente liscia tra il pannolino di plastica e la camiciola. Pete impiegò secondi preziosi per slacciare un angolo del pannolino, ma già si era innamorato della piccola creatura implume e sarebbe stato devastato se fosse stato un maschio. Era una bambina. Cautamente la sollevò dalla culla e se la posò su una spalla, tenendola dolorosamente con il braccio deforme. Lei non si svegliò.

Nessun dubbio che l’altra fosse una bambina. Riccioli castano lucido, pigiama rosa con i coniglietti, una bambola stretta nella mano paffuta. Quando Pete allungò la mano verso di lei, si svegliò, sbarrò gli occhi e strillò.

– No! Mami! Papi! Veniiite! No!

Piccola mocciosa!

Pete la afferrò per una mano e la tirò fuori dal lettino basso. Il movimento gli torse il braccio deforme e lui quasi urlò. La bambina resistette, ululando come un uragano. La neonata si svegliò e iniziò a urlare. Dei passi risuonarono in fondo al corridoio.

Novanta secondi.

– McAllister! – urlò Pete, anche se ovviamente non serviva a nulla. McAllister non poteva sentirlo. E dieci minuti erano stabiliti dalla macchina Tesslie, né di più, né di meno. McAllister non poteva affrettare il Prelievo.

I genitori irruppero nella stanza. Pete non poteva lasciare l’una o l’altra bambina. Pete urlò più forte di loro — se solo avessero saputo che l’unica sua vera forza stava nella voce — le parole che Darlene gli aveva insegnato: – Fermi! Ho una bomba!

Si fermarono giusto varcata la soglia della stanza, sbattendo l’una contro l’altro. La madre sbarrò gli occhi: forse per la situazione, forse per Pete. Lui sapeva come doveva sembrargli, un quindicenne deforme con la testa storta.

– Mammaaaaaa! – ululò la ragazzina.

– Bomba! Bomba! – gridò Pete.

Quarantacinque secondi.

Il padre fu un eroe. Balzò in avanti. Pete barcollò di fianco con il suo fagotto umido, ma non mollò la mano della bambina. Il padre la afferrò per la vita e dal lettore di Pete scaturì un raggio laser. L’uomo era in movimento e il raggio lo colse di striscio a un braccio. L’aria sfrigolò di carne bruciata e il padre mollò la bambina.