Il ragazzo aveva guardato attraverso l’azzurro traslucido ma era troppo opaco per vedere alcunché, così si era messo la cordicella aderente al collo, il ciottolo giusto sotto il pomo d’Adamo. Aveva poi fatto un bel nodo e col coltello che si era portato da casa aveva tagliato la parte di spago che avanzava.

Raggiunsero il protettorato di Sodermalm in una settimana di marcia, senza intoppi se non una schermaglia con un gruppetto di sbandati che lui e la sua decina incontrarono in un bosco dove si erano spinti alla ricerca di funghi. Gli imperiali, ragazzi di poco più grandi di loro, erano solo in quattro: se alla vista del ribelle che sbucava dalle fronde avevano subito sguainato le spade e si erano fatti avanti spavaldi, quando si erano resi conto di essere circondati da dieci soldati nemici si erano guardati tra loro e avevano cercato di scappare passando per quello che sembrava il varco migliore, ma erano stati rallentati dai rovi e i ribelli gli erano arrivati addosso e li avevano trafitti con le lance. Uno in particolare non voleva morire e ci erano voluti anche dieci o dodici colpi di lancia prima che smettesse di muoversi.

— ‘Sti imbecilli — aveva detto il capodecina, che era un rubizzo diciottenne con un occhio che andava per conto suo, e aveva sputato sul corpo di quello che non voleva morire. Poi aveva raccolto le corte spade di ferro e li aveva perquisiti, ma non avevano niente se non dodici fennag in tutto e un pezzo di panno con dentro delle bacche di uvaspina. — Prendetegli le scarpe — aveva detto prima che si riavviassero.

A Sodermalm trovarono il campo dove dovevano far base in mobilitazione, tutti erano pronti a un attacco che non poteva tardare ancora: si attendeva solo quell’ultimo, cruciale rinforzo di uomini freschi prima di mollare quello che, stando a quanto disse il cavaliere dall’accento aspro che fece il giro delle tende quella sera, sarebbe potuto essere il colpo decisivo: la piazzaforte di Doldrey era infatti l’ultimo baluardo prima della capitale.

— Non si tratterà di un assedio — spiegò il cavaliere. — Non ancora, ma di intercettare i rinforzi che stanno giungendo da sud, lungo il fiume Mosel. Eliminati loro, sarà sufficiente piantare le tende attorno al forte e quelli usciranno da soli, implorando di far sentire alle loro donne il vigore di un uomo libero.

Tutti risero, sicché anche il ragazzo rise.

Niente avrebbe potuto prepararlo a quello che vide sulla riva del Mosel: già le avvisaglie erano curiose, poiché sulle nuvole sopra il fiume, che ancora non potevano vedere in quanto coperto da un’ultima altura, si rifletteva un inspiegato color arancione, come se vi fosse stato un vasto incendio. Proprio quando stavano per svallare – erano almeno sessanta o settanta decine, le più in tunica azzurra, altre in arancio, e anche due e tre composte di irregolari che si erano aggregati da un villaggio vicino, vestiti di iuta e armati di forconi e asce per la legna – comparve il cavaliere dai capelli d’argento: sembrava sconvolto, perdeva sangue dal lato della fronte e aveva il volto mezzo coperto di una specie di fuliggine:

— Non pensate, attaccate. Non guardate, attaccate. E correte. Il momento è adesso! Darò io l’alalà.

Il cavaliere attese che tutti i sei o settecento soldati fossero sul limite del crinale prima di lanciarli, e lanciare se stesso con loro, all’assalto di quella che sembrava, invero, una compagine abbastanza sparuta di imperiali.

Dall’alto si potevano distinguere bene i gruppetti in nero, che adesso si erano riparati dietro una lunga fila di monoliti, ed erano già circondati da un numero decisamente superiore di uomini in blu, con qualche puntino arancione qua e là. Si vedevano anche diversi imperiali morti vicino ai monoliti, come se già un primo attacco fosse andato a buon fine. Ciò che però rendeva lo scenario allarmante era il fatto che tutto il bosco che fiancheggiava il fiume, fino a sfiorare lo stesso limite delle pietre sacre, era in fiamme, e in fiamme era anche l’erba del crinale là dove era più alta, e pure erano in fiamme alcuni carri; a guardar bene, e tanto più diventava evidente via via che correvano lancia in pugno giù per l’altura, via via che raggiungevano il luogo dove andava concentrandosi lo scontro, si potevano scorgere puntini neri qua e là che non erano tuniche imperiali, ma corpi carbonizzati, circondati da inquietanti aloni di nerofumo. Vi era anche quello di un cavallo, una grossa e orribile massa color pece, che tuttavia, pensò il ragazzo, sotto quello disgustoso dei peli bruciati, emanava anche un vago sentore d’arrosto. Ma non c’era tempo per pensare a simili sciocchezze, giacché il cavaliere dai capelli d’argento aveva gridato di muoversi, e farsi sotto, che il momento era quello, e attendere sarebbe stato fatale, urlava mentre vibrava fendenti nella mischia, e così fece il ragazzo, e trafisse un nemico nella foga, e inciampò, e si rialzò, e perse i suoi scontrandosi con un imperiale già ferito e vide un soldato in azzurro cadere trafitto da una freccia, e corse fino ad aggregarsi a una decina appostata dietro la carcassa fumante di un piccolo edificio, e capì che dovevano essere di quelli che già combattevano lì da qualche ora, perché avevano volti sconvolti e preoccupati e i vestiti bruciacchiati e anche ustioni sul viso e sulle mani e uno piangeva, reggeva l’arco e non smetteva di piangere. Il ragazzo gli mise la mano sulla spalla e disse: — Cosa c’è, calmati, ero sulla collina ho visto bene la situazione, stiamo vincendo, siamo molti di più. — Uno degli altri, un tipo con gli occhi azzurri iniettati di sangue e il naso a becco disse — Ha! — e scrollò il capo come se stesse parlando con un povero mentecatto.