Mi si stampò in volto una smorfia amara. Per quanto ne sapevo, aveva indovinato. Quella puttana di mia madre era scappata con un amico di papà quando ero alle elementari, punto, e se non fosse stato per dei “Ti voglio bene” sussurrati in rare telefonate partite da chissà dove, avrei scordato la sua voce da un pezzo.

Cazzo, ero troppo piccolo per digerire le stronzate degli adulti. A ventitré anni avevo stralciato dal mio vocabolario le parole “mamma” e “famiglia”, anche se di tanto in tanto fantasticavo su come sarebbe andata la mia vita se avessi avuto entrambe: forse non sarei diventato un fallito.

E forse non avrei mai spammato su Internet annunci ridicoli come questo:

“Vuoi un sito web professionale a prezzi VANTAGGIOSI? Chiama Gianluca Fiorillo al 333...” eccetera eccetera.

Wordpress, Blogger, Drupal, Joomla: non c'era piattaforma che non avesse segreti per me. Tutto imparato da autodidatta. Peccato che i clienti fossero una manica di schizzati.

Voglio un blog; no, voglio un sito portfolio; no, facciamo un portale per l'e-commerce; no, aspetti, non mi serve più: mio figlio mi ha aperto il sito su Fessbuc, guardi quant'è bello.”

Confondere una pagina Facebook con un sito web ottimizzato per Google. Perfino il ciuccio del Napoli avrebbe capito la differenza. Ma in quanto a spilorceria non li batteva nessuno.

La Pandora, invece, puzzava di soldi, a cominciare dal vestito a giacca dell'esaminatore, un tizio dagli occhi bovini e un ciuffo di peli sul mento, ramati come le due parentesi di ciocche ondulate che racchiudevano la fronte.

Benché fossi arrivato in ritardo all'appuntamento, mi aveva accolto con una pacca sulla spalla e una energica stretta di mano, neanche avesse incontrato un parente.

Io somigliavo a uno straccio bagnato, gocciolavo litri di sudore. Avevo vagato parecchio prima di individuare l'isola D1, un edificio basso e scuro acquattato fra la banca e la trattoria. Spiccava come il carbone nella spazzatura, la piantina del Centro Direzionale non lo menzionava e nessuno dei passanti era stato capace di indicarmelo.

Ma la parte visibile era solo la punta dell'iceberg: il grosso affondava nel sottosuolo, come una torre capovolta. L'ascensore non ci arrivava, così ero dovuto scendere al parcheggio sotterraneo e proseguire lungo una scaletta che sembrava tuffarsi in un buco nero.

Il labirinto di corridoi apriva su stanze separate, ognuna riservata a un progetto. Niente porte né finestre, solo led giallognoli e facce da nerd con le cuffie nelle orecchie che smanettavano come scimmiette in maniche di camicia battendo i piedi a ritmo.

– Ascoltano musica? – avevo domandato all'esaminatore mentre passavamo davanti.

Lui si era voltato con un sorriso sotto i baffi.

– La assemblano. Un progetto multimediale. Un po' ripetitivo. Anche lento, purtroppo. Ma magari ne riparleremo. Se ci confermerà le aspettative, diventerà il loro supervisore.

– Fico – mi ero detto con l'acquolina in bocca.

Chi se ne fregava se quel posto aveva l'aspetto di un bunker e sapeva di uova marce. Mi sarei venduto l'anima al diavolo, pur di entrare nella squadra.

Il colloquio tecnico era filato liscio, banali domande su Javascript e PHP, finché l'uomo non mi aveva interrotto.

– Facciamo così: mi convinca ad assumerla a parole sue. Di più: mi seduca.

– Io? Sedurre lei?

– Su, avanti. Ci provi.

Preso in contropiede, e col dubbio serpeggiante che il tizio fosse un pochino gay, avevo imbastito un discorso ruffiano su quanto ambissi a lavorare per un’azienda leader del settore – lo erano sempre tutte – per giunta nota da tempo immemorabile – chi la conosceva? – alla quale di rimando offrivo le mie competenze con la devozione di un lecchino, ma, mentre parlavo, l'esaminatore si era sporto verso di me, gomiti sulla scrivania, e le sue pupille si erano messe a navigare nei miei occhi in lungo e in largo, come a cercare un fossile sepolto nella sabbia. Anzi, come a togliermi i vestiti di dosso.

Mi ero sentito a disagio, così avevo distolto lo sguardo impigliandolo nel diagramma di flusso appeso sulla parete a lato: sconnesso e pieno di simboli inusuali, quasi geroglifici. Cosa cazzo c'entravano un gruppo di mouse intorno a una V capovolta, il gheriglio di una noce con sopra un martello, una pompa stilizzata e una bottiglia di spumante, tutti disposti in un ciclo che sfociava in un fungo, per esempio?

– Riconosce questo linguaggio? – mi aveva gelato l'esaminatore indicandomelo con un dito.

– Mmh... UML?

Alla mia risposta data a culo, si era accigliato, poi aveva tentennato il capo come ad annuire.

– Bene, è tutto.

Si era alzato abbottonandosi la giacca e mi aveva accompagnato all'uscita con un allarmante “Le faremo sapere”.

– Fanculo! – ringhiai sbattendo il palmo sul volante come facevo ormai da settimane.