CAPITOLO I

1

– Qui, Mutio! Qui!

Simone udì il richiamo di Thorval, ma non vi badò. Sollevò invece lo sguardo in direzione dell’uomo con l’uniforme porpora di Caeres. Gli veniva incontro con le labbra tirate sui denti gialli, tutto inzaccherato. Mutio tese il corpo in avanti, pronto all’azione. Aspettò che il soldato gli fosse addosso, che allungasse prepotente la gamba verso le sue caviglie. Solo allora si mosse. Fintò a sinistra e scartò repentino nella direzione opposta, scostando col piede la palla foderata di cuoio prima che impattasse la suola dello stivale avversario. Il soldato abboccò, non fece in tempo a stupirsi che Mutio era già alle sue spalle a correre veloce dietro la palla.

– Qui, Mutio! – urlò di nuovo Thorval.

Lui alzò gli occhi senza fermarsi. Vide il Nordico che correva a una decina di passi da lui. Un giovane dai capelli lunghi e neri gli stava addosso e lo strattonava. Thorval cercò di spingerlo via e quasi lo mandò a ruzzolare nel fango. Fissò Mutio senza smettere di correre, in attesa di ricevere la palla.

Mutio escluse subito l’ipotesi. Vedeva ormai vicini i due pali conficcati per terra. Troppo vicini.

Pestò con foga sul terreno scivoloso. Percorse una manciata di metri senza che nessuno lo ostacolasse. Quando tornò a sollevare lo sguardo, la porta era lì che lo aspettava. Si inchiodò d’improvviso: fletté all’indietro la gamba sinistra e, allorché la rilasciò, il collo del suo piede colpì con forza la palla, che ancora rotolava. La vescica avvolta nel cuoio compì una traiettoria tesa nell’aria, diretta verso una delle pertiche di legno. Era ormai sul punto di oltrepassarla quando un braccio enorme si levò a colpirla. La palla sbatté all’altezza del polso. Rimbalzò via, sul lato esterno del palo.

Mutio si piegò sullo stomaco e masticò un’imprecazione a denti stretti. Raddrizzò la schiena per scoccare un’occhiataccia al gigantesco figuro in mezzo alla porta, che aveva ancora il braccio destro teso verso il palo.

Ogre.

La creatura lo gratificò di un feroce ghigno di scherno. L’Alteano sputò a terra. Si era opposto con tutte le forze quando i soldati imperiali avevano proposto di far giocare un ogre mercenario a difesa della propria porta, nel ruolo che l’Alteano era abituato a definire di custode. Lo sguardo torvo dell’ogre in questione, condito da un paio di minacce bofonchiate dai suoi tre metri e passa d’altezza, lo avevano però zittito.

– Facciamo una pausa – propose Nevio alle sue spalle.

Nevio era il mercenario Alteano cui era venuto in mente di organizzare la partita di palla-mischia. Aveva coinvolto con entusiasmo sia Mutio che Thorval nella squadra di soldati della propria bandiera da opporre a una compagine imperiale. Il tempo di conformare le proprie regole a quelle degli avversari stranieri, e le pertiche delle porte erano state piantate. Nell’espressione afflitta di Nevio non restava traccia dell’arroganza ostentata all’inizio della gara. Ansimava con una mano sul fianco e tirava in continuazione su con il naso, da cui colava un rigagnolo di sangue.

Mutio si portò ai bordi del campo. Si asciugò la fronte sudata con l’avambraccio e ripensò stizzito all’intervento con cui l’ogre gli aveva impedito di mettere a segno il punto. Thorval lo avvicinò detergendosi il viso con uno straccio. Guardò Simone negli occhi ma non disse niente; si limitò a superarlo per lasciarsi cadere sull’erba. Mutio scosse la testa. Thorval era un ottimo corridore, discretamente veloce e instancabile. Era anche agile e di sicuro efficace quando si trattava di contrastare fisicamente l’avversario. Ma con la palla ci sapeva fare poco.

Gli manca la pratica, pensò mentre si massaggiava il costato colpito da una gomitata.

Il Nordico afferrò la ghirba ai bordi del campo e se la portò alla bocca per bere. Ne impugnò l’estremità con la mano destra, ma dovette aiutarsi con l’altra per sollevarsela sulla testa. Mutio vide con chiarezza la brutta cicatrice che gli deturpava il polso sinistro. Ormai da qualche settimana Thorval si era tolto le bende dalla ferita. Le dita si erano ristabilite dalla paresi dei primi giorni per giungere a flettersi pressoché del tutto. Ma i tendini recisi dalla roncola nemica non sarebbero tornati a saldarsi, per cui la mano sinistra di Thorval sarebbe sempre rimasta a mezzo servizio.

Anche Mutio si sedette a terra. Si puntellò con le braccia dietro la schiena e sollevò il viso accaldato godendosi il venticello fresco che spirava dalle pianure.

2

Erano trascorse sette settimane da quando le Legioni dei Principati avevano espugnato Rhon. Era stato allora che la guerra si era virtualmente conclusa. L’ormai ex capitale della Repubblica e i difensori che per essa si erano battuti avevano pagato un prezzo oltremodo salato alla furia degli invasori. La maggior parte delle truppe radunate dal Senato per proteggere la città era stata massacrata negli scontri che ne avevano arrossato le strade, quando, grazie al voltafaccia dei Tanzali, prima alleati e poi traditori della Repubblica, le Legioni e le armate di Caeres avevano fatto irruzione all’interno della cinta muraria. I superstiti erano stati costretti a deporre le armi e inchinarsi ai vincitori. Solo una manciata di reparti militari era riuscita a sfuggire alla carneficina sparpagliandosi per la pianura. Alcuni soldati erano andati a ingrossare le bande di partigiani che nelle campagne impegnavano ancora le milizie imperiali in scorribande e piccole scaramucce; altri avevano preferito imboscarsi in attesa di condizioni più favorevoli. I barbari avevano ripiegato in tutta fretta verso le dimore ancestrali nelle Grandi Praterie; i Tanzali che non avevano preso parte al meschino tradimento architettato dal loro condottiero Mosheet avevano trovato riparo a sud, oltre i confini dei propri domini.

Caeres aveva disposto che il governo provvisorio di Rhon fosse affidato agli alti gradi dell’esercito, almeno finché non si fossero realizzate le condizioni per istituire una nuova autorità civile. Le Legioni dei Principati, poco interessate a chi dovesse occuparsi della faccenda, si erano dedicate agli ultimi ostacoli che si frapponevano alla definitiva cessazione delle ostilità.

Lord Etienne d’Averar, Primo Generale di Saëgata e comandante in capo della Prima Legione, aveva stanziato le sue tre divisioni a custodia della città. Le forze partigiane erano troppo malmesse sia dal punto di vista numerico che da quello organizzativo per costituire un serio pericolo: si limitavano ad agire nelle campagne disturbando l’esercito con imboscate sempre più fiacche. I legati di Caeres avevano in progetto di reprimerle una volta per tutte, per il momento tuttavia bisognava restituire nuovo ordine alla capitale in macerie della Repubblica decaduta.

A circa dieci giorni dalla presa di Rhon, lord Dieter Von Keller aveva invece messo la Seconda Legione in marcia in direzione sud. Diecimila riservisti lo attendevano ai margini dei boschi attorno a Isoaile. Il Primo Generale di Kaisersburg si era incaricato di espugnare la città, consorella di Rhon fin dagli albori della Repubblica. Nondimeno, durante l’assedio della capitale, Isoaile aveva scelto di recludersi, spaventata dal diffondersi della peste e dall’implacabilità degli invasori. Non una sola goccia di sangue finì per essere versata tra le strade di Isoaile. Prostrata dalla stessa epidemia cui invano aveva provato a scampare, impossibilitata a opporre una resistenza quantomeno dignitosa alle truppe nemiche, Isoaile aveva offerto a Dieter Von Keller la propria resa incondizionata prima ancora che la Seconda Legione cominciasse a montare i propri macchinari d’assedio.

Anche Rhon piangeva i suoi figli uccisi dalla peste. Il morbo aveva anticipato l’assedio strisciando subdolo tra le case e aveva raggiunto la massima diffusione nelle tre settimane successive alla caduta delle mura. Più di un quarto degli abitanti scampati ai massacri dei saccheggi aveva riempito le fosse comuni scavate in tutta fretta all’esterno del perimetro urbano. Ora i tentacoli dell’epidemia avevano allentato la presa. Si rititavano satolli dalla città, lasciandosi dietro una lunga scia di morte.

Mutio aveva visto le strade riempirsi di cadaveri e al contempo aveva sentito, giorno dopo giorno, i postumi della malattia che quasi lo aveva ucciso due mesi addietro sparire per sempre dal suo corpo. La debolezza si era lentamente attenuata e le energie erano tornate a sostenerlo appieno. Dei giorni di sofferenza trascorsi tra le ombre del lazzaretto nella basilica di Senar non rimaneva che il ricordo annebbiato del buio e dei lamenti dei moribondi. Un ricordo che riviveva negli sguardi allucinati dei derelitti che incrociava lungo le vie di Rhon. La Repubblica era passata tra mille sofferenze, affogata nel suo stesso sangue dalla brutalità del nemico e dalla volontà nefasta del fato: Caeres tornava a piantare le sue insegne su un suolo dilaniato. L’Impero si trovava al cospetto di lunghi mesi, forse anni, di ricostruzione per poter restituire piena vita alla provincia riconquistata.

A Simone non restava che aspettare. Dopo i primi giorni convulsi seguiti alla presa di Rhon, aveva ottenuto il permesso di piantare la tenda al seguito della Quarta Bandiera della Prima Divisione, nella quale era arruolato Thorval, acquartierata fuori della cinta muraria. Lui, Rugni e Moonz si erano così trasferiti ai margini dell’accampamento dei mercenari, dove avevano potuto godere della compagnia del giovane Nordico. In realtà, il mezz’orchetto era più spesso assente che presente. Vagabondava per la maggior parte del tempo in città o nei boschi che la circondavano. La terribile confusione che in quei giorni regnava a Rhon lo rendeva praticamente invisibile agli occhi di chi aveva fin troppi pensieri per dedicargli attenzione: il caos imperante gli permetteva di girovagare in assoluta tranquillità. Inoltre, per le strade si potevano incontrare diversi orchetti, orchi per dirla alla maniera degli imperiali. Moonz, dopotutto, era meno peggio degli altri.

Una sera si era presentato alla tenda accompagnato da un grosso gatto selvatico.

– E quello da dove spunta? – gli aveva chiesto Mutio osservando il felino che si strusciava indolente contro un polpaccio di Moonz, fissandoli con gli occhi gialli e verdi.

– Unghialunga – aveva borbottato il mezz’orchetto.

– Unghiaché? – era sbottato Simone.

– Unghialunga. Si chiama Unghialunga. L’ho trovato nel bosco.

L’Alteano si era avvicinato al gatto, incuriosito. L’animale aveva una pelliccia lunga e arruffata, di un colore bruno sbiadito. In alcuni tratti, sulle zampe e sul muso, i peli si facevano dorati. Striature nere lo segnavano qua e là come increspature. Mutio aveva fatto per allungare una mano per accarezzargli il dorso, ma il gatto si era inarcato sulle zampe posteriori e gli aveva soffiato contro. Aveva sgranato gli occhi brillanti e snudato gli artigli. Simone si era ritirato a sua volta, per nulla ansioso di farsi cavare un occhio da una zampata.

– Socievole, eh? – aveva commentato.

– Per me è giusto buono da fare arrosto. – Rugni aveva sghignazzato in modo inquietante facendo cenno al gatto di avvicinarsi al falò del bivacco. – Vieni, bello, vieni qua che ti diamo un’abbrustolita.

Moonz aveva pericolosamente assottigliato gli occhi sputando parole incomprensibili all’indirizzo del nano. Si era allontanato nell’ombra, e Unghialunga lo aveva seguito. Rugni intanto si sganasciava dalle risate battendosi una mano su un ginocchio.

Da quel giorno Mutio aveva quasi sempre visto il mezz’orchetto in compagnia del gatto. In certe occasioni, Moonz giungeva addirittura a coccolarlo, con un atteggiamento che lasciava l’Alteano un poco perplesso. Ma solo un poco.

3

Simone bevve alla stessa ghirba alla quale si era dissetato Thorval. Si lasciò piovere dell’acqua sulla testa per rinfrescarla. Volse gli occhi a occidente, all’imponente massiccio montuoso che seppelliva l’orizzonte al di là delle mura e degli edifici di Rhon. Lo chiamavano la Muraglia, una dorsale maestosa di picchi frastagliati. Le cime erano incappucciate da neve che il sole, non riuscendo a scioglierla, accendeva di luce dorata. A Mutio facevano tornare in mente le vette della Cordigliera che molto tempo prima aveva valicato per abbandonare la terra natia e rifarsi una vita nelle contrade dei Principati.

Lì è il futuro, pensò, ma…

Deviò lo sguardo verso nord-est, dove la Piana di Ascalon andava a morire, alle pendici delle prime colline in lontananza. Un senso di ansia gli montò nel cuore.

– Vi siete riposati abbastanza? – una voce gracchiante lo distolse dalle sue riflessioni. Un soldato con la divisa imperiale lo fissava dall’alto, mani sui fianchi e sfera di cuoio schiacciata sotto la pianta del piede. – Vi resta fiato per un’altra strapazzata?

Un secondo soldato ridacchiò alle sue spalle, un Tanzalo dalla pelle scura e i baffi neri. Alcuni del suo popolo combattevano come mercenari nelle file imperiali, interessati più all’oro e al bottino che alle alleanze stipulate dai propri governanti. Fatta eccezione per l’ogre – custode – , era lui l’avversario che fino a quel momento aveva messo maggiormente in difficoltà la squadra di Mutio.

L’imperiale colpì la palla con l’interno del piede scagliandola verso Simone, che si stava alzando da terra con una dura replica sulla punta della lingua. Colto di sorpresa, allungò una gamba per bloccare la palla, ma quella gli sbatté contro il ginocchio e rimbalzò via.

– Ach! – sibilò il Tanzalo. Ammiccò derisorio nella sua direzione.

Mutio trotterellò dietro alla palla col cipiglio di chi non vede l’ora di ricacciare in gola sorrisetti sarcastici, ogre o non ogre. Immerso nei suoi propositi di rivalsa, seguì la sfera senza toglierle gli occhi di dosso. Non si accorse quindi che era finita tra le zampe anteriori di un cavallo fino a che non gli fu quasi addosso.

– Un intervento un po’ goffo – disse una voce. – Ritengo tu possa fare di meglio.

Mutio alzò gli occhi, abbastanza attento da cogliere l’insolenza dissimulata dal tono cortese, ma non tanto da riconoscere la voce. Puntò lo sguardo sull’uomo in arcione, con la replica appena ingoiata di nuovo pronta sulle labbra.

– Ma tu che vu… Ah… – fu tutto quello che gli uscì dalla bocca.

– Buona giornata a te, Mutio – lo salutò il cavaliere. Si tolse il cappello infarinato di polvere e se lo portò al petto abbozzando un inchino. – Non avevo intenzione di offenderti, chiedo venia. La tua faccia è imporporata dalla collera.

Mutio fece forza sulla mascella finché gli angoli della bocca spalancata si sollevarono a formare un sorriso sghembo.

– Lothar! – riuscì finalmente a esclamare.

Il cavaliere si calcò il cappello ad ampie falde sulla testa.

– Per servirti – gli sorrise.

– Ho cavalcato in gran fretta percorrendo quasi trecento chilometri in quattro giorni. – Lothar spezzò la pagnotta e se ne infilò un tozzo in bocca; subito dopo strappò un morso di formaggio di capra. Divorò il boccone trangugiando birra da un orcio per aiutarsi a inghiottire il cibo. – Dalle colline di Bruja a Rhon, fame e sete sono state mie compagne fedeli. – Addentò di nuovo il formaggio.

Mutio non faticava a credere alle parole di Lothar. Vedeva la polvere sulla pesante cappa nera ammucchiata assieme a guanti e cappello. Gli alti stivali erano imbrattati di terra e la pelle del viso era striata di lercio sudore. La voracità con cui aveva aggredito il cibo e la birra attestava gli stenti patiti.

– Trecento chilometri in quattro giorni! – esclamò Thorval. – Hai cavalcato veloce come il vento!

– Ha galoppato ventre a terra. – Lothar accennò con il mento al cavallo impastoiato nei pressi.

Simone esaminò con attenzione il suo viso accaldato. Aveva l’impressione che fosse un poco invecchiato. La carnagione pallida, appena abbronzata sulle guance e sulla fronte, sembrava più segnata. Tra i capelli castani, legati con un laccio di cuoio, si vedeva qualche filo grigio che l’Alteano non ricordava di avere mai notato. Nel complesso, il volto pareva più scarno e spigoloso. Una sola cosa non sembrava affatto cambiata: la luce in fondo agli occhi verdi, che anzi era più viva che mai.

– C’è dunque così tanta fretta? – domandò l’Alteano. – E perché sei venuto da solo?

Lothar finì di scolare la birra prima di ribattere.

– La risposta alla prima domanda è: sì, il tempo stringe. E sono venuto qui da solo perché altri urgenti compiti attendono i Fratelli della Luce. – Fece una pausa per squadrare i compagni prima di aggiungere: – È ora di andare, il Re Demonio ha cominciato a sgranchisi le membra nei suoi domini occidentali.

Mutio sospirò. Eccoli al punto che tutti loro sapevano sarebbe giunto. Con ogni probabilità, l’avevano persino atteso con una punta di trepidazione. Non seppe decifrare l’emozione che gli faceva battere forte il cuore.

– Partiremo subito?

Lothar non rispose immediatamente. Incrociò le braccia al petto e si passò la lingua sulle labbra, come valutando la replica da offrire. Infine si decise.

– Partirò subito. Io. Preferirei che voi non mi seguiste.

– Cosa? – sbottò Mutio incredulo.

Rugni si accostò a Lothar, le sopracciglia aggrottate.

– Che stai vaneggiando?

Anche Thorval scosse la testa.

– Ti abbiamo atteso per quasi due mesi. Perché ora dici questo?

Lothar chinò il capo sul grembo, poi lo risollevò di scatto.

– Non impedirò a nessuno di voi di seguirmi, tuttavia il viaggio che sono in procinto d’intraprendere non ha nulla a che vedere con quello che abbiamo condiviso da Lum fin qui. Abbiamo affrontato molte insidie, è vero, abbiamo rischiato infinite volte. Rischiato grosso, spesso. Ma ora… – esitò, – …ora è tutto molto, davvero molto più pericoloso. Valicherò le montagne della Muraglia e attraverserò il deserto fino a raggiungere le terre maledette, ancora più a occidente. La mia meta è la dimora del Re Demonio… – Pronunciò le ultime parole calando inconsciamente di tono. – L’inferno sulla terra.

Un silenzio pesante scese sulla compagnia riunita.

– Quanto la fai tetra! – esclamò Rugni nel tentativo di allentare l’improvvisa tensione.

Il tentativo fallì.

Lothar inspirò una lunga boccata d’aria.

– Non voglio che vi sentiate in dovere di seguirmi. – Levò una mano a bloccare sul nascere l’intervento di Mutio. – Stavolta il pericolo è enorme, più di quanto voi possiate lontanamente immaginare. La mia, – guardò cupo l’Alteano negli occhi, – è una missione quasi disperata. Se è vero che il Destino mi ha scelto per affrontarla, allora vi assicuro che è stato avaro nelle possibilità che mi ha concesso. Non voglio coinvolgervi in una causa tanto rischiosa. Avete tutto da perdere e niente da guadagnare. Io sono il Figlio del Potere, io dovrò contrastare l’entità in cui Kurt Darheim s’è incarnato. Io – un lampo si accese e si spense nei suoi occhi, – sono colui che cerca vendetta.

– Non avevamo nulla da guadagnare neppure seguendoti da questa parte dell’oceano – obiettò Simone duro. – Per quello che mi riguarda, già diversi mesi fa ho messo sul tavolo tutta la posta di cui disponevo, e non ho intenzione di abbandonare la partita a metà.

– Non sai quello che dici, Mutio – ribatté Lothar con stanca insistenza. – Ora l’azzardo è massimo. Hai tutte le probabilità a sfavore in questo finale di partita. Puoi perdere, e puoi perdere nel peggiore dei modi.

Le labbra di Mutio si compressero fino a sbiancare. Un crampo gli mosse la mascella.

– Sarò con te, Lothar, fino alla fine della partita. Arrivato a questo punto, m’impongo di non avere altra scelta.

– Mutio ha ragione, – intervenne Thorval – se gli dèi hanno scelto te come campione, io credo anche che abbiano scelto noi come tuoi gregari.

Rugni annuì con sussiego sporgendo il labbro inferiore.

Lothar si guardò attorno. Mutio, Thorval e Rugni lo squadravano con sguardo deciso, al limite della minaccia. Moonz lo scrutava un poco più lontano. Unghialunga gli girava tra i piedi con movimenti languidi, disinteressato alla diatriba. Sospirò.

– È questa la vostra ultima parola? Sappiate che… – Rinunciò a concludere. – Partiremo domani stesso. Il tempo scorre rapido, e tanta è la strada da percorrere.

Mutio credette di scorgere l’ombra di un sorriso spianare le labbra di Lothar. Sorrise a sua volta.

– E noi la percorreremo.

– Così va meglio! – Rugni sogghignò. – Pensavo di dover crepare di noia tra le macerie di questa città. – Picchiettò il terreno con il manico di Karaka.

– Anche tu verrai? E l’esercito? – chiese Lothar a Thorval.

– La guerra è finita, checché se ne possa dire. La Legione piantonerà la città e i dintorni ancora per settimane in attesa di rimettere in piedi una parvenza di autorità civile. Le battaglie si sono concluse, e io sono un guerriero, la mia spada non è fatta per arrugginire nel fodero.

– Sei pur sempre un coscritto al soldo della Legione – gli fece notare Lothar.

– Ma sono anche un coscritto che dispone di speciali raccomandazioni – sottolineò l’altro. – Parlerò con il Primo Generale e gli chiederò licenza di congedarmi, assieme al compenso che mi spetta come mercenario.

– Verrò anch’io a fare visita a Etienne d’Averar, lo voglio salutare prima di partire.

– È davvero necessaria tanta fretta? – chiese Simone alzandosi in piedi e proiettando la sua ombra su Lothar. – Perché né Mighal né gli altri confratelli ci accompagneranno? Immagino che la loro presenza sarebbe molto preziosa. Credevo… –

– Ho passato quasi due mesi a seguire gli insegnamenti di Mighal e dei Fratelli della Luce riuniti nel monastero sulle colline. Ho appreso tante lezioni in pochi giorni, sebbene la loro intenzione fosse di addestrarmi ancora più a fondo. Purtroppo il tempo si è rivelato più avaro di quanto loro avessero previsto. Di giorno in giorno, la presenza del Re Demonio si è fatta più intensa, giungendo a noi dai recessi dei suoi domini oscuri. A un certo punto i Fratelli hanno avvertito che il suo potere aveva raggiunto livelli allarmanti. Io stesso l’ho sentito. – Si morse inconsapevolmente il labbro inferiore, i suoi occhi vagarono per un attimo sull’orcio tra le gambe. – Non c’è più tempo. Kurt Darheim va distrutto ora, prima che sia troppo tardi. Questo è compito mio. Mighal radunerà i Fratelli e li guiderà a oriente della Muraglia, preparandoli a quello che potrebbe succedere.

– Ovvero? – Mutio soffocò un tremito nella voce, conosceva la risposta.

– Dovranno essere pronti ad affrontare il mio eventuale fallimento, a costituire un ultimo, disperato argine alla completa resurrezione del Re Demonio.

– M-ma… – balbettò Simone. – Ma Mighal disse che se non si fosse riusciti ad annientare Kurt prima che tornasse ad acquisire completamente gli antichi poteri di Ephraim Blaake, nessuno lo avrebbe più potuto fermare.

Lothar sorrise senza allegria.

– Se io fallirò, probabilmente tutto sarà perduto, ma loro lotteranno comunque. Fa parte della loro vocazione.

Mutio barcollò per un improvviso giramento di testa. La piena consapevolezza delle responsabilità che lui stesso, seguendo Lothar, finiva con l’addossarsi lo sfiorò per la prima volta e quasi lo sopraffece. Quasi. Anche lui sceglieva di seguire la sua – vocazione – . Forse quello era il termine adatto a qualificare la pazzia che lo aveva trascinato via da Lum. Non aiutava molto a spiegarla – se davvero si può spiegare la pazzia – ma almeno gli attribuiva un nome. Vocazione. Bizzarra e inopportuna, ma vocazione.

Un drappello di soldati marciò vicino alla loro tenda. Una nuvola di polvere sollevata dallo sbattere cadenzato degli stivali prese a turbinare attorno alle armature lucenti e allo stendardo grigio e ocra che raffigurava la testa di un lupo ringhiante. I Lupi Grigi di Kaisersburg.

Mutio ne seguì l’avanzata smarrito nei suoi pensieri fino a che non scomparvero nel cuore dell’accampamento.

– …domattina, il più presto possibile, dopo aver fatto scorta di provviste – stava dicendo Lothar a Thorval. – Parleremo anche di questo con Etienne. Non credo ci negherà un aiuto.

– Lothar! – chiamò all’improvviso Simone. Lothar si voltò nella sua direzione. – Prima di cominciare a pianificare il viaggio avrei una domanda da farti.

Lothar nascose la propria perplessità.

– Ti ascolto.

Mutio si infilò le mani nelle tasche dei calzoni e dischiuse le labbra in un sorriso obliquo.

– Di’ un po’, come te la cavi con una palla tra i piedi?

4

Simone ricevette la palla da Nevio. La bloccò con il petto e se la lasciò cadere tra i piedi. Si girò lesto, pronto a schivare l’assalto di un paio di avversari, ma si avvide di non avere nessuno nelle immediate vicinanze. Un uomo correva in tutta fretta nella sua direzione, lui però disponeva di spazio per avanzare. Colpì la palla senza troppa forza e partì. Tagliò in obliquo per il centro del campo, raggiunse uno dei confini laterali, si affrettò a guadagnare più terreno possibile prima che l’avversario che lo puntava giungesse a contrastarlo.

Quel mattino Mutio si era destato a denti stretti a causa dell’intorpidimento alla coscia destra, quello che a periodi tornava a tormentargli la vecchia ferita da freccia inflittagli dalla Polizia di lord Helmut Von König a Lum. Le fitte si erano intensificate durante la partita contro i soldati imperiali e gli avevano impedito di giocare al meglio delle sue possibilità. In quel momento tuttavia il dolore era un’ombra appena percepita dal cervello. L’entusiasmo pervadeva come un balsamo ogni fibra del suo corpo, e lui si sentiva ringiovanito di dieci anni. La sua mente era tornata a quando, bambino, correva per le bancarelle del mercato portuale di Amor con una palla di stracci cuciti tra i piedi, schivando agile avventori e venditori insieme alla frotta di giovani amici, sfuggendo alle mani e alle imprecazioni di quelli che si vedevano rovesciare per incidente casse di pesce o gerle di frutta.

Colse un movimento alla sua destra con la coda dell’occhio. L’avversario lo aveva raggiunto e si preparava a intralciarlo. Accelerò per superare gli ultimi metri liberi e si inchiodò bruscamente che l’altro gli era vicinissimo. Lo attese immobile e, quando questi compì l’ultima falcata prima di piombargli addosso, lui colpì forte la palla con il piatto del piede. La sfera passò tra le gambe dell’imperiale esterrefatto mentre Mutio si scansava per evitare di essere travolto. La palla di cuoio rotolò lontano dal limitare del campo, verso la porta avversaria, e cambiò repentinamente traiettoria allorché, sopraggiunto a tutta velocità dalla direzione opposta, Lothar la agganciò con un piede e se la trascinò dietro senza fermarsi.

Mutio sorrise tra sé, soddisfatto per aver intuito la mossa del compagno. Seguì la sua corsa mantenendosi defilato, nel caso avesse bisogno di aiuto. Due soli uomini sbarravano la strada a Lothar: il giovane imperiale dai capelli neri e il Tanzalo mercenario. Lothar puntò diritto verso il primo senza cercare di aggirarlo. Quello non si fece pregare e gli corse incontro deciso a fermarlo. Lothar avanzò come se neanche lo vedesse fino a che non gli fu praticamente addosso. Solo allora rallentò: le sue grosse spalle si incurvarono, le ginocchia si piegarono. Eseguendo il movimento con rapidità sorprendente, fermò la palla sotto la suola dello stivale sinistro e, colpendola di lato con il tacco, la tolse dalla traiettoria della punta del piede dell’altro, che tentava di calciarla via. Piroettò fino a scivolargli alle spalle. Il giovane ringhiò innervosito dall’apparente facilità con cui era stato eluso. Attaccò ancora nel tentativo di uncinare con il piede sia la palla sia la caviglia dell’altro. Le gambe di Lothar saettarono veloci, i piedi compirono un doppio giro attorno alla palla, quasi accarezzandone la superficie. Scartò all’improvviso, e questa volta la finta sbilanciò l’avversario. L’imperiale arrancò per mantenere l’equilibrio e quando ci riuscì provò a lanciarsi all’inseguimento di Lothar, che intanto lo aveva sorpassato.

Mutio seguì ammirato l’azione del compagno e per l’ennesima volta non poté fare a meno di stupirsi di come un fisico tanto massiccio potesse muoversi con tale sveltezza e agilità. Lothar, nonostante l’impiccio della palla tra i piedi, seminò il giovane soldato distanziandolo di una dozzina di metri. Subito però il secondo avversario, il Tanzalo dalla pelle scura, gli si parò dinanzi. Questa volta Lothar deviò la corsa con un’accelerazione improvvisa per provare a superarlo in velocità. Il mercenario dimostrò subito di essere altrettanto rapido e gli si appiccicò alle costole. Lothar evitò i suoi tentativi di scippargli la palla spintonandolo con veemenza. Il Tanzalo cercava di spingerlo verso il bordo laterale del campo, decentrandolo rispetto alla porta. Lothar, consapevole della mossa, provò ad aumentare la velocità della corsa nonostante avesse già percorso quasi metà della lunghezza del campo. Il mercenario si vide superato quando ormai era sicuro di poter arrestare l’avanzata di Lothar: gli artigliò allora la camicia nel mezzo della schiena con tanta violenza da tirargliela fuori delle brache. Lothar perse l’equilibrio e barcollò. L’altro, vedendolo in difficoltà, tirò con forza ancora maggiore.

– Dalla qua!

Mutio sopraggiunse di corsa. Lothar vacillò sulle ginocchia piegate, ma non cadde. Allontanò con un calcio la palla e assestò una gomitata al fegato del mercenario. La bocca del Tanzalo si raggricciò in un cerchietto umido tra i baffi neri. L’uomo mollò la presa sulla camicia e si rattrappì sullo stomaco. La sua corsa perse vigore ma non si interruppe. Allora Lothar gli premette una mano sul viso e lo spinse via. Il mercenario rotolò nel fango senza neppure il fiato per gridare.

Lothar recuperò la palla e si fermò un attimo per guardarsi attorno. Simone si appropinquava alla sua sinistra e nessun avversario sembrava abbastanza vicino da poterlo impensierire. Recuperò ossigeno ansimando prima di lanciarsi nelle ultime falcate che lo separavano dalla porta. Raggiunse una distanza buona per provare il tiro ma non si arrestò. Proseguì a testa bassa, con i capelli sudati che svolazzavano. Un’ombra enorme lo ingoiò nel momento in cui l’ogre si stagliò ghignante su di lui. Lothar era dotato di una muscolatura considerevole ed era ben più alto della maggior parte degli uomini, eppure il suo capo arrivava a malapena al petto gigantesco della creatura. Visti appaiati facevano pensare a un padre nerboruto con il figlioletto segalino; l’ogre dava l’impressione di potergli spezzare la schiena a mani nude.

Mutio rallentò senza rendersene conto, di colpo preoccupato per il compagno. L’ogre spalancò le braccia a croce, come pronto a calarle sull’omuncolo intenzionato a superarlo. Lothar si fermò appena prima di arrivare a portata della sua mano. Caricò il tiro, ma da quella distanza la palla avrebbe con ogni probabilità finito per rimbalzare sul corpo dell’ogre. Il piede calò violento, ma una frazione di secondo prima di impattare la palla si bloccò. L’ogre, che si era piegato sulle gambe pronto a ricevere il tiro, rilassò di riflesso i muscoli delle cosce. Ondeggiò come un ubriaco divaricando la mascella sporgente in un’espressione di stolido sbigottimento. Lothar finse di muoversi a destra e scartò fulmineo dalla parte opposta trascinando la palla con l’interno del piede. La creatura, poderosa nel fisico ma lenta di riflessi, abboccò alla mossa e scivolò sul terreno viscido. Crollò con un tonfo sulle terga. Lothar la aggirò e si preparò a depositare la palla tra i due pali incustoditi. Tuttavia commise un errore di valutazione: l’ogre si torse e allungò un braccio per impedirgli di tirare. Il pugno arrivò a colpirgli di striscio il braccio destro, ma tanto bastò a scaraventarlo per terra. Piombando sulle ginocchia, Lothar provò a colpire alla disperata la palla ferma un paio di metri al di qua del solco scavato tra le pertiche di legno. Il suo piede centrò in malo modo la sfera, che si impennò nella direzione sbagliata.

– È mia! – ringhiò Mutio mentre si scagliava contro la porta con un sorriso di avida pregustazione allargato sotto il naso. Spiccò un balzo fino alla palla che roteava in aria, i gomiti spinti dietro la schiena e la testa inclinata di lato. Rilasciò i muscoli del collo e la colpì con quanta più forza poté con un angolo della fronte. La palla superò lo spazio tra i pali e rotolò sull’erba sparuta. Simone ricadde giù e, sotto lo slancio del salto, giunse quasi a toccare terra con le ginocchia. Caracollò in modo sgraziato, ma evitò di finire con la faccia nel fango.

– Punto! – ruggì con le braccia al cielo. Si voltò a mostrare un pugno orgoglioso ai compagni di squadra, che accorrevano esultanti. Solo dopo una manciata di secondi di ebbro trionfo smise di gongolare e si ricordò di Lothar.

L’uomo si rimetteva in piedi a fatica. Si reggeva il gomito destro. Il fango sul viso esaltava ancor più la sua smorfia sofferente.

– Una spanna più vicino, – Lothar sputò terra insieme alle parole, – e mi frantumava il braccio.

– Punto.

Mutio protese il pugno verso di lui. Le labbra di Lothar si contorsero in un mezzo sorriso sofferente.

– Mi devi un favore, Alteano.

– Anche due. – Simone ammiccò raggiante. – Anche due, compare.