Bastò solo qualche pugno ben piazzato per fare parlare l’uomo grasso, legato nudo a una sedia.

— Zisa…

Quello legato accanto a lui non aveva proferito parola. Era più anziano, con il fisico asciutto e nodoso, il volto tumefatto.

In una città di mare c’era una volta un Castello. La città si chiamava Panormo, che voleva dire ‘tutto porto’ e, nonostante il mare, d’estate faceva molto caldo. Il Re volle che il castello dove dimorava d’estate fosse bello e sontuoso, ma anche fresco. Le stanze erano piene di finestre che facevano passare l’aria; il giardino che lo circondava era pieno di fontane nelle quali l’acqua dei tanti fiumi della città scorreva cristallina. E il giardino era pieno di piante e fiori profumati.

La dimora venne chiamata con un nome antico ‘Al-Aziza’ che in arabo significa ‘la profumata’.

Ora tutti la chiamano la Zisa (1).

25 agosto 1982

L’automobile, proveniente da Piazza Principe di Camporeale, aveva percorso via Guglielmo il Buono. Il guidatore la parcheggiò davanti al cancello di un cantiere. Una recinzione di lamiera ondulata nascondeva alla vista quelli che una volta erano i giardini del Castello della Zisa. Un cartello indicava che erano in corso i lavori di restauro. Conteneva le solite informazioni sulla ditta di appalto, su chi fosse il capo cantiere, sul termine presunto dei lavori. Il cantiere era deserto; del resto anche la città era semideserta in quel pomeriggio.

I due uomini avanzarono verso il Castello, passando vicino ad ampie aiuole e fontane. Da tanti anni l’acqua non scorreva nelle fontane. Le aiuole erano aride e piene di sterpi.

Uno dei due guardò le aiuole e pensò che sarebbe bastata l’acqua e un poco di lavoro per riprendere il giardino. Avrebbero potuto esserci fiori, ma anche qualche ortaggio e un albero di fichi. Tra poco sarebbe stato tempo di fichi.

Secoli prima erano i normanni che si godevano quel giardino. Fu Guglielmo I, detto ‘il Malo’ a iniziarne la costruzione, poi completata dal figlio Guglielmo II, ‘il Buono’.

Appena entrati nell’atrio del Castello i due uomini furono investiti da un’ondata di frescura. Le spesse mura isolavano dalla canicola, mentre le tante finestre favorivano il movimento dell’aria nel palazzo. Dentro l’atrio i due trovarono sacchi di cemento, una betoniera, materiale di risulta. C’era anche qualche ponteggio montato. Il cantiere era deserto. Non era un giorno di lavoro, e non solo perché era un pomeriggio di agosto, pur se di mercoledì.

Il cantiere era fermo. Da qualche mese non entravano gli operai. Come sempre non era mai chiaro perché certi cantieri chiudessero, o venissero sospesi d’improvviso. Ma ai due questo non interessava.

Si divisero senza una parola. Esplorarono muti le stanze del piano terra.

In una stanza Tano vide quella che una volta doveva essere stata una fontana. Anche quella era asciutta come tutte le altre. C’era anche materiale del cantiere, attrezzature posate a caso. Sotto un mucchio di tubi per ponteggio scorse una borsa rossa.

Chiamò il compare, che arrivò quasi subito.

—  La apriamo?

— Nca certo.

— Ccà sunnu i dollari, talìa!

Tanti dollari, ma i due non si scomposero. Ne hanno visti di dollari. Ne hanno contato a iosa.

— Vado a telefonare. Aspetta dduoco.

Il più basso dei due uscì dal cantiere. Riattraversò il giardino abbandonato e raggiunse la più vicina cabina telefonica.

— Cca’ sunnu.

L’uomo dall’altra parte dell’apparecchio non disse una parola. La stanza dove si trovava era buia. Riattaccò il telefono e alzò semplicemente la mano.

Al suo cenno i due uomini legati alle sedie vennero sgozzati.

Tano tornò da Raffaele.

— Soccu ti dissero?

— Niente, ora li cunto.

Mentre l’uomo contava i soldi, le figure di un affresco dipinto nell’intradosso dell’arco di ingresso alla sala sembravano muoversi.

Tano percepì qualcosa: era un picciotto svelto lui, abituato a scappare, a fuggire con rapidità. Ma non vide nessuno, e non sentì in realtà alcun rumore.

Alzò lo sguardo. I diavoli dipinti restarono indifferenti.

Tano tornò a concentrarsi sul denaro. Aveva il suo da fare.

—  Novecentosettemilaquattrocentocinquantasette dollari…

— Tano, sì sicuro?

— Sì, Raffaè! Li cuntai!

— Buono. Per stare sicuro li cunto pure io.

Raffaele non era meno avvezzo di Tano a contare mazzette di denaro. Dollari, lire, non c’era differenza.

Un altro diavolo sul dipinto sembrò agitarsi.

Anche Raffaele guardò verso la volta. Le figure dipinte erano immobili. Alcune erano più piccole delle altre. Sembravano danzare. Difficile contarle. Tredici, quattordici? Un battito di ciglia e gli sembrò che uno dei diavoli fosse sparito. No, era lì dietro. Ma che minchia…! Meglio tornare a contare i soldi.

— Finisti? Non mi piace stare duoco. Chi lario posto.

— Tano, calmati, ca finisco ri cuntare a munita.

— Novecentonovantamiladuecentottandue dollari. Ti sbagghiasti.

— Ma chi dici, Raffaè, sicuro? Ci fici attenzione!

— Ti dico ca’ sbagghiasti!

Tano e Raffaele incrociarono gli sguardi.

Fu Raffaele a rompere l’imbarazzato silenzio.

— Cuntali di nuovo s’un ti fidi.

— Cuntamoli tutt’e due ca è megghio.

E lentamente si misero a contare il denaro, estraendo le mazzette dalla borsa e ammonticchiandole a lato.

Un soffio di vento li distrasse. Tano afferrò al volo alcune banconote senza fascetta, prima che volassero fuori.

— Ma che schifiu ri currente. Raffaè, cuntamoli da un’avutra banna.

La corrente sbarrò la porta davanti a loro.

Un forte rumore di lamiere provenne dalla stanza accanto.

— Ma chi minchia…!

Raffaele si alzò, interrompendo il conteggio.

Appoggiò la mano alla porta: faceva resistenza all’apertura.

— Chi cumbinasti, Tano?

— Io? A curriente fu! Gràpemo, va!

— Allestemuni. Finiemo ri cuntare prima!

Raffaele estrasse la pistola e la puntò verso Tano.

— Esagerato! Stai buono. Cuntamo, va.

Ricominciarono l’operazione. Con più velocità.

—  Novecentoottantamilatrecentocinquantasette dollari.

—  Ma chi camurria! U sai soccu ti dico, Raffaè: portamo i piccioli a ’u curtu e chi sinni futti.

— Si tu ca vu futtere a mia, Tano.

Estrassero la pistola in contemporanea, ma non spararono.

— Raffaè, ma che minchia fai! ’Un pigghiai i piccioli, fidati, bottana eva!

— Fammi vedere le tasche, curnuto!

— Raffaè, stai buono ca stai sbagghiando.

— No, sì tu ca sbagghi. Se ca ti vuoi futtere i dollari du curtu!

— Ma che minchia dici…

— Fammi vedere le tasche.

— Curnutu tu e tutta a to’ razza. Un ti fazzo viriri nienti!

Nessuno dei due abbozzò un tentennamento. Nessuno dei due sembrò distogliere lo sguardo dall’altro.

Un colpo di vento scosse la porta. Qualche banconota volò.

I due rimasero immobili a scrutarsi.

Non poterono fare a meno di guardare sopra di loro. I diavoli sembravano essersi spostati. Si guardarono di nuovo. Riguardarono sopra. No, non poteva essere. I diavoli non si stavano muovendo, tutte minchiate.

— Raffaè, andiamo! Non li ho presi io i piccioli! Li vidi i diavoli dda supra?

— Che furono iddi a futtirisi i piccioli? Ma ’un diri minchiate, Tano!

Si mosse appena e quello fu il suo errore.

Il Pubblico Ministero guardò in sequenza il commissario e il medico legale annuendo.

— Attendiamo l’esito delle autopsie e delle perizie balistiche per ulteriore conferma, ma la dinamica è chiara. Questi due si sono ammazzati a vicenda per il denaro.

I tre non si dissero altro. Il giovane agente di scorta, seguendo il magistrato alzò lo sguardo sul tetto. Per un attimo gli sembrò che uno dei diavoli dipinti sulla volta gli schiacciasse l’occhio. Batté le palpebre. Ma che…? Il diavolo era immobile.

Come dovrebbe esserlo un dipinto.

Il Castello fu costruito al tempo dei pagani, e vi si custodivano i tesori del Re. All’entrata della Zisa ci sono dipinti dei diavoli. Chi va a guardarli nel giorno della festa dell’Annunziata (25 di marzo) vede che essi muovono la coda, storcono la bocca, e non si finisce mai di contarli. C’è chi dice siano tredici, chi quindici, chi di più.

Sono diavoli, e appunto per questo non si fanno mai contare. Anche le monete non si sa quante siano e nessuno è mai riuscito a prenderle. Ma un giorno forse qualcuno riuscirà a sciogliere l’incantesimo e allora finirà tutta la miseria di Palermo.

È per questo che, quando una cosa non si può sapere con esattezza, si dice:

— E chi su: li diavuli di La Zisa? (1)

© Emanuele Manco