Baker Dill (Matthew McConaughey) è un uomo ossessionato, un pescatore alla ricerca di un mitico super pesce che gli sfugge da anni, chiamato Justice. Sulla sua imbarcazione, la Serenity, scarrozza turisti, pescatori delle domenica in cerca di emozioni, aiutato dal fido Duke (Djimon Hounsou). Ma Baker è anche un uomo con un passato misterioso alle spalle, che emerge improvvisamente quando l’ex moglie Karen (Anne Hathaway) si presenta a lui con una richiesta esplicita: uccidere il suo nuovo marito, Frank Zariakas (Jason Clarke), uomo ricco e potente ma psicopatico, che tormenta lei e il figlio di Baker, Patrick (Rafael Sayegh).

Serenity
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Baker vive in una piccola isola, Plymouth, bene inserito in una comunità in cui tutti sanno di tutti e nessun segreto sembra tale, e ben voluto da tutti, in particolare dalla bella Constance (Diane Lane).

Tentato dall’offerta di Karen, che in cambio del delitto gli offre dieci milioni di dollari, Baker sarà combattuto tra l’accettare oppure dedicarsi solo alla sua ossessione per la pesca. L’intera comunità di Plymouth cercherà di aiutarlo a prendere la giusta decisione, ma le pulsioni di Baker a un certo punto diventeranno irrefrenabili, finché il conflitto non si trasformerà in qualcosa di altro: una ricerca di una verità nascosta, ben celata tra le pieghe della sua stessa esistenza.

Serenity
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Serenity – L’isola dell’inganno, scritto e diretto da Steven Knight (Locke), inizia come il peggiore e stereotipato dei thriller, rifacendosi sia a modelli classici dell’hard-boiled, sia alla versione porno soft che ha fatto cassa per un breve periodo negli anni ‘90, con film come Basic Instinct ed epigoni.

Curato e patinato nella confezione, non si fa mancare nulla: un protagonista tormentato, una dark lady palesemente ingannatrice, un cattivo sadico oltre ogni limite, l’amico che mette in guardia il protagonista, l’amante dal cuore d’oro che si strugge nel vedere il suo amato raggirato dalla perfida lady come un babbeo. Alla miscela si aggiungono un tocco di Hemingway, un po’ di Melville e… un elemento x che irrompe più o meno a metà del terzo atto, con l’intenzione di scompaginare tutto e mettere tutto in discussione.

Serenity
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Knight ha l’ambizione di costruire un film che annulli qualsiasi confine tra i generi, costruendo una vicenda nella quale i topoi narrativi hanno il solo scopo di raccontare la storia di una ricerca di senso e significato della propria vita del protagonista.

Siamo veramente padroni del nostro destino? Esiste il libero arbitrio?

A queste domande non viene data una risposta universale, ma funzionale ai personaggi messi in scena, al mondo narrativo nel quale sono immersi.

Serenity
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La costruzione, ambiziosa e curata nei dettagli scenici, scricchiola quando si accostano i singoli elementi. Il repentino cambio di prospettiva non appare sufficientemente preparato, e l’insieme quindi risulta disarmonico.

Il naufragio di Serenity non è totale, ma il risultato complessivo non riesce a essere all’altezza delle ambizioni.

Serenity
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Il finale, opera una scelta di campo che vuole essere chiara e risolutiva, ma lascia in realtà insoddisfatti perché a questo punto sarebbe stato preferibile lasciare lo spettatore in quel limbo di incertezza che rende interessante un’opera, proprio perché suscettibile di interpretazioni. La scelta didascalica, il famigerato “spiegone”, delude perché in realtà rivela i limiti di una costruzione narrativa nella quale non tutti i pezzi sono bene incastrati.