PROLOGO

L’uomo ha paura.

È acquattato fra le rocce, le mani tremanti strette intorno all’arco. Di tanto in tanto lo tende, prova a prendere la mira, a immaginarsi da dove spunterà fuori il suo bersaglio, se potrà centrarlo da quella posizione, se dovrà attendere che si avvicini, o rischiare di uscire allo scoperto.

La stretta è malferma. La mira incerta. Troppe domande senza risposta, troppi grandiosi prodigi senza precedenti e senza spiegazioni. Ha udito grida che nulla hanno di umano, ha visto incombere luci e giganteschi volti spettrali delineati nell’aria, ha assistito al cambiare dei colori del cielo, fino a un verde innaturale e pulsante come un corpo sventrato. Prima ancora, aveva visto all’opera i poteri inauditi di colui che solo era andato ad affrontare tutto questo. Un essere quasi divino.

Può il suo debole e fragile arco essere abbastanza? Lo tende, lo rilascia, prova a incoccare la freccia. Ma il tremito non cessa. Non crede che armi umane possano qualcosa contro forze e poteri oscuri.

Eppure l’uomo non è un novellino, è un veterano della guardia, che ha visto molte cruente battaglie ed è sopravvissuto, portandone ancora le cicatrici. Del resto erano stati scelti i migliori elementi, per quella missione troppo importante. Ma esiste un limite per chiunque, un punto di non ritorno anche per i più duri, e quel limite è stato infranto troppe volte, in un lasso di tempo troppo breve. È come se l’istinto di guerra gridasse dentro di lui, per suggerirgli che quel giorno sarà anche il suo ultimo giorno.

Si rannicchia sempre di più, cerca di rendersi invisibile. È difficile: in quella scarpata arida e brulla la vegetazione della foresta alle spalle non è che lontano ricordo, non esiste altro se non qualche spuntone di roccia contorto, nero a monte, di una strana fuliggine non nata da fuoco, viscido e grigio a valle, ricoperto da una muffa nauseabonda, frutto dei vapori della piana maledetta.

I vapori, l’odore di morte e disperazione, penetrano le narici e la stessa pelle, entrano dentro come dita gelide e scarne, aprendosi la strada fino a strangolare l’anima. Se è possibile che semplicemente respirare porti alla pazzia, ebbene, questo potrebbe essere il caso. Potrebbe essere che il soldato non resista ancora a lungo.

Né gli è di alcun conforto sapere di non essere solo.  Quei pochi chiamati alla parte più segreta, estrema della missione, quelli rimasti a sorvegliare il luogo dopo che il resto del contingente è rientrato, si contano sulle dita di una mano, e non sono visibili né contattabili al momento.

Li immagina rintanati a poca distanza e forse impauriti quanto lui dall’enormità del compito, se possiedono anche solo un briciolo del dono dell’immaginazione.

L’aria ferma schiaccia, annienta, fa boccheggiare in cerca del respiro, eppure lui si augura che non si levi di nuovo il vento malefico, perché a ogni soffio è una nuova ondata di morte, un nuovo ghigno beffardo di disperazione.

Poi, improvvisamente, l’evento temuto e spasmodicamente atteso accade: una figura umana emerge lentamente dalla nebbia fetida della valle.

Barcolla, cade in ginocchio, si rialza. 

Sarà debole, si dice l’uomo appostato, per rassicurarsi. Forse i poteri che si sono manifestati e che ha dovuto padroneggiare sono una mostruosità soverchiante, persino per quello strano essere.

Per un attimo si fa strada un debole filo di speranza, le mani non tremano più, subentra la concentrazione del soldato, un nuovo senso di sicurezza. È umano, dopotutto, si ripete. È una creatura vivente, non un’entità soprannaturale.

Stringe gli occhi, per osservare il bersaglio, accertarsi che sia lo stesso uomo che aveva visto addentrarsi nella piana.

Lo è. Con calma, accentuando la precisione e la consuetudine dei gesti, incocca la freccia, tende l’arco a metà, quel tanto che basta a non stancare i muscoli prima del tempo, prende la mira e valuta, con tutta la freddezza di cui è capace, direzione e gittata.

L’uomo uscito dalla nebbia si sta muovendo nella sua direzione, sta per raggiungere un abbozzo di sentiero semicancellato che corre fra le rocce.

È lontano. Con calma. Aspettare ancora.

Si ode un sibilo.

No! Troppo presto!  Ora il soldato è di nuovo preda dell’agitazione: qualcuno dei suoi compagni ha tirato, sbagliando, forse per la distanza, il nervosismo, forse perché proprio in quel momento il bersaglio si è mosso bruscamente.

Lo hanno messo sull’avviso, non si riuscirà più a sorprenderlo. La sorpresa era l’unica speranza che avessero.  Per quel che il soldato riesce a valutare, lo sguardo dell’essere non è più annebbiato, appare guardingo e attento.

Altre due frecce sibilano, una dopo l’altra.  Entrambe passano sopra la testa della figura uscita dalla piana.

No! Non ci sarà tempo per un secondo tiro, non ce lo darà, il tempo… Abbiamo una sola occasione, non va sprecata.

Una sorta di ringhio sordo, minaccioso, esce dalla gola dell’essere, quasi fosse un animale. Avanza più rapido, ora, e cammina a zig zag per sfuggire alle traiettorie, cercando di individuare i nemici.

Può scatenare le sue forze distruttive, o è ancora troppo stanco, ha esaurito i poteri nella lotta precedente? Non c’è tempo di scoprirlo.

Il soldato respira a fondo una volta, due volte, socchiude gli occhi.  È il migliore tiratore della sua compagnia, non può fallire.

L’arco si tende, si tende… la freccia parte sibilando.  Un urlo belluino è la risposta. L’essere si inarca, il volto rabbioso verso il cielo. La piuma della freccia spunta dalla sua spalla destra.

Non è una ferita mortale, pensa il soldato in preda al terrore. Non cadrà tanto presto. Speriamo il veleno faccia effetto rapidamente, oppure…

Lo scoprono ben presto, cosa voglia dire quell’ oppure. Un vortice sorto dal nulla fa scudo al ferito, rimbalza altre frecce lanciate all’impazzata.

Il soldato, contrariamente ai suoi compagni resi folli dalla paura, non prova neppure a tirare ancora.  Serve solo a guidare l’essere, a fargli individuare i loro nascondigli. Butta l’arco e si mette a correre come un pazzo verso la foresta, dal lato opposto a quello dove la creatura sta dirigendo il suo attacco.

Il vortice cresce di intensità, si carica di sassi aguzzi, sabbia nera, rametti della vicina foresta. E acqua.  Ma l’acqua di cui si nutre non è di nuvola o di fiume, non è di fonte: è la stessa nebbia maledetta condensata in mefitiche gocce. È una bufera di follia e dannazione, quella che investe i suoi compagni, insieme con gli oggetti trascinati dal vortice, che colpiscono e dilaniano con forza spaventosa.

Sentendo arrivare il turbine alle spalle, comprendendo che è più veloce di quanto lui possa correre, il soldato trova una roccia dietro cui ripararsi, rannicchiarsi, la testa fra le mani.

L’impatto è appena attenuato. Le mani, il corpo sono piagati, la mente invasa dai fumi della pazzia.

E la sua direzione cambia. Non fugge più. Lentamente, spasmodicamente, trascinandosi per terra, artigliando il terreno con le mani, va verso la piana maledetta. Deve seguire quell’impulso, più forte del dolore e delle ferite. Altre se ne aggiungono, quando il corpo già martoriato striscia contro il terreno.

Una lunga scia di sangue è alle sue spalle.  Altre sono poco più avanti: i suoi tre compagni, ancora meno fortunati di lui, uno ridotto al solo tronco, un altro con una gamba che penzola quasi strappata, il terzo senza braccia, che ondeggia come un verme per avanzare, tutti, tutti stanno andando alla pianura.

Il soldato non lo sa, ma anche i suoi occhi stanno diventando vacui, bianchi, spenti come i loro. Ancora un barlume di ragione lo sostiene, non sufficiente a fargli interrompere lo strazio di quello strisciare, ma abbastanza per fargliene comprendere tutto l’orrore.

Ora l’essere si è accorto di lui, incombe su di lui, lo guarda fisso.  Non c’è più paura, il soldato è già oltre quel terrore, ne sta conoscendo uno peggiore. Peggiore della morte stessa.

Sempre fissandolo, l’essere afferra con la mano sinistra la freccia che sporge, stringe forte, serra i denti, strappa. La carne si lacera, la freccia esce intera, dallo squarcio nessun fiotto, solo poco sangue nerastro. Nessun urlo, gemito, neppure una smorfia di dolore su quel volto, nessuna ombra in quegli occhi così chiari ed estranei.

L’essere si avvicina, lo solleva senza sforzo con la mano insanguinata.  Ripete una domanda, un’altra, più e più volte, come non fosse sicuro di essere capito.

Alla fine, parlando con fatica quasi non ne fosse più in grado, il soldato viola la consegna del segreto. Gli è rimasta una piccola, minuscola isola di speranza, per questo ha risposto. Con le ultime forze, con l’ultima lucidità che gli rimane, supplica l’essere: “Ucc..idi…mi. Ttti… p…prego.”

L’altro, già assorto in nuovi pensieri, non gli bada, lo lascia andare, cadere a terra. Gli volta le spalle.

Il soldato non lo sapeva, ma il suo istinto di guerra si era sbagliato.

Quello non era il suo ultimo giorno di vita. Era il primo giorno della sua non-vita.

Il popolo spezzato

Cap. I

Il ritmo lento degli zoccoli del cavallo, sulle pietre piatte del sentiero, sottolineava lo scorrere dei pensieri del suo cavaliere.

Non erano pensieri allegri, tanto per cambiare.  Non esisteva sollievo, non c’era idea o immagine che si volgesse in positivo.

Quelle foreste scure e quelle colline aspre, che un tempo trovava selvagge e rilassanti, ora gli parevano cupe e incombenti.  L’aria era troppo fredda e pungente, così diversa dal calore sensuale delle terre dove era nato. Per quanto cercasse di tenersi lontano dai luoghi maledetti, dal colle del castello devastato, gli pareva che ogni soffio di quel vento portasse l’odore di lontana morte, di terrore, di inumani poteri incontrollabili e senza riscatto. 

Ogni giorno era peggio. Persino quelle passeggiate a cavallo, che un tempo significavano rilassamento, tranquilla solitudine, sollievo dalle incombenze e pensieri in libertà senza nessuno che lo guardasse e lo giudicasse, non facevano ora che accentuare il suo amaro rimuginare, privo di speranze e soluzioni.

Eppure un estraneo, incontrato per caso, mai avrebbe potuto credere a tanta disperazione, osservando la ricca gualdrappa dell’animale con simboli dorati intrecciati e lo stemma della casata, il portamento ancora fiero dell’uomo in sella e i suoi panni di cuoio morbido e velluto fino. Un uomo ricco, un uomo nobile. Sicuramente senza un pensiero al mondo, beato lui.

Deter signore di Foos. Suonava bene, no?

Certo meglio di Deter di Cromia, figlio di Ioraim, avanzo delle case di piacere, mercenario, giocatore, tagliagole, schiavo per debiti, spia della Regola e molte altre nefandezze ancora.

Avrebbe però potuto spiegare in ogni dettaglio, all’estraneo incontrato per caso, quanto sia più amara e insopportabile la disperazione, che arrivi dopo aver provato il colmo della felicità.

Sarebbe stato meglio morire in battaglia, nelle allucinanti terre dei maghi, persino nelle segrete della Regola, piuttosto di toccare il cielo per un solo istante e poi ripiombare schiacciato al suolo.

Aver ottenuto stabilità, ricchezza, possedimenti, titolo nobiliare, la donna che amava più di ogni cosa, si era rivelato ben presto una pura illusione vuota.

C’erano stati bei momenti, in principio. Tutto era nuovo e luccicante, quell’amore incredibile che avevano saputo ritagliarsi due creature maledette dalla vita bastava a riempire le giornate e le notti. I lussi e il buon cibo quasi passavano in secondo piano.

Ma era durato poco. I colpi alla loro felicità erano arrivati uno dopo l’altro, in successione.

Primo, Venja non poteva avere figli. Non c’era da meravigliarsene, a posteriori.  Era stata pura illusione: logica e buon senso suggerivano che un eleroth, il più potente degli Abomini mai esistiti, non potesse procreare, anche senza bisogno di scomodare divieti o maledizioni della Regola.

Sarebbe stato sopportabile di per sé, anche se Venja desiderava spasmodicamente dei figli e una vita che somigliasse a quella delle creature normali, se non si fossero aggiunti altri fallimenti, in ogni suo buon proposito. La ragazza aveva scoperto ben presto che per quanto tentasse, si concentrasse, cercasse in sé le forze, l’oscuro potere che si agitava da qualche parte, in fondo al suo animo mite, non poteva essere volto al bene, in alcun modo.

Il castello maledetto restava tale, una distesa di rovine brulla e devastata, su cui non crescevano neppure i rovi: l’antica dimora della sua casata, dove quella stessa forza oscura aveva spazzato via ogni cosa, mura ed esseri viventi, dai suoi parenti con le loro famiglie, agli incolpevoli servitori, al più piccolo animale da cortile.

Un peso insopportabile, un rimorso atroce per l’anima di Venja, che rivedeva continuamente gli occhi accusatori della Voce della Regola, quando si era trovata di fronte quella devastazione, comprendendone l’orrore. Né aveva avuto maggior successo nel proteggere i propri possedimenti dalle Ferite inferte dalla magia deviata. Il proposito di cancellare le ombre dalle terre di Foos, risanarle e tornare a farle prosperare, era destinato a rimanere sogno.

Non poteva diventare una sorta di Sanatore con poteri accresciuti. No. Lei era solo inquietudine, rabbia trattenuta nel profondo, malessere. 

Un Abominio, insomma. Maledetta e lontana da tutti gli esseri umani.

Così si ripeteva, per quanto Deter cercasse disperatamente di consolarla, di ricordarle che le colpe sono un’altra cosa, sono quel che si fa o non si fa coscientemente nella vita, le proprie azioni, non il marchio della nascita. E lei, dopotutto, aveva salvato i Regni e l’equilibrio, portando tutto il peso di quella lotta e contrapponendola a ogni male eventualmente compiuto.  Non le bastava, per trovar pace?

No. Non serviva, non bastava, le parole di lui scorrevano come acqua su pietra.

Venja deperiva, si faceva apatica e assente. Da tempo non dividevano più neppure il letto. Il palazzotto che costituiva la loro dimora era spazzato da venti sempre più gelidi, e il poco che quelle terre ormai maledette riuscivano a produrre, bastava appena per sostentare chi vi abitava. Erano trascorsi così, tristemente, uno dopo l’altro, i loro quindici anni di matrimonio.

A peggiorare le cose, Deter era solo, nella sua lotta, circondato da freddi e sprezzanti estranei.

Non è che gli stanei fossero un popolo facile e amichevole. Gelidi e aspri come le loro terre, quelli del nord, orgogliosi e propensi a giudicare e respingere. La vicinanza e l’incrocio coi confinanti montanari del regno di Krama non aiutava a migliorarli, né certo li rendeva più gentili il fatto di vivere in terre appesantite da lontane maledizioni.

Solo una volta avevano avuto la pessima idea di partecipare, come loro diritto, al consesso dei nobili della loro regione. Ma ne avevano provato un tale imbarazzo, si erano sentiti così spaesati e respinti, la cosa aveva contribuito talmente tanto a peggiorare il morale di Venja, che Deter si era sentito in colpa per averlo proposto. Non avevano ripetuto l’esperienza.

Dunque avevano rapporti minimamente formali con i vicini, vassalli e abitanti dei villaggi, permeati da distanza e cautela, o da soggezione mista a disagio, secondo i casi. Niente poteva suscitare maggiore apertura e benevolenza, nessuna parola o azione, per quanto avessero tentato.

Venja era guardata con sospetto e inquietudine, come un essere potenzialmente negativo. Ma almeno, rispettata.

Deter invece era oggetto di disprezzo neanche tanto velato, per le sue origini e la provenienza da Cromia, imbelle regno del sud, per l’immeritata ascesa, il suo vivere all’ombra della moglie senza riuscire ad affiancarla come si conveniva.

Lo stato in cui lei si trovava, le sofferenze evidenti che manifestava, avevano peggiorato ulteriormente il giudizio negativo, ripercuotendosi su di lui, evidentemente un buono a nulla, incapace di renderla felice.

Era circondato, assalito da quel disprezzo a ogni suo passo, persino fra le mura domestiche, dove servitori e soldati gli facevano continuamente capire come pesasse loro dover obbedire ai suoi ordini.

Punirli? E a che pro? Lo aveva fatto, qualche volta, ma non solo non era riuscito a suscitare maggior rispetto, ma neppure a farsi temere, coi puniti che ostentavano i segni delle scudisciate come medaglie, fra i loro compagni.

Così, aveva deciso di lasciar perdere. Come per molte altre cose. Nessuno pareva ricordare la grande parte, la parte fondamentale che lui aveva avuto nell’impedire che il potere oscuro di Venja distruggesse tutto, nel ricordarle la sua vera missione e fargliela compiere.  Del resto, lui per primo mai si era dato troppo peso per questo.

Poteva peggiorare ulteriormente, una situazione così priva di vie d’uscita e segnali di speranza? Poteva, e lo aveva fatto, sotto forma di misteriosi emissari della Regola che si erano presentati a parlare con Venja, chiedendo di incontrarla da sola.

Era stato un lungo colloquio, al termine del quale lei era parsa trasformarsi, riscuotersi. Ma era stata l’illusione di un attimo: in realtà si trattava solo di eccitazione febbrile, di una inquietudine altrettanto preoccupante della precedente apatia.

Non c’era stato verso di farle dire una sola parola sull’oggetto di quel colloquio, né con richieste, né con suppliche, né persino con minacce, per quanto Deter potesse essere credibile nel minacciare la creatura che venerava.

Gli emissari erano anche ritornati altre volte. Deter rimpiangeva di non avere il coraggio sufficiente per cacciarli via. 

Ancora lunghi colloqui misteriosi, e Venja sempre più assorta, lo sguardo di una ossessa, preda di momenti di eccitazione frenetica e altri di contemplazione del vuoto.

In tutto questo assedio da sostenere sulle sue misere spalle, in realtà Deter un supporto l’avrebbe avuto: Siastra, sua antica compagna di sventure e ora capo della guardia. Con lei poteva confidarsi senza reticenze, essere ascoltato, ricevere qualche consiglio, per quel che potevano valere.

Siastra era come lui, inerme e impotente di fronte a ciò che li circondava. Negli ultimi tempi però anche lei era apparsa stranita, cambiata.

Nonostante fosse benvoluta dalla guardia, se non altro per le sue doti militari di scuola farni, almeno quanto lui, Deter, ne era invece odiato, qualche soldato si era premurato ugualmente di fargli sapere che si era data al bere, anche in servizio. E parecchio.

Ed ecco che il rimuginare snocciolando tutte le sue disgrazie, una per una, era compiuto. Il ritmo cadenzato degli zoccoli era sempre più deprimente, lo stesso cavallo avanzava scuotendo ogni tanto la testa, come coinvolto in quella funerea atmosfera.

Ragionare, rimuginare, riflettere, come previsto non aveva portato ad alcun risultato, alcuna soluzione.

Rimaneva da rievocare l’ultimo colloquio con Venja, quello in cui s’erano alternate speranze per il suo aprirsi, rispondergli finalmente, invece di rifiutare ogni dialogo. E disperazione, per ciò che quelle pur minime, insignificanti aperture lasciavano intuire. Il colloquio al termine del quale era salito a cavallo, prima galoppando come un disperato lungo i sentieri dei boschi, poi, lasciando riposare l’animale, sulla via del ritorno, in quel mogio trotterellare. Ripensò a quell’incontro, a quei discorsi, parola per parola.

- Il signore di Foos sta arrivando.

Quanto detestava quelle grottesche formalità, un servitore tenuto ad annunciare il suo arrivo nelle stanze della moglie.

Venja aveva voltato appena la testa, quando lui era entrato. Stava seduta nella solita poltrona, accanto alla finestra, come faceva per ore, per giorni, contemplando sempre lo stesso paesaggio: il bosco cupo, la collina devastata in lontananza.

Quando avevano riadattato quel palazzotto abbandonato a loro dimora, lei aveva insistito perché una finestra delle sue stanze desse proprio su quello spettacolo deprimente. Per ricordarle cosa aveva fatto, diceva.

Per un attimo, lo sguardo, l’atteggiamento di lei gli avevano tristemente ricordato la Venja di un tempo, la ragazzina chiusa in se stessa, picchiata e violentata dal suo padrone Zoern.  Come troppo spesso, in quegli ultimi tempi.

Poi, le labbra di sua moglie si erano stirate in un pallido sorriso, e questo gli aveva dato una lieve speranza, quasi dolorosa in un cuore ormai abituato al gelo.

Aveva cercato di mettere nella sua voce, nel suo atteggiamento tutte le antiche arti un tempo imparate per sedurre. Ora gli sarebbe bastato ottenere molto meno.

- Come stai, mia signora?

- Meglio oggi. Ti ringrazio.

- Non gradiresti uscire? Prendere un po’ d’aria? Fare una passeggiata a piedi o a cavallo, con me? Mi darebbe un immenso piacere.

Lei aveva esitato.  Di solito non lo faceva, di solito declinava subito l’invito. Si era aggrappato a quell’attimo.

Poi Venja aveva scosso la testa. Ma per addolcire il rifiuto, aveva posato una mano sul suo braccio.

Com’era fredda, quella mano. L’aveva afferrata, tentato di scaldarla fra le sue, osservando preoccupato le tende bianche e sottili che sventolavano come bandiere.

- Stai prendendo troppa aria, mia signora. Potresti spostarti da qui, almeno ripararti meglio.  Non vorresti scendere nel salone? Potrei chiamare i musici, chiedere che ti distraggano con qualche melodia. O i lettori, se preferisci. Un bel poema di quelli antichi, le gesta dei regnanti e gli amori… quello che vuoi, quello che desideri, ma ti prego, esci da questa stanza.

Lei aveva delicatamente sfilato la mano dalle sue. Gli aveva carezzato il viso.

- Povero, caro Deter.  Vorrei poterti accontentare. Davvero. Ma non c’è un luogo a cui appartenga più di questo. Non c’è posto dove mi senta più tranquilla. Non c’è musica o poema che mi possa distogliere. Non so come fartelo capire. Ti prometto che scenderò per cena, una di queste sere, va bene? E che mi sforzerò di mangiare. Per te.

Era un ben misero risultato, e insieme, quasi un congedo. Deter aveva preso forza, deciso a non desistere.

- Vorrei poter fare di più. Dovrei fare di più. Perché non me lo permetti? Non vale quello che abbiamo già passato? Non vale niente il legame fra noi? Ricordi cosa ti dissi? Che sarei stato al tuo fianco, sempre. Che avremmo affrontato insieme qualsiasi cosa.

Gli occhi di lei erano un misto di fissa vacuità e di totale consapevolezza. Quello sguardo aveva dato un senso profondo alle sue parole, da procurargli i brividi nella schiena.

- E ti ricordi – aveva replicato Venja – cosa ti avevo detto io? Che ero ancora un Abominio, che lo sarei stata per sempre, che sentivo sempre la stessa inquietudine dentro. Non è qualcosa a cui tu possa rimediare, purtroppo. Nessuno può farlo. Neppure io. Posso solo accettare il mio destino, per soffrirne meno.

Uno spiraglio. Misero, ma era uno spiraglio. Accettare il suo destino.

- Che vuol dire, accettare il tuo destino? Perché non mi permetti almeno di condividere la consapevolezza, di aiutarti a portare il peso? Non sono degno neppure di questo, di una misera confidenza? Sono proprio un uomo da nulla, per te. Hanno ragione tutti, a pensarlo.

Un imprevisto scatto di collera era stato il risultato. Venja era scattata in piedi.

- Non dire così! Non sopporto quando ti sminuisci. Quello di cui parli non ha niente a che vedere con te, niente con noi. Sono enormità ben più grandi, e non si possono ridurre a discorsi da salotto.

Si era finto irritato a sua volta.

- Ti sembro tipo da salotto? Da convenevoli? Parliamoci chiaro, Venja.  Non è giusto che tu mi tenga all’oscuro dei tuoi colloqui con la Regola.  Come posso non sentirmi sminuito, se mia moglie per prima mi tratta come se non esistessi e non contassi niente?

Era la stanca eco di dialoghi troppe volte ripetuti, Deter ne aveva la nausea. Litigate improvvise e brevi a interrompere giornate di sorrisi distanti, finta soavità nella più totale freddezza.

Ma stavolta l’evoluzione era stata leggermente diversa. Invece di chiudersi in un ostinato mutismo, lei si era sfregata la fronte con la mano, e aveva sospirato, risedendosi.

- Tu non sai quel che chiedi. Non sai quel che dici.

Si era inginocchiato ai suoi piedi.

- Ti prego. Posso sopportare qualsiasi cosa, persino la rivelazione più terribile. Ma non i tuoi silenzi, non la tua indifferenza.

- Puoi sopportare? Davvero? – Venja si era fatta di colpo beffarda.  – E credi davvero che servirebbe a qualcosa, vederti sopportare, se non a farmi stare peggio?   Credi che essere messa su questa specie di piedistallo di angoscia da parte tua, sia quanto di meglio un marito possa fare? No, Deter, la verità, l’amara verità, è che noi non possiamo stare insieme, essere come tutti gli altri. Non credere dipenda solo da me. Sei mai stato veramente al mio fianco, un marito solido, un appoggio, un uomo concreto, una figura di riferimento? No, alterni queste insopportabili suppliche all’autocommiserazione, al trattarti tu stesso come gli altri ti trattano, a fare la persona da nulla. Non è questo di cui avrei bisogno.

Deter aveva accusato il colpo. Ferito nel profondo, era rimasto in silenzio. Solo dopo un po’ di tempo era riuscito a replicare, amareggiato: -Allora, fammi capire: se io fossi questo marito che dici, solido e forte, imperturbabile, impassibile di fronte a una moglie che soffre e si consuma senza che se ne capisca la causa, se lo fossi, dimmi, ti confideresti con me?  Mi riveleresti quali oscuri piani e raggiri ha in mente la Regola per te? Mi permetteresti di combatterla? Se vuoi vedermi respingerli, allontanarli da te, e finire i miei giorni in qualche segreta lo farei, guarda. Lo farei senza esitare, se servisse.

Venja aveva sospirato e scosso la testa.

- Non intendevo dire quello che ho detto. Perdonami. Non disprezzo il tuo amore né quello che vorresti fare per me. È che siamo… diversi.  Non potrei confidarmi con te. Non potrei neppure trovare le parole. Sarebbe più facile per me parlare con quell’essere d’ombra che ho conosciuto a Inesistenza, anche se appartiene a un altro mondo e a un altro popolo, che con te.

Deter si era inalberato per una lontana gelosia mai sopita.

- Dunque ci pensi ancora. Dunque è una immagine dei tuoi sogni. Che hai rivisto. È questo, che non vuoi dirmi?

Lei aveva di nuovo scosso la testa.

- Parli del nulla. Di ciò che non esiste.  Parliamo di cose reali, piuttosto: credi che io non mi senta ferita da tutto questo tuo distante rispetto, dal vedere che non riesci mai a parlare con me in confidenza, da pari a pari, da sposo, senza inutile ossequio, mentre ci riesci benissimo con Siastra?

Era una prospettiva completamente diversa e nuova. Venja gelosa di Siastra?

- Io vorrei – aveva balbettato Deter – vorrei riuscirci anche con te. Più che con chiunque altro. Siastra è solo l’unica amicizia che ho. Forse perché abbiamo condiviso tanto, forse perché anche lei è poca cosa, come me, è rozza, è simile a me.

Si era pentito dell’ultima frase, perché Venja aveva annuito, trovando conferma a quanto affermava.

- Simile. Proprio così. Mentre io sono diversa, diversa da tutti. Anche da te. Rassegnati, Deter. Non c’è niente che tu possa dire o fare. Non c’è più niente, per noi.  Anche se – aveva esitato un istante – so che ti amo, in qualche modo. O almeno, che avrei voluto amarti.  Ma questo non cambia ciò che è e che dev’essere.

Non c’è più niente per noi.

Si accorse che il cavallo, da solo, aveva accelerato il trotto. Ma certo, erano in vista delle mura di cinta del palazzo. Una guardia gli aprì il pesante portone, esibendosi nel più rigido e minimo saluto formale.

Si addentrò nei cortili. Intravide solo pochi servitori indaffarati a far la spola fra magazzini e cucine.  Lo spiazzo polveroso dove le guardie si addestravano era deserto, nessun soldato in giro.

Dirigendosi verso le scuderie, vide Siastra, seduta sotto un portico accanto alle stalle.

La conferma delle voci peggiori: avrebbe dovuto essere in servizio in quel momento, a stabilire i turni di guardia, ad ascoltare i rapporti e a dirigere esercitazioni.  Invece, stravaccata sul sedile, con la divisa slacciata, teneva in mano un boccale. Non tentò neppure di nasconderlo, anzi, lo innalzò al suo passaggio, in segno di saluto.

- Mio signore! Bentornato. Vorrei offrirti da bere, ma a meno che tu non intenda servirti dalla mia stessa caraffa come ai vecchi tempi, temo di non avere qui una delle vostre coppe pregiate da nobili.

La voce non era molto impastata. Del resto, la farni reggeva benissimo il vino. Ma questo non era un’attenuante.

Lui scese lentamente da cavallo, legando poi le redini a una staffa del pilastro e pensando a come avrebbe dovuto comportarsi. Una dura reprimenda sarebbe stata poco credibile. Ma se qualcuno li avesse osservati, un minimo di autorità, o almeno fingerla…

- Non dovresti comportarti così. Sei il capo delle guardie, sei in servizio. Potresti mettere in pericolo tutti noi, è questo che vuoi? Vuoi costringermi a punirti?

- Mio signore, mi scuso infinitamente. Non ci sarà alcun pericolo, nossignore, sono vigile e attenta. Tornerò subito ai miei doveri, e se vuoi punirmi lo accetterò col sorriso sulle labbra. Davvero. Sicuro. Non un fiato, me lo merito. Ecco.

Tentò di alzarsi, ma evidentemente non è che reggesse poi così bene, perché rischiò di scivolare a terra. Deter fu costretto ad afferrarla, e rialzarla. Il suo fiato sapeva di vino.

- Mi stai rendendo ridicolo – sibilò al suo orecchio. – Ci stiamo rendendo ridicoli. Mi vuoi dire cosa ti prende?

Imprevedibilmente, lo sguardo di lei ridivenne lucido, con quella brusca capacità da soldato di riprendersi in un attimo. Lo fissò inquisitoria.

- Prima tu, mio signore.  Basta guardarti per capire che hai più preoccupazioni del solito.  Non avrai bisogno di parlarne?

Deter si sedette, anzi, si afflosciò sulla panca. Siastra si risedette al suo fianco.

- Dammi quel boccale, se non te lo sei già scolato tutto. 

Deter bevve una lunga sorsata. Era molto tempo che aveva smesso di cercare rifugio nell’alcol. Gli sembrava che lo sminuisse, che lo rendesse rozzo agli occhi di Venja, indegno di lei.

Venja. Una fitta, e un’altra sorsata.  Il vino aveva un senso, dopotutto.

Il largo sorriso ironico di Siastra lo lasciò indifferente.  Lei non era in grado di offenderlo o di ferirlo.

- Attento, mio signore. Ciò è disdicevole. Bere insieme a una tua sottoposta, in questo modo.

- Piantala. E non chiamarmi più mio signore, mi dai sui nervi. Mi hai sempre chiamato Deter.

- E va bene. Allora, vuoi dirmi cosa c’è di nuovo, Deter?

Inaspettatamente, anche se molto di rado, la voce roca da soldataccio di Siastra sapeva assumere un tono confidenziale e femminile, quasi sensuale, persino ora che non era più una ragazza appetibile, ma una quadrata donna di mezza età.

Ma non c’era bisogno di incoraggiamenti. Deter era più che disposto a sfogarsi con lei, un fiume gonfio d’ansia.

Le raccontò l’ultimo colloquio con Venja, parola per parola, non omettendo neppure il suo accenno di gelosia.

Siastra aggrottò la fronte, annuì lentamente.  

- È comprensibile, dopotutto.  Lei vorrebbe essere come tutti gli altri, scherzare, ridere, comportarsi in modo spensierato, senza dover mantenere un contegno e senza tutto quel forzato distacco. Non è gelosia, Deter: è invidia. Persino due poveracci come noi, con tutto il rispetto, mio signore, le sembra abbiano un destino migliore del suo.

- Mi sei di grande conforto – replicò Deter, amaramente ironico.

- Ma non c’entri tu! È solo qualcosa di inevitabile, è la sua natura, non c’è niente da fare, e non puoi covare tutti questi sensi di colpa. Però, “accettare il mio destino” forse vuol dire qualcosa.

- Già. L’ho pensato anch’io, e penso anche che c’entrino quei maledetti della Regola.  Vorranno trasformarla in una dannata Sospesa, come sua madre, e ci stanno anche riuscendo. Senza che io possa farci niente.

- Aspetta – cercò di incoraggiarlo Siastra.  – Questa volta si è aperta un po’ di più, ha avuto esitazioni, ha rivelato il suo lato umano. Forse non tutto è perduto. Forse si confiderà, se avrai ancora un po’ di pazienza. Aiutala a lottare contro qualsiasi cosa la minacci, non badare se ti respinge, non arrenderti ora.

Deter si sentiva molto stanco di rimuginare, non aveva più alcuna voglia di parlare di quell’argomento, né traeva conforto dalle parole di lei. Cambiò discorso, all’improvviso, ricordandosi dello strano atteggiamento di Siastra.

- Queste cose le sappiamo, ce le siamo dette tante volte. Piuttosto, dimmi di te, adesso. Cosa ti porta a bere? Quali fantasmi ti tormentano?

L’effetto fu brusco, inaspettato. Siastra iniziò a tremare come una foglia.

- Come… lo sai? – balbettò.

Deter ne fu spiazzato.

- Sapere cosa?

Lei bevve un lungo sorso, rischiando di strozzarsi per il singhiozzo.  Si ripulì la bocca col dorso della mano, ebbe un ultimo brivido più violento degli altri e posò il boccale.

- Sono proprio fantasmi, Deter, a tormentarmi. Anzi, uno: Linedhr.

«Non guardarmi come se fossi pazza.  Ti assicuro che non lo sono, anche se di questo passo lo diventerò presto.

Si alzò, uscì dal riparo del portico, si addossò a un pilastro, guardando con inquietudine il cielo vicino al tramonto. Cercava di recuperare la calma e di non farsi vedere così sconvolta, ma la sua lotta interiore era evidente. La voce, quando riprese a parlare, era tremante.

- Le prime volte pensavo a un sogno realistico che si ripetesse, quando mi credevo sveglia e invece ero semiaddormentata. Accadeva nelle mie stanze, mi trovavo davanti un’immagine evanescente. Ho cercato di darmi spiegazioni di ogni tipo. Poi ha iniziato a comparirmi davanti in pieno giorno. Nei momenti più impensati. Sempre più spesso. All’improvviso, in piena luce. È difficile da descrivere. Appare quasi trasparente, bianco, ma al tempo stesso riesco a vedere la ferita sul suo petto. Lo squarcio con cui l’ho ucciso. E le mani insanguinate, che si alzano verso di me, come per raggiungermi. Lo sguardo, lo sguardo è quello dell’attimo della sua morte, mentre lo stringevo fra le braccia. E parla. Apre la bocca, sembra voglia dirmi qualcosa, ma non avverto alcun suono, non riesco a leggere le labbra. So che non è una minaccia, lo capisco, non vuole farmi del male. Ma sembra che chieda aiuto, o voglia avvertirmi di un pericolo immane. E questo è altrettanto spaventoso. Anzi, di più.

Si voltò bruscamente verso di lui, il viso contratto dall’angoscia.

- Mi credi folle, vero? Eppure non ho mai creduto ai fantasmi, ho sempre temuto più le minacce reali di quelle irreali, ho conosciuto le segrete della Regola, ho vissuto la purificazione di Farnisia e sono sopravvissuta, ho visto e affrontato di tutto, lui non è certo il primo che ho ucciso, e neanche l’unico amico che abbia tradito.  Ma questa volta non riesco a reggere.

- Non l’hai ucciso tu, Siastra. Non l’hai tradito. Cercavi di salvarlo, è stata la forza che lo possedeva, lo dominava, a gettarlo sulla tua spada. Lo sai.

- Allora perché? Perché mi tormenta così? Sì, è vero: bevo, manco ai miei doveri, le mie giornate sono spezzate. Il vino è l’unica cosa che mi aiuti a sopportare, e insieme, che lo tenga lontano. Non mi appare mai quando sono ubriaca. Vorrei esserlo sempre.

«Perché tutte le peggiori divinità e forze di questo mondo si sono accanite contro di noi, Deter? Perché non ci hanno fatto morire, piuttosto?  Siamo creature insignificanti, non meritavamo tanta attenzione. Perché continuano a tormentarci?

«Dovresti destituirmi da capo delle guardie. Lasciarmi alla mia vergogna. Non ti sono più utile così.

- Siastra, mi fido più di te spaventata e ubriaca, che di uno qualsiasi di questi spocchiosi buoni a nulla che ci circondano. Non dirlo neanche, resterai al tuo posto. E cercheremo di capire cosa succede, insieme, come abbiamo sempre fatto.

Lo sguardo di lei ora era completamente diverso da come l’avesse mai visto. Così smarrito, inerme, indifeso, confuso, da ricordargli quello di un bambino. Ne provò una strana tenerezza, una comunanza che gli derivava dal suo stesso destino, dal suo stesso smarrimento, più forte di un legame familiare.

Uscì dall’ombra del portico, e d’istinto la circondò in un abbraccio fraterno, come per proteggerla e cercare umano conforto.

Le bisbigliò parole di comprensione. Lei appoggiò la testa sulla sua spalla, con gratitudine. Anche se non erano da farni, men che meno da soldato farni, le smancerie sentimentali.

Lo sapevano entrambi, senza bisogno di fantasmi o presagi, che altre tempeste, forse persino peggiori di quelle già affrontate, erano all’orizzonte.

Una grande inquietudine si era impadronita di Venja. Gli ultimi messaggi giunti in segreto dalla Regola erano chiari. Era imminente. Doveva tenersi pronta. Sarebbero venuti per lei.

I suoi pensieri erano febbrili e confusi.  Alzarsi dal suo sedile consueto, riscuotersi dal torpore delle visioni senza speranza e camminare per le stanze, avanti e indietro, le fecero ritrovare di colpo un po’ di quella umanità che andava perdendo, un giorno dopo l’altro.

Ripensò all’ultimo colloquio con Deter.  Si rese conto di esserne rimasta colpita, di non poterlo liquidare con la solita indifferenza.

L’imminenza del suo nuovo destino le riportava alla mente istanti del passato, preziosi piccoli ricordi, loro due che ridevano attraversando un ruscello, che si tenevano per mano osservando i lavori del loro palazzo, che progettavano disposizione delle stanze, giardini, recinzioni, alloggi per servi e soldati, scuderie, sentendosi così importanti.

Qualche ozioso pomeriggio di discorsi e silenzi sotto un albero, quando il vento gelido e onnipresente pareva ancora una fresca brezza, da cui un semplice mantello valeva a ripararsi.

Come se si potesse sfuggire al freddo, al freddo vero che strisciava nelle ossa… Rabbrividì, istintivamente, stringendosi nello scialle.

Era stato tanto tempo fa. Eppure, erano stati unici irripetibili attimi felici, e doveva essergliene grata.

Non si meritava forse di saperne di più? – si chiese, all’improvviso. Non l’aveva forse trattato troppo duramente? Erano segreti della Regola, erano oscuri moniti e amare profezie, quelli che gli nascondeva, eppure si erano giurati amore e fedeltà reciproca, un giorno. Aveva degli obblighi verso di lui.  Non poteva scomparire così dalla sua vita. Un piccolo tiepido palpito dell’antica speranza, della gratitudine e della dolcezza, che non era riuscita a diventare veramente amore, si agitava ancora dentro di lei.

Decise che gli avrebbe parlato subito, prima che fosse tardi.  Glielo doveva. Cominciò ad attraversare le stanze, a guardare fuori da ogni finestra, da ogni lato, scrutando i cortili per vedere se fosse rientrato dalla sua passeggiata e farlo chiamare. 

Era rientrato. Vide il suo cavallo, legato davanti al portico delle scuderie.

Ma prima di mandare un servitore a convocarlo, vide anche un’altra cosa, distintamente: lui e Siastra, abbracciati stretti, quasi avvinghiati, davanti al portico.

Abbassò le braccia, lo scialle cadde a terra, lo sguardo ridivenne passivo e indifferente.

Una lettera. Sarebbe bastato scrivere una lettera di congedo.

Lo avrebbe saputo presto, intanto, come tutti gli altri, che il mondo della magia stava per crollare.

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