Continuando in questa carrellata sulle proposte televisive fantasy (beh, più o meno) di stagione, e magari anche un po’ stagionate, non va assolutamente dimenticato che l’estate è il tempo di Maciste, indimenticabile eroe di film che tanti commenti - tra l’ilare e l’irriferibile - scatenavano nel pubblico delle sale “minori”.

Non chiedetevi quanti ne siano stati realizzati, però considerando che tutte le emittenti ne programmano un paio al giorno la riserva deve essere ragguardevole; il bello poi sta nel poterli vedere senza soluzione di continuità o variazioni emotive… anche perché, diciamolo, non è che presentassero tutte queste differenze.

Con encomiabile senso dell’economia, da un film se ne ricavavano due o tre, con abili ritocchi scenici e sottigliezze bizantine: per esempio vestire le comparse davanti come babilonesi (durante gli assalti) e di spalle come vichinghi (durante le ritirate), oppure sostituire i capitelli delle colonne che il polputo eroe scagliava contro i pretoriani.

Proprio a questo proposito è il caso di sfatare una leggenda: la cartapesta, rispetto al travertino, è indubbiamente leggera ma trenta chili di cartapesta sul cranio o sui calli non mi sento di raccomandarli a nessuno.

Il protagonista di queste pellicole era un culturista anonimo con tre espressioni facciali (meravigliato, imbufalito, sotto sforzo) e fasci di muscoli che trasudavano steroidi e creme lucidanti così che, girata la classica scena nel deserto, ne usciva travestito da fettina panata oltre che, si badi bene, pettinato alla perfezione secondo schemi che richiedono, dai tempi di Maciste fino al giorno d’oggi, una schifezza di guardaroba ma acconciatura impeccabile (si sospetta che sia questa la ragione per cui Hulk viene definito “incredibile”).

Le avventure seguivano un rituale fisso e appena improbabile se si avevano più di sette anni: Maciste era sempre “contro” qualcuno, senza restrizioni spazio-storico-temporali, Ciclopi, Conquistadores, Zorro, Totò, Faraoni, Mongoli, Cavernicoli e, nel periodo del declino quando cominciò a perdere terreno nei confronti di altri generi, Torbide Lolite, Dracula e Sartana.

La sua entrata in scena era poco variata ma spettacolare, scardinamento manuale di una pelliccia sintetica di leone o fratture multiple agli sgherri che insidiavano, e non si sa perché insistessero dati gli esiti pietosi dei loro agguati, due procaci fanciulle: la ragazza bona della tribù, semplice ma fiera, cotta di Maciste che naturalmente non se ne accorge (diciamo Margaret Lee) e la fidanzata del principe della tribù (diciamo Alberto Lupo) amico di Maciste, interpretata, a giudicare la sua desolante mancanza di talento, quasi sempre dall’amichetta del produttore.

Il nostro eroe, benché esteta dello sganassone e tecnico del calcio al basso ventre, era armato di spada che, lungi dall’essere usata correttamente, veniva ridotta a mani nude da Maciste in una specie di cavatappi sotto lo sguardo grifagno del consigliere cattivo che più cattivo non si può (la scelta di attori di un certo livello, prostituitisi per sbarcare il lunario, qui è innegabilmente assai ampia ) della regina bona ma perfida (Moira Orfei oppure, se regina degli gnomi, quella stangona di Chelo Alonso, un metro circa di presunta ballerina cubana).

Le prime centodieci tiepide risse introducevano la scena della seduzione: preso e incatenato dopo molteplici traversie – unto da morire, sgusciava via come un salsiccione – Maciste veniva condotto al cospetto della regina che gli offriva una coppa di vino visibilmente drogato che lui, ovviamente, beveva perché solo un alcolizzato miope o un culturista stupido può continuare a fidarsi, film dopo film, di un vino che fuma e gorgoglia come l’Etna.

Il clou della scena era costituito dal dialogo, in cui la regina esordisce esclamando, con accento che nelle intenzioni dello sceneggiatore vorrebbe essere quanto mai chic e nobiliare:

“Maciuiste, tui vueduo turbuatuo (Maciste, ti vedo turbato)…”

Al che lui replica, non prima di aver girato più volte la scena perché il meschino attore continuava a ripetere “Uh?” in risposta al ludibrio cacofonico:

“Ma no (pausa di tensione dovuta allo sforzo mnemonico di non recitare la virgola), mia regina punto esclamativo (niente da fare, stavolta)”.

“Mua suì, tui vueduo turbuatuo duopuo (smorfia satanica rivolta al pubblico) questa cuoppa dui vuinuo… O forse è la passiouone per me che ti turba… Suia come tu desiderui, sarai mio spuoso e cuonsiglierue!” (a questo punto sfumiamo la scena per evitare che il correttore di bozze si metta a piangere).

Lo bacia con trasporto, mentre dietro i tendaggi rossi bordati d’oro il consigliere si morde le mani, non si sa se perché destituito dall’incarico, innamorato segretamente della sovrana o rinchiuso in un set con simili cagnacci.

Segue l’immancabile scena del circo nel quale Maciste, agghindato come un albero di natale e altrettanto espressivo, assiste al martirio degli amici finché viene destato (relativamente parlando) dall’urlo di agonia del fratellino biondo di Margaret Lee, salta nell’arena azzoppando i carnefici (o meglio, considerando il di lei talento recitativo, giustizieri) dell’amata, trattiene con sfoggio muscolare e schizzi di viscido untume i cavalli destinati a squartarlo e viene acclamato dal popolo in rivolta… Fermi lì tutti sulle poltrone, non è finito! Manca l’inseguimento nei meandri del vulcano finto, dove regina e consigliere trascinano le ragazze sbarrando l’apertura con una valanga il cui fragore però, non si sa per quale fenomeno acustico, è puntualmente coperto dal suono della loro macabra risata.

Arriva Maciste spalleggiato dal principe e dal suo vecchio padre - che languiva da quattro film nelle segrete - tempesta di pugni i massi, mettendo in mostra un’impressionante quantità di muscoli sgombera l’accesso, getta il consigliere in pasto ai coccodrilli, la regina nella lava incandescente ed entra nella caverna mentre tutto crolla, inclusa ogni parvenza di credibilità.

Nel finale, sempre identico, Maciste si congedava dal principe declamando, con le manone prosciuttesche posate sulle sue spalle, “Altrove c’è bisogno della mia giustizia, del mio vindice bicipite, addio!” e partiva trotterellando verso nuovi orizzonti di cartapesta, senza Margaret Lee, eterna vedova bianca. Dal che era lecito presumere, stando alle opinioni critiche di un inclito e bene informato pubblico, che almeno uno dei muscoli, a Maciste, non funzionava mai.