Quando i soldati lasciarono libera la creatura nelle stanze di Arenio, lei rimase immobile con il capo chino, senza guardarsi intorno, priva di curiosità e apatica, proprio come qualsiasi Incappucciato, benché lo studio fosse un luogo assai singolare, dagli scaffali colmi di libri e rotoli di pergamena, e con i banconi invasi da oggetti misteriosi che avrebbero suscitato la curiosità di chiunque. Ma Arenio non si scoraggiò.– Hai un nome?Non ebbe risposta.

– Te lo darò io, allora: ti chiamerò Alimar. Io mi chiamo Arenio e sarò il tuo padrone. Dovrai obbedirmi e chiamarmi sempre “mio signore”, oppure “padrone”. Hai capito? – la fissò per rendersi conto se avesse compreso. Ancora nessuna reazione. Allora prese un librone dagli scaffali, lo aprì su un leggio, e iniziò a scrivervi sopra con una penna d’oca.

– Se eseguirai i miei ordini, non sarò un cattivo padrone, e cercherò di tenerti in vita più che posso. Se tu mi servi bene, imparerai da me, e io da te.

Prese in mano una candela accesa, e si avvicinò alla creatura. Questa reagì appena alla fiamma accostata al suo viso, con un lieve tremolio delle palpebre. Ma quando il vecchio, inclinando la candela, fece gocciolare la cera sulle sue mani intrecciate, ebbe un mugolio e scappò in un angolo, rattrappendosi e guaendo come un cucciolo.

– Reagisce al dolore: buon segno – commentò Arenio, prendendone nota. Poi, tornò a rivolgersi alla creatura.

– Vieni qui, non temere. Non ti farò più del male.

Dovette ripetere quell’ordine più volte, ma alla fine l’essere si rialzò, sia pure tremante, e si avvicinò. Forse era un’illusione, ma ad Arenio parve di scorgere un barlume di coscienza, in fondo a quello sguardo biancastro.

– Sarà seccante – pensò a voce alta – se dovrò ricorrere sempre a stimoli dolorosi.

– No – mugolò la creatura con quella voce estraniata che faceva rabbrividire le persone troppo sensibili. – No. No, mio... signore.

Arenio, sorpreso, la scrutò con nuovo interesse.

– Come mi chiamo, io?

– Arenio. Mio... padrone.

– E che nome ti ho dato?

Ci fu un lungo silenzio, poi la creatura sillabò, quasi con dolore: – Alimar.

– Molto bene. Davvero, molto bene.

Scrisse soddisfatto sul suo librone, poi, chiese: – Hai fame? Puoi prendere quello che vuoi dal tavolo.

La creatura non esitò a gettarsi su quegli avanzi. Anche l’appetito era un buon segno: molti Incappucciati si lasciavano morire di fame, fuori dalla loro pianura; altri morivano per malattia, o per i maltrattamenti con cui li si costringeva a imparare; certuni scappavano per tornare a Inesistenza, e pochi sopravvivevano fino a divenire passabili servitori, per i compiti più umili. Però, per i signori, la caccia a quelle creature era un gioco che consisteva nello sfidare il terrore del nulla, nel rischio di perdere dei soldati e di venirne essi stessi inghiottiti. Così si esorcizzava l’incubo perenne di Inesistenza, con il solo ausilio di quei bracciali di spine che procuravano dolore continuo, per mantenersi coscienti. Ma qui, di fronte ad Arenio, c’era un’Incappucciata che sosteneva di essere uscita da sola dalla pianura. Cosa l’aveva spinta? Lei stessa non lo sapeva, nessuno poteva dirlo, solo Arenio l’aveva intuito.

Lo studioso faceva grandi progressi con la sua allieva. In pochi giorni, le aveva insegnato a obbedire ad alcuni semplici comandi, nonché a badare a se stessa, lavandosi, vestendosi, e mangiando in modo meno animalesco.

Dormiva su una stuoia nello studio; spesso, dalla sua camera, la sentiva mugolare e lamentarsi nel sonno, quasi fosse tormentata da incubi senza nome e senza volto, da ombre e da paure primordiali che un tempo anche gli esseri umani avevano conosciuto, prima di riuscire a scacciarle nel profondo delle menti. Far rivivere queste paure, per comprenderle meglio, era uno dei compiti che Arenio si era proposto. Ma doveva essere cauto e paziente.

Dovette ricorrere poche volte al dolore e alle punizioni: Alimar si dimostrava sempre volonterosa e ubbidiente, e se proprio accennava a chiudersi e a regredire, gli bastava minacciarla di rimandarla indietro; anche se non gli piaceva il terrore abissale e inumano che vedeva riflesso in quegli occhi senza luce.

Alimar era diversa da qualsiasi altro Incappucciato; quella creatura, prima e unica, era uscita da sola dalla pianura e vedeva con orrore la possibilità di esserne di nuovo inghiottita. Scoprire la causa dell’anomalia avrebbe potuto aiutarlo a comprendere meglio la malefica influenza di quella nebbiosa palude, e come combatterla.