L’aspirazione della Twentieth Century Fox con Eragon era quella di realizzare un film in cui il drago protagonista, Saphira, diventasse un classico come lo sono diventati i dinosauri di Jurassic Park, sdoganando queste creature dai soliti cliché stra-abusati nel mondo della celluloide.

La Industrial Light & Magic, la società di Steven Spielberg cui è stata affidata gran parte di questo oneroso compito, aveva già, nel proprio carnet, la realizzazione di un drago molto riuscito: l’Ungaro Spinato di Harry Potter e il Calice di Fuoco. In quella situazione, però si era trattato di creare un mero comprimario, quasi un contorno scenografico all’azione. Ben diverso è invece il ruolo esercitato da Saphira, che è un autentico personaggio interagente e comunicante con Eragon durante tutta la vicenda.

La sfida non era facile e se inizialmente gli studios ILM pensavano di potere gestire tutto in proprio, alla fine, alle duecentoquindici sequenze del film realizzate da questa firma, hanno dovuto collaborare anche altre società come Cinesite e CIS Hollywood. A esse vanno poi aggiunte le duecento sequenze del drago in versione notturna, durante la battaglia finale, che hanno dovuto essere affidate alla Weta Digital.

 

La squadra della ILM, capitanata da Samir Hoon e Michael McAlister, ha impiegato sei mesi per ricavare un bozzetto della creatura che fosse in grado di soddisfare esigenze e aspettative. La scelta finale è caduta su un drago dal corpo possente, dalla testa maestosa e dai grandi e femminili occhi blu. A questo stadio, le ali ricalcavano ancora il cliché di quelle dei pipistrelli, ma quando il team ha presentato il bozzetto all’intero studio, alcuni colleghi suggerirono di aggiungere delle piume anche alle ali di Saphira. L’espediente era dettato sulla scia dell’entusiasmo che aveva suscitato la realizzazione dell’angelo di X-Man - The Last Stand, a cui la ILM stava parallelamente lavorando.

Dopo una pronta rielaborazione in questo senso, l’aspetto della creatura differiva già da ogni altro drago mai realizzato al cinema.

 

La sfida successiva è stata la scelta del colore: nel romanzo, Saphira è descritta semplicemente come un drago blu, ma ora si trattava di determinare una gradazione cromatica che non apparisse finta, che fosse luminosa nei toni caldi, ma che al tempo stesso non ‘sbattesse’ violentemente in faccia allo spettatore. E il fatto che in natura non ci siano grandi animali blu a cui ispirarsi ha reso senz’altro più difficili le cose.

 

Il primo modello digitale del drago è stato realizzato usando il classico Maya, un software usatissimo anche nei film di Harry Potter, mentre la sua animazione è stata deputata a RenderMan, un altro tool ampiamente utilizzato nelle pellicole del maghetto. E come già accaduto in Harry Potter a proposito di Fierobecco, ecco affacciarsi subito un serio problema di ‘meccanica’: una ripiegatura delle enormi ali che risultasse convincente e non incorresse in errori di intersezione nella loro geometria. Una questione delicata che ha richiesto accurate calibrazioni.

Ma l’ippogrifo potteriano ha suggerito ai realizzatori degli effetti di Eragon anche il ricorso al medesimo meccanismo robotico usato per le scene in cui Dan Radcliffe cavalca la creatura magica. Alla stessa stregua infatti, il giovane Ed Speelers ha girato le scene in groppa a Saphira.

 

La seconda stagione della vita della draghessa si è aperta nel marzo 2006, quando la Weta Digital è stata chiamata a lavorare sulle scene della battaglia finale, realizzando le sequenze notturne che coinvolgono il mastodonte blu e dando vita ad altri tredici draghi-comparsa. Ben cinque supervisori (George Murphy, Guy Williams, David Clayton, Pete Williams e Kathryn Horton), ciascuno con mansioni specifiche, si sono applicati anima e corpo al progetto.

 

Per l’ambientazione è stata ricostruita in dettaglio, in 3D, la fortezza che nel libro è ospitata all’interno di un cratere vulcanico. Il tutto è stato illuminato da cinquecento luci artificiali, mentre, per aggiungere detriti e sporcizia alle sequenze, si è ricorsi al digitale grazie a un software appositamente creato dal tecnico Weta Chris White.

Ma, una volta definito il panorama, ecco un problema cruciale attinente alla ‘star’ che doveva muoversi al suo interno: una volta calato in un contesto notturno, il drago realizzato da ILM non reggeva, sotto molteplici punti di vista. Per esempio, il blu della creatura, sullo sfondo di un fuoco giallo, la rendeva prevalentemente nera, mentre si coglievano bagliori giallastri nella parte inferiore del suo corpo. Anche la gestualità non si addiceva  sempre alle scene belligeranti cui ora si doveva prestare Saphira e, in particolare, gli occhi e il volto dell’animale rappresentavano un importantissimo punto nodale di cui tener conto per raccordare senza stridori le due versioni, quella diurna e quella notturna, create dalle due differenti società di effettistica.

I tecnici Weta non hanno avuto allora altra scelta che rimodellare il drago filtrandolo attraverso i propri software: il fido Maya è rimasto una costante ma i dettagli sono stati scolpiti con Mudbox, mentre altri tool di proprietà sono stati utilizzati per animare pelle e muscoli. Per armonizzare il drago con l’ambiente, si è ricorsi invece a Nuke, mentre è stato di nuovo il fido RenderMan a prendere in carico i compiti di animazione.

Come si intuisce dunque, un gran lavoro di squadra, al di là di ogni confine nazionale, per dare corpo a una nuova visione del mito che da millenni affascina l’uomo. Se poi la Twentieth Century sia riuscita negli intenti evidenziati in apertura di articolo, è responso che pesa solamente sugli spettatori, che certamente si prodigheranno presto in accalorati commenti.