«Edgardo: serve acqua per il giardino. Ci sono piante e fiori da innaffiare. Dopo l’Ufficio notturno ti recherai al pozzo esterno e provvederai a tra­sportare tutta l’acqua che servirà. Un giovane robusto e forte come te non avrà certo problemi a svolgere questo lavoro entro l’ora di pranzo.»

Con la voce bonaria e leggermente roca del Priore ancora nelle orecchie, appena ebbe finito il primo momento di preghiera comune, Edgardo si diresse senza indugi verso l’attrezzeria, da dove prelevò due vecchi secchi di legno e un paio di guanti in pelle.

Almeno non ti verranno le vesciche a forza di ruotare la manovella, pensò fra sé, rammentando le raccomandazioni del Priore e salutando con un cenno del capo il monaco che gli aveva aperto i portoni del monastero. Era il Maestro degli Ospiti, padre Clemenzio da Whitby, l’elemento più anziano della confraternita che, data la momentanea assenza del Portinario ufficiale, era stato nominato in sua vece.

L’uomo lo squadrò con aria perplessa, forse chiedendosi che cosa portasse un novizio fuori delle mura, armato di secchi e guanti. Edgardo non badò all’espressione interdetta del vecchio: era lì da poco, ma aveva subito capito che le rotelle del povero Clemenzio non soggiornavano tutte all’interno dell’abbazia.

Dio abbia misericordia di lui, rimuginò con un sorriso, inforcando la stradina di pietra che conduceva al bosco. È talmente anziano che non c’è da stupirsi se la testa non gli funziona più a dovere.

Il percorso di lastroni di pietra grezza proseguiva diritto per un centinaio di metri, circondato da ambo i lati da un prato verde perfettamente rasato e privo della minima traccia d’erbacce. Poi, con una dolce svolta a sinistra, si addentrava nella selva che cingeva l’abbazia, quella mattina immersa in un silenzio quasi irreale.

Piuttosto stupito dall’assenza dei suoni tipici di una qualsiasi macchia verde all’incombere dell’estate, Edgardo considerò di non essersi mai av­venturato così lontano dal monastero. Le poche volte che era uscito l’aveva fatto per tagliare e pulire il prato che si era appena lasciato alle spalle, ma non aveva mai messo piede nel bosco.

Il primo pensiero fu la classica curiosità del novizio.

La Regola del Silenzio varrà anche qui fuori? Mah…

Non c’era un vero confine che delimitasse in modo univoco la proprietà dei frati benedettini. Probabilmente, solo in qualche polveroso scantinato degli uffici comunali di Melk erano sepolte le vecchie planimetrie che se­gnavano il termine del territorio sotto la tutela dell’Abate e l’inizio del de­manio cittadino. In ogni caso, però, il pozzo era considerato ancora parte dell’abbazia, anche se Edgardo non ne era completamente sicuro. A scanso d’equivoci, mostrando una buona dose di precoce saggezza, il giovane pre­ferì tenersi la bocca cucita.

“Ascolta!”, seguito da un perentorio punto esclamativo che non alimen­tava dubbi, era il termine con cui esordiva la santa norma benedettina. La Regola del Silenzio era un corollario implicito che, nel tempo, si era affermato come il più inviolabile. Il raccoglimento del frate – o novizio, nel caso di Edgardo – doveva essere assoluto. Ogni cosa che faceva, la faceva nel nome del Signore e le parole sarebbero solo servite a diminuire l’effica­cia del suo operato.

Già da lontano, Edgardo notò che la meta della scampagnata era un comunissimo pozzo. Un muretto circolare alto quanto il suo diametro, pressappoco un metro, chiuso in cima da uno sportello di legno. Sull’in­gombrante incastellatura di metallo che lo sovrastava, piegata a foggia d’ar­co, era posta una massiccia carrucola per la movimentazione del secchio, assicurato alla fune da un pesante gancio arrugginito. La leva per la discesa e la risalita era sul lato destro, vicina al tamburo a cui era riavvolta la corda. Giunto dinnanzi al pozzo, Edgardo posò a terra i secchi e aprì l’imbocca­tura, facendo leva sullo sportello che ruotava su un perno. Con un sonoro cigolio, il pozzo si aprì e il giovane fu investito da una ventata gelida e, al tempo stesso, mefitica.

Puah! Che puzza! Chissà da quanto non viene più nessuno a pescare acqua, si chiese il ragazzo, frenando a stento l’impulso di brontolare qualche improperio a voce alta.

Agganciato un secchio, Edgardo impugnò la leva a due mani e spinse con forza. Il tamburo di ferro era arrugginito come il gancio e lo stesso valeva anche per la manovella. La fune si srotolò a fatica in un concerto di gemiti metallici, come se qualcuno, nascosto chissà dove, stesse torturando a morte una lamiera. Che tutto l’armamentario fosse robusto non c’erano dubbi. Granitica fattura medioevale, intuì Edgardo. Probabilmente, però, era proprio stato all’epoca della sua costruzione che la ferraglia del pozzo aveva visto per l’ultima volta una goccia d’olio.

Ciaff!

Al tonfo sordo del secchio dal fondo del pozzo il giovane invertì la rota­zione, sbuffando e digrignando i denti, infastidito dai lamenti del metallo. Se già la discesa era stata una mezza pena, sollevare il secchio pieno fu per­fino peggio: Edgardo non era un fuscello, ma dovette adoperarsi con più energia di quanto supposto per sollevarlo fino in cima.