Altro che ora di pranzo! Di questo passo sarò fortunato se terminerò per cena, considerò, i gomiti in fiamme già a metà della prima risalita.

Ma quando il secchio oltrepassò il bordo del pozzo, Edgardo comprese che non ce ne sarebbe stata una seconda. Sgranando gli occhi per la sorpre­sa, il novizio rimase a fissare il secchio che oscillava appeso al gancio con un’aria ancora più inebetita di quella intravista nel vecchio Clemenzio da Whitby sul portone.

Con il fiato mozzato in gola e lo sguardo pavido, vacillò, stregato dal dondolio del secchio e, soprattutto, dalla natura del liquido che traboccava ai suoi lati. Sentì in un baleno le gambe farsi molli e la testa che iniziava a vorticare. Senza volerlo, si ritrovò a fissare il fondo del condotto in mat­toni, con la vista appannata per l’emozione e persa nel buio profondo. Un fugace riflesso passeggero attirò la sua attenzione. Rimase a sfavillare soltanto un breve istante, poi scomparve. Ma bastò per gettarlo nella di­sperazione più nera.

Convinto che se non si fosse dato una mossa al più presto sarebbe crol­lato a terra da un momento all’altro, staccò il secchio quasi in trance e, stringendo il manico con entrambe le mani per timore che potesse cadergli a terra, si mise a correre a perdifiato verso l’abbazia. Non sarebbe riuscito a tirarne su un altro, neanche se gliel’avesse ordinato san Benedetto redi­vivo.

Coperto di sudore e pallido come uno straccio, Edgardo da Klagenfurt oltrepassò a rotta di collo il portone che Clemenzio gli aveva gentilmente bloccato con un cuneo. A testa bassa e fiato sempre più corto, non meno scosso che se avesse avuto il diavolo alle costole, si diresse come una furia verso il chiostro, dov’era sicuro di incontrare l’Abate a passeggio, intento a leggere le Sacre Scritture. Quando lo intravide da lontano, la foga di rag­giungerlo gli imbrogliò i passi. Edgardo inciampò goffamente e il secchio si rovesciò a terra e si ruppe.

Impietrito dal panico, il ragazzo non seppe più trattenersi ed esplose.

«Abate Vigard! Abate Vigard! Abateeee!»

Neppure sotto il regno dell’imperatore pazzo Rodolfo II o durante l’or­rore delle guerre napoleoniche, le silenziose mura dell’abbazia di Melk fu­rono sconvolte dalle urla di un monaco o aspirante tale. Neanche quando il dominio nazista confiscò il monastero e la svastica nera fu posta a garrire al centro del cortile principale. Non era mai successo prima d’ora. Mai in un millennio.

Fin quando un novizio, accolto meno di un mese prima, non infranse la Regola del Silenzio con le sue grida isteriche, grida che furono udite da un capo all’altro dell’abbazia. Poche parole, strillate a pieni polmoni, che non potevano essere fraintese, e che raccontavano di un miracolo.

Un miracolo al pozzo.

Gran bell’inizio davvero, per un giorno come tutti gli altri.