Tra i cliché sollevati dal Covid-19, spicca l'affermazione che “stiamo vivendo in una distopia”. La cosa curiosa è che, spesso, chi sostiene questa tesi cerca di illustrarla citando opere che non sono distopie o distopie che mancano di relazioni significative con il presente. Data tale vaghezza, non farebbe male ricordare che la nozione di “distopia” designa un genere letterario e cinematografico caratterizzato dalla critica del modus operandi di civiltà future peggiorative e derivate dal nostro già esitente mondo. Ecco perché la tradizione distopica differisce dalle altre due fatalistiche scuole di fantascienza con le quali viene spesso confusa: l'apocalittica e la post-apocalittica. Sebbene a volte concordino con la distopia, nessuna di esse è di per sé un'ipotetica civiltà in piena attività. La corrente apocalittica riguarda cataclismi ecologici, virus mortali, attacchi extraterrestri, invasioni di zombie, disastri nucleari, asteroidi in rotta di collisione con la Terra e ribellioni robotiche che distruggono la nostra civiltà. Il post-apocalittico, invece, ci parla della brutale guerra per la sopravvivenza dispiegata dopo la caduta, vicina o remota, della società. Alla luce delle demarcazioni indicate, è abbastanza ovvio che l’attuale crisi evochi soprattutto il “luogo cattivo” incarnato da Contagion (Soderbergh, 2011), Virus (Sung-su, 2013) e il resto dei film apocalittici che, con una vocazione realistica, raccontano di minacciose pandemie in grado di sconvolgere e/o annientare il globo. La realtà, però, è che non stiamo vivendo una situazione del genere.

Snowpiercer
Snowpiercer

Quale delle esperienze legate al Covid-19, quindi, può essere rigorosamente bollata come distopica? Secondo me, quelle riguardanti il confinamento. Un gran numero di distopie, infatti, ruota attorno a popolazioni limitate, incarcerate, di solito, all'interno di città murate o spazi chiusi. Da Noi (Zamjatin, 1924) a La fuga di Logan (Anderson, 1976), attraverso Mondo Nuovo (Huxley, 1932), L’uomo che fuggì dal futuro (Lucas, 1971), The World Inside (Silverberg, 1971), Globalia (Rufin, 2004), Aeon Flux (Kusama, 2005), Delirium (Oliver, 2001) o Snowpiercer (Joon-ho, 2013), questo motivo si ripete con insistenza. Il confinamento di cui soffriamo, però, è diverso. Si basa sulle nostre stesse case e porta al reciproco allontanamento: questi dettagli, come vedremo, coincidono solo fino a un certo punto con la prigionia presentata nelle “distopie del sé confinato”, che si collocano, solitamente, in futuri in cui i cittadini vivono in stile “hikikomori”. Sono, cioè, fisicamente separati l'uno dall'altro, senza mai o quasi mai, lasciare le loro stanze private, ambienti altamente automatizzati che fungono da microcosmi autosufficienti. Le Monde tel qu'il sera (Souvestre, 1846) intravede, già secoli fa, il confinamento di sé, scopo principale della “Repubblica degli Interessi Uniti”, regime ultra-capitalista in cui vengono pagati anche i saluti e l’aria. Le case dell’élite, dotate di robot domestici, hanno dispositivi telegrafici, schermi televisivi e canali attraverso i quali arrivano lettere e giornali. Un locale “ideologo del luogo” commenta: “in una casa come questa, nessuno ha bisogno di un altro …

L'uomo che fuggì dal futuro (THX 1138, George Lucas, 1971)
L'uomo che fuggì dal futuro (THX 1138, George Lucas, 1971)

Qualche sforzo in più e la civiltà conquisterà l'isolamento, cioè la libertà. Perché ognuno sarà in grado di rinunciare completamente ai servizi dei propri pari”. La sua aspirazione si avvera in La macchina si ferma (Forster, 1909), ritratto di una civiltà sotterranea che chiude i suoi membri in esclusive “celle”. Le relazioni intersoggettive si esercitano, però, incessantemente, anche se mai di persona, solo attraverso schermi e meccanismi elettronici. Legittimato dalla bufala che l'aria di superficie sia contaminata da mortali sostanze tossiche, l'isolamento biopolitico amministrato dal “Comitato Centrale” impedisce la vicinanza tra i cittadini. Il solo pensiero sembra provocare nausea e angoscia tra i residenti, proprio come l'opzione di lasciare la propria cella, tecno-utero in cui i desideri vengono immediatamente soddisfatti, premendo un apposito pulsante. Kuno, eroe della storia, dichiara che “le persone non si sono mai toccate. Quell'usanza era diventata obsoleta”.

Anni senza fine
Anni senza fine

Con variazioni puntualmente interessanti, i registri de La macchina si ferma riappaiono in Anni senza fine (Simak, 1952), A Very Private Life (Frayn, 1972), Riunione di famiglia (Ballard, 1977), Ora:cle (O´Donnell, 1983 ), La possibilità di un'isola (Houellebecq, 2005) e The Surrogates (Venditti, 2005). The Man Who Awoke (Manning, 1933) e Il sole nudo (Asimov, 1957) meritano una menzione separata: sono titoli in cui il confinamento dell’io trascende i luoghi ristretti e ermetici soggetti all'agorafobia e alla claustrofobia per giungere in territori aperti e immensi. La grave solitudine e la repulsione di avvicinarsi fisicamente agli altri, figuriamoci toccare o essere toccati, però, perdura anche in questi mondi narrativi. “Compagnia? Sei pazzo? È la più grande assurdità”, afferma furente il nativo dell'anno 20.000 al protagonista di The Man Who Awoke. Il sole nudo, invece, dà voce agli abitanti di Solaria, umani che “vivono completamente isolati e non si vedono mai”, tranne attraverso l’uso degli ologrammi.

È chiaro che l'obiettivo principale dei testi esaminati sia denunciare i potenziali impatti alienanti e disciplinari delle tecnologie di comunicazione, accusati di colonizzare il potere politico al fine di sostituire il reale con il virtuale, il naturale con l’artificiale, il corpo carnale con lo spettro digitale, la congiunzione offline con la connessione online, gli affetti qualitativi con le approvazioni quantitative, la conoscenza con i dati. Inutile dire che la figura del soggetto solitario e prigioniero, che trascorre le sue giornate davanti agli schermi per lavorare, intrattenersi, imparare, acquistare o interagire, non sia più fantascienza ormai da decenni.

28 giorni dopo
28 giorni dopo

Negli ultimi mesi, milioni di persone sono diventati sommariamente e forzatamente simili ai soggetti raccontati nelle opere succitate. Le previsioni distopiche si sono, quindi, realizzate? Non proprio.

Dopotutto, la causa è stata un virus. Questo lockdown non è il risultato delle trame maligne di spietati governi totalitari, di tecnologie intrinsecamente disumanizzanti o di altri casi estremi fantascientifici. Questo dettaglio non di poco conto apre gravi discrepanze tra il confinamento effettivo e quello immaginato da La macchina si ferma e dai suoi discendenti. Mentre le distopie speculano su confini permanenti che quasi nessuno aspira ad abbandonare, infatti, noi siamo “vittime” di un confine transitorio che si sta già allentando, indipendentemente dal nostro desiderio (o meno) di rispettarlo. L'eroe distopico è pronto a violare l'isolamento e a fuggire fuori dal controllo dell’autorità. Questo comportamento contraddice ciò che la maggior parte di noi oggi giustamente valuta come “atto di coraggio”, come “atto di solidarietà” nei confronti di una comunità ferita e in pericolo, ad eccezione degli amanti delle teorie della cospirazione e degli ultras sostenitori di Donald Trump.

Margaret Atwood
Margaret Atwood

Per concludere, è chiaro che l'attuale isolamento contrasti, per origine e per contenuto, con quello delle distopie convenzionali. Nonostante le differenze, e contrariamente a quanto sostenuto anche da Margaret Atwood in The Guardian il 16 aprile, penso, però, che sia ancora tecnicamente fattibile etichettare questo momento storico come distopico. Se prendiamo ispirazione dalle meditazioni di Ernst Bloch sulle “utopie mediche”, potremmo concludere che ci troviamo di fronte ad una “distopia medica di confinamento”, alimentata dalla paura globale di contagio, malattia e morte, vicina (ma non troppo) alle produzioni apocalittiche.

Ciò non implica, ovviamente, che questa situazione sia limitata alla salute. Dopotutto, le connotazioni economiche, ideologiche, tecnologiche e sociali inerenti al Covid-19 sono così acute che la minaccia va oltre la sfera medica. Sia come sia, senza il virus, la vita sarebbe trascorsa come in passato. Sicuramente, la distopia medica finirà, prima o poi. La sfida decisiva, e in questo è stata d’accordo con me anche Elisabetta Di Minico (specialista del genere distopico), arriverà più tardi, quando dovremo contrastare la distopia politica di precarietà, discriminazione e mancanza di protezione, sfruttata (e monetizzata) dall'estrema destra, rafforzata dal divisionismo neo-autoritario di diversi governi, causata dal crollo del 2008 e radicalizzatasi a causa della pandemia. Fortunatamente, lo stato d’emergenza ha portato con sé anche il dibattito sul reddito di base universale, le reti di mutuo soccorso, la rivalutazione dei servizi pubblici, la percezione del valore supremo della comunità, l'ampliamento dei sospetti davanti al modello economico neoliberale e la certezza che dobbiamo fermare lo sterminio della biodiversità. Nulla è ancora scritto.

Traduzione di Elisabetta Di Minico