Joan e Larry sono una coppia felicemente sposata da 65 anni. Mentre si dirigono in auto a un gender reveal party di famiglia, una volta arrivati a casa, si imbattono nella foto di Luke, il primo marito di Joan, morto nella guerra di Corea. È un ricordo che riaffiora appena un attimo prima che Larry, colto da una violenta crisi di tosse, muoia soffocato. Al suo risveglio, l’uomo si ritrova in un limbo straniante, un aldilà dai tratti burocratici e surreali dove scopre di avere una settimana di tempo per scegliere la propria eternità. Ad aiutarlo c’è Anna, una guida un po’ bizzarra e oberata di lavoro, che gli spiega che una volta presa una decisione quell’eternità sarà per sempre. Larry vorrebbe aspettare Joan, malata di cancro, e infatti i due riescono a incontrarsi nel limbo; peccato che qualcun altro stia aspettando la donna da tantissimi anni. Luke infatti vuole vivere la vita che non ha potuto avere con la moglie, e Joan si trova costretta a compiere una scelta impossibile tra due amori molto diversi tra loro.
All’apparenza Eternity di David Freyne, scritto insieme a Pat Cunnane e film d’apertura del 43° Torino Film Festival, sembra la solita commedia romantica a tre, con una domanda di fondo piuttosto banale: chi sceglierà la protagonista per condividere l’eternità, tra l’ex belloccio e il simpatico marito? In realtà, già nella messa in scena che strizza l’occhio a Eternal Sunshine di Michel Gondry, il film dimostra di possedere un’idea precisa su cosa vuole essere. Più che nelle tematiche amorose, è nella costruzione del set — con una visione del limbo che ricorda una messa in scena teatrale, il cielo sostituito come fosse una tenda, i ricordi rivissuti in mini-teatri, o i vari aldilà venduti attraverso brochure pubblicitarie — ovvero nella creazione di un originalissimo world-building, che Eternity mostra una notevole originalità. Lo stesso vale per i dialoghi, molto divertenti, che aiutano il film a discostarsi da prodotti analoghi ma decisamente meno curati.
È evidente che ciò che conta in Eternity non è tanto quale sarà la scelta di Joan — tutto sommato abbastanza prevedibile — e neppure la domanda se sia meglio vivere un amore appassionato o quello più rassicurante di una vita, quanto il percorso interiore che la protagonista compie per capire cosa fare. Ciò a cui porta la maturazione della sua scelta è prima di tutto un’interrogazione con sé stessa su quale sia il proprio bene, che poi si traduce sul piano visivo in un viaggio attraverso un mondo fatto di dietro le quinte e intercapedini in cui fuggire. Una rappresentazione dell’aldilà che può apparire buffa sulla carta, ma che al cinema acquisisce la concretezza di un impianto visivo complesso, capace di mescolare passato e presente su piani differenti.
Aiuta anche un cast scelto alla perfezione: Miles Teller, Elizabeth Olsen e Callum Turner formano un buon trio, ma sono soprattutto i personaggi di contorno — prima fra tutte Da’Vine Joy Randolph — a creare quel mix tra cinismo e ironia che dà un tono brillante a tutto il film.

















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