1. Black out

L’aria tiepida di primavera riempiva Tokyo delle note profumate di ciliegi e mandorli.

Infilai in bocca una sigaretta e feci scivolare il pollice sull’accendino, riparando la fiamma con il palmo. Infilai gli auricolari dell’iPod e mi incamminai a passo svelto, una mano nella tasca del chiodo di pelle nera e l’altra a reggere il filtro.

Well I can't get the devil

outside of me, outside of me.

Le luci della città si stavano svegliando, nell’aria imbrunita, e i grattacieli si stagliavano contro il cielo viola di Hibiya. La gente scorreva come un fiume, la musica nelle orecchie ovattava il rumore del traffico.

No I can't get the devil

outside of me, outside of me.

Quando arrivai alla stazione, buttai a terra il mozzicone di sigaretta e lo feci sfrigolare sotto la punta degli anfibi. I binari soprelevati della ferrovia di Hibiya si snodavano sullo sfondo di luci al neon e, sotto le volte scure che reggevano le rotaie, si estendevano a perdita d’occhio chioschi colorati. Un treno sfrecciò, facendo tremare l’aria unta dall’odore degli yakitori di pollo, scompigliandomi il caschetto nero davanti agli occhi.

— Buonasera, Matsumoto —  dissi aprendo la porta di un chiosco.

M’infilai dentro, buttai in un angolo lo zainetto, l’iPod e la giacca di pelle, e strinsi intorno alla vita il grembiule rosso. La musica dei miei auricolari fu sostituita da quella più tradizionale della radio. Allungai una mano e abbassai il volume.

— Buonasera, Yoko.

Matsumoto si asciugò la fronte con un fazzoletto. Mi restituì un sorriso gentile, socchiudendo gli occhi in due mezzelune nere e perfette in mezzo a un viso candido, e riprese ad armeggiare con la griglia rovente.

— Devo parlarti — dissi. Afferrai la carne e la poggiai sul tagliere, in un gesto ormai automatico. — Ho bisogno di fare più ore. Magari potrei venire anche a pranzo.

Il coltello scivolò nella carne rosa, aprendola a metà.

— Sono in ritardo di due mesi sull’affitto — aggiunsi.

Matsumoto mi fissò stupito.

— E lo studio?

— Posso studiare la mattina.

— Ci metti due ore ad arrivare qua, non ti rimane molto tempo.

— Ce la posso fare.

Finii di tagliare il pollo in quadratini regolari e li infilzai negli spiedini. Li appoggiai nel vassoio di fianco alla griglia, quando qualcosa costrinse entrambi a sollevare lo sguardo.

Le immagini degli schermi al plasma che incombevano dai grattacieli si stavano deformando. Al posto di una ragazza sorridente che pubblicizzava un dentifricio, apparve una schermata nera in cui numeri e lettere color smeraldo s’intersecavano tra loro, in un cascata di codici binari. Uno dopo l’altro, tutti gli schermi mostrarono la stessa immagine.

La musica alla radio tremolò, graffiata da un rumore intermittente. Poi si spense e l’intera Tokyo cadde nel buio di un improvviso black out.

— Maledizione – brontolò il capo.

— Aspetta, prendo la torcia…

Armeggiai nel cassetto che avevo di fianco e tastai la forma cilindrica e fredda della torcia elettrica. L’accesi. La stessa cosa fecero i gestori delle altre bancarelle: decine di luci che fluttuavano simili a lucciole, nel bel mezzo dello smog cittadino.

La radio si riaccese poco dopo. Lentamente, le luci di Hibiya tornarono in vita: prima quelle dei lampioni, poi quelle dei chioschi e della soprelevata, infine gli schermi al plasma, con l’immancabile sorriso candido della modella.

— Deve esserci stato un calo di tensione alla centrale — commentò Matsumoto, controllando che gli spiedini nel frattempo non si fossero bruciati.

Un uomo si fece strada tra la folla, che aveva ripreso a scorrere normalmente, e si avvicinò al chiosco. Si sedette sullo sgabello, rischiando di rovinare a terra, e poggiò i gomiti al bancone. Sollevò lo sguardo, corrugando la fronte pallida, madida di sudore.

Io e Matsumoto ci scambiammo un’occhiata eloquente. L’uomo aveva bevuto un po’ troppo. Quando però il suo sguardo incrociò il mio, fui costretta ad abbassare il viso, sopraffatta da una sensazione sgradevole.

— Buonasera — l’uomo parlò con una voce calda, roca, che non aveva nulla del modo in cui un ubriaco biascicava solitamente le parole.

— Buonasera. Spiedini? — chiese Matsumoto, pulendo le mani sul grembiule.

L’uomo annuì e ritornò a fissarmi. Sollevai lo sguardo oltre le ciocche di capelli e lo posai sul tatuaggio che si intravedeva dal colletto della camicia, tenuto fermo da una cravatta blu. Sulle vene pulsanti del collo appariva quella che sembrava la punta di una coda, con le scaglie verde smeraldo che rilucevano sotto la luce traballante del neon. Un drago. Era la Yakuza che, solitamente, portava quel tipo di tatuaggi.

— È la prima volta che metto piede qui… — disse l’uomo.

Lo fissai stupita. Intendeva forse dire che era in un territorio che non gli apparteneva? O che era un turista tatuato in visita a Tokyo?

— La vostra terra mi sembra interessante — aggiunse.

Ebbi un sussulto. I suoi occhi avevano qualcosa di strano. Mi avvicinai: parevano pece liquida. Il bianco della sclera sembrò essere divorato all’improvviso dall’iride, tanto da far sembrare gli occhi due pozzi neri senza fondo, come quelli dei demoni. Sentii palpitare il cuore in gola e affondai il coltello sul tagliere, premendo per sbaglio sul dito.

— Ahi!

Un rivolo di sangue scivolò dal polpastrello sul palmo, disegnando una linea tremolante che arrivò fino al polso.

— Fa vedere — disse l’uomo. Mi afferrò il dito e se lo portò in bocca, assaporandone il sapore ferroso.

Deglutii, ma la lingua strofinò contro il palato secco.

— Non è nulla. Mettici un cerotto — continuò l’uomo, leccando le labbra per raccogliere il sapore del sangue che stava scivolando via. Ancora una volta i suoi occhi divennero completamente neri.

Indietreggiai, urtando contro il mobiletto e feci cadere a terra delle ciotole. Nel retro della bancarella, frugai nella cassetta del pronto soccorso. Trovai un cerotto e lo avvolsi intorno al dito. Quando tornai, l’uomo non c’era più.