Il diavolo

Lui si chiamava Rhug-er Bhar-hid-Amin e veniva dalla terra del Leone di Giuda, vale a dire dalle sorgenti del Nilo, dall’Etiopia, da una terra che già da sempre era contesa tra cristiani, musulmani ed ebrei.

Gli ebrei erano i figli della regina di Saba ed erano quelli venuti per primi, e che per ultimi avrebbero avuto il loro Messia, perché ancora lo stavano ad aspettare. Poi erano venuti i cristiani che erano andati un po’ più avanti, ma avevano scambiato il penultimo dei profeti per un parente dell’Altissimo, neanche l’Altissimo figliasse come un cammelliere.

E finalmente la Verità, il Profeta, il Popolo dei Credenti.

Loro.

E quando si era sparsa la voce della Guerra Santa che tutti avrebbe ricondotto alla vera Fede e al vero Profeta, i guerrieri migliori avevano lasciato i villaggi in festa e le madri piangenti e se ne erano andati a raggiungere le armate, attraverso deserti interminabili e impenetrabili paludi che già li avevano decimati molto prima che il mar Mediterraneo si arrivasse a vedere. E forse fu quello il motivo: erano arrivati a metà, quando gli altri stavano in guerra da anni.

Gli altri stavano in guerra da anni e stando in guerra già di morti ammazzati ne avevano visti a cataste: cataste di morti, cataste di mani tagliate, cataste di teste mozzate, infiniti eserciti di vermi nelle orbite vuote, infiniti eserciti di mosche sul sangue rappreso. La guerra era durata tanto che neanche più si ricordavano di quando i morti gli ripugnavano, quando la sofferenza altrui non era un divertimento, ma un dolore.

Perché quel periodo c’era stato: in tutti gli eserciti, anche i più immondi, c’è uno spazio di pietà, all’inizio, prima che l’abitudine abbrutisca fino alle ultime molecole dello spirito e le atrocità diventino un passatempo.

Tanto più l’armata è costituita da figli non amati, da figli partoriti e cresciuti solo per diventare guerrieri, lanciati poi nel mondo come sassate, tanto più questo periodo di pietà è breve, piccolo, limitato come un battito d’ali, come un sussulto lieve. I figli non amati possono essere formidabili guerrieri, perché non amano la vita, e inneggiano alla morte, non solo a quella dei nemici, ma anche alla loro: la cercano come una liberazione.

Non era questo il caso dell’Etiopia, il regno del Leone di Giuda, dove i figli erano amati, cresciuti come beni inestimabili, pianti come ferite incolmabili quando la malattia veniva a ghermirli, la morte veniva a portarli via.

Lui, Rhug-er Bhar-hid-Amin, non ce l’aveva ancora l’addestramento ai villaggi bruciati, alle donne sventrate, ai bambini usati per colorare di rosso gli scogli e il mare, e oltre all’addestramento era proprio la vocazione che gli mancava.

Nella terra del Leone di Giuda le regole erano altre: ci si affronta tra armati, e mai un guerriero poteva abbassare la sua arma su un inerme, una donna, un contadino o un bambino, mai per nessun motivo, meno che mai se fossero degli infedeli, perché nella terra del Leone di Giuda gli infedeli sono da sempre i vicini di casa, quelli con cui si gioca da bambini.

Lungo tutta la strada fino al Mediterraneo Rhug-er Bharhid-Amin aveva visto morire uno dopo l’altro i suoi fratelli e cugini, uccisi dalle febbri o dagli scorpioni di quel viaggio micidiale, e quando era arrivato al mare sapeva che c’era rimasto solo lui a poter coprire di gloria la sua gente con il suo valore.

Sulla nave dove lo avevano imbarcato lui era quello più scuro, quello venuto da più lontano. Per tutto il tragitto, che era stato di perplessità quando non di scherno, Rhug-er Bhar-hid-Amin, guerriero nero, aveva giurato che si sarebbe coperto di onore, per la sua terra oltre che per la sua fede.

Non fu così.

Alla sua prima battaglia, appena sbarcati dalla nave, in quel villaggio di pescatori dove le onde battevano, lui non eseguì gli ordini, perché gli ordini erano di massacrare a filo di spada gli infedeli.

Vagò come un fantasma tra le urla e il sangue che schizzava, come si vaga nei sogni, anzi negli incubi, fino a quando arrivò davanti a una bambina che cercava di difendere il fratello minore e che teneva in mano una piccola bambola di paglia ritorta, con la testa di terra rossa cotta come i mattoni.

Il bambino stava contro il tronco di un albero di fichi, la bambina gli stava davanti. Con una mano spingeva il corpo del fratello contro l’albero, per allontanarlo il più possibile dal guerriero, con l’altra teneva la bambola. Mentre guardava terrorizzata Rhug-er Bhar-hid-Amin, altissimo, nero, armato fino ai denti, istintivamente, tanto per fare qualcosa, gli offrì la bambola. Fu uno di quei gesti scemi, che uno fa tanto per fare, perché nemmeno un bambino crede veramente che possa funzionare lo scambio di un giocattolo con la possibilità di

sopravvivere, e invece funzionò. Il saraceno la guardò, e uscì dal sogno. Ci pensò un attimo e poi annuì lievemente, appena un accenno, e accettò lo scambio: la bambola contro la salvezza, perché, anche senza una lingua comune, il discorso era stato chiaro. Prese la bambola, se la mise nella bisaccia, poi estrasse la scimitarra, si girò e abbatté il guerriero che gli stava dietro, spaccandogli il cranio come un melone.

Poi affrontò gli altri.

Li fermò.

Con la scimitarra perché altri mezzi non ce n’erano.

Ne abbatté fino a che poté, dando la possibilità alle donne e ai bambini di mettersi in salvo al di là delle colline che li nascosero definitivamente, e poi, quando tutti i vivi erano scappati, lasciò il campo, ancora sul cavallo e senza un graffio, e se ne andò.

Era un grande guerriero.

Per questo lo chiamavano Rhug-er Bhar-hid-Amin il Diavolo.

Cavalcò per ore, cercando il gruppo delle donne e dei bambini per soccorrerlo, proteggerlo e passare il tempo a non pensare alle cose sue. Le cose sue erano terribili. Era diventato in quel suo primo giorno, che avrebbe dovuto essere di onore e di gloria, colui che aveva impugnato le armi contro il suo stesso popolo e la sua stessa fede.

Quel suo primo giorno di battaglia lo aveva sognato per mesi attraverso deserti sterminati, e paludi impenetrabili, sognato come una promessa di gloria e di onore.

In effetti un giorno di gloria era stato. La massima gloria possibile per l’appartenente a qualsiasi armata. Non aver obbedito, non avere creduto, non avere combattuto quando il prezzo sarebbe stato l’anima propria e i bambini altrui.Durante quella sua prima notte da soldato sbandato ed eroe solitario Rhug-er Bhar-hid-Amin il Diavolo non era conscio di tutto quell’onore, altro non era che un ragazzo disperato e solo, con l’impressione di non avere più niente al mondo se non una vita che non valeva un fico.

Vagò solo nel buio di quella notte senza luna, notte che si prolungò, con la sua amarezza, per i giorni a venire.

La sua corazza perse ogni splendore; la buttò alle ortiche, perché il peso era diventato insopportabile al suo corpo affamato e perché con il suo tintinnare gli rendeva ancora più dura la caccia ai sorci che, soli, lo separavano dalla morte per inedia.

La spada gli si spezzò, mentre cercava di accoppare una lucertola che dormiva sopra un sasso. Il sasso si scheggiò. La lucertola riuscì a scappare.

Il suo cavallo si azzoppò e lui lo lasciò libero lungo la via, non avendo il coraggio di abbatterlo e mangiarselo, nonostante la fame che lo attanagliava.

I cani lo cacciavano quando si avvicinava alle case per rubare qualche gallina o un po’ di fagioli.

Per i cristiani era il Nemico, per i suoi compaesani il Traditore.

Non aveva né accampamento né bandiera.

Divenne Rhug-er Bhar-hid-Amin il Reietto, il Cane, Vomito della Terra, Escremento del Mondo.

Un giorno, mentre si trascinava sempre più stanco, stracciato e affamato, incontrò un lebbroso lungo la via, e spaventato corse via. Anche il lebbroso scappò terrorizzato, davanti alla sua statura statuaria e alla sua pelle nera. L’incontro gli dette l’idea.

Trasformò il mantello che aveva ancora in lunghe bende scure, in cui si avvolse lasciando solo una fessura meno spessa agli occhi. La campanella se la fabbricò ritorcendo su se stesso il simbolo del Leone di Giuda che portava al collo da quando era bambino. Imparò a camminare curvo. Si procurò un bastone.

Con quello che gli restava della spada si intagliò una ciotola: era un lavoro che non sapeva fare e infatti si tagliò. Il sangue gli macchiò le bende, già sudice, in cui se ne stava avvolto e questo aumentò il terrore di quelli che incontrava.

Gli tiravano i sassi, ma non chiamavano gli armigeri né aizzavano i cani. Qualcuno, ogni tanto, quasi sempre di nascosto, veniva a buttargli del pane.

Una giovane donna gli portò della focaccia con il cacio e con le olive: gli posò tutto su una pietra e gli parlò in una lingua a lui ignota con le lagrime che le rigavano il suo bel viso.

Un vecchio monaco gli portò per giorni un secchio di acqua pulita perché potesse bere senza chinarsi sul fango delle pozzanghere. Conobbe la carità: l’attimo in cui lo sguardo del soccorritore e del soccorso si incrociano, e fu contento di essere un reietto perché, da figlio di un signore e giovane cavaliere, quella sguardo non avrebbe potuto conoscerlo mai.

Rese lode all’Altissimo per la sua pietà.