D'estate la palude e la foresta erano coperte dalla Vita, essenza densa e appiccicosa, brulicante di zanzare. Le notti erano luminose e insonni. Tutte le stelle affondavano nel pantano lattiginoso del cielo. La mamma diceva che ilDrago Solare giocava con la sua grossa palla e, per mesi, la teneva in bocca senza inghiottirla. 

Bisognava approfittare di quella stagione breve e febbricitante, cercare di afferrarla, di farne tesoro, di immagazzinare la sua energia nella mente, le sue ricchezze nei depositi. Per questo il padre spariva per maggior parte della giornata, tornava carico di selvaggina o di pesci. La madre era impegnata nei suoi lavori tutto il giorno. Le rastrelliere si riempivano di brandelli di carne, di pesci sventrati. Sotto di loro ardevano lentamente le braci.

Al mattino la luce del sole filtrava nella capanna, arricchita del verde smeraldino delle foglie rigogliose di un grande albero. Invitava a fuggir fuori, ed erano pesanti i riti mattutini, i canti modulati della mamma in invocazione delle Potenze, le lunghe benedizioni durante le quale passava il pollice sulla fronte, le guance ed il petto dei ragazzi, disegnando delle complesse volute

con dell'olio che profumava d'erba.

-  Per il cammino nascosto del sole e per quello palese, per la luce dell'astro e per la sua calda tenebra. Lungo il cammino breve e contorto della vita degli uomini...

Con queste le parole Glyrkò la bruna, guaritrice di Keile1, finiva la preghiera che avrebbe protetto i figli. Dopo queste frasi i due fratelli guizzavano via nel bosco, gridando come pazzi. Al loro grido rispondeva il vagito dell'ultimo nato, un esserino frignante e rosso di rabbia di nome Vrecju, che reclamava le attenzioni della madre. 

Levlantjas e Varlada, gemelli come le due divinità solari di cui portavano il nome, e come loro diversi.

Biondo, quasi bianco il primo, dagli occhi di un blu profondo; chiome corvine il secondo, occhi verdi e sfuggenti.

Non ricordavano bene come fosse quand'erano molto piccoli, se anche loro rimanessero attaccati alla madre così tanto, giocando con i suoi seni, se a loro piacesse penzolare per ore nella culla durante le giornate di pioggia,come accadeva a Vrecju.

Ora pensavano che quel bimbo fosse un po' da compatire, perché in confronto alla sua la loro sorte era invidiabile. Vagavano liberamente attorno alla casa giocando e strillando, fuggivano nella foresta quando volevano, per inventarsi giochi sempre nuovi. Erano abilissimi nel costruirsi armi. Armi vere, con la punta di selce, simili a quelle usate dai veri cacciatori, che la madre toglieva dalle loro mani gridando e bruciava nei falò sotto le rastrelliere.

Loro avevano comunque un arsenale segreto, in una grotta nascosta. Poi c'erano i giochi nella palude, nel fango e nel putridume. Ci si immergeva completamente nel pantano e ci si sdraiava al sole perché quella roba si seccasse per ammirarsi l'un l'altro, nelle vesti di statue d'argilla.

Dove lo stagno era più limpido e la sua acqua defluiva in ruscelli gorgoglianti, si faceva a gara a chi rimaneva più a lungo sotto la superficie. Si lottava a lungo tra gli schizzi, la fuga sgusciante delle rane e dei pesci, tra maledizioni infantili e rantoli. Si giocava finché le gambe non diventavano insensibili per l'acqua gelida, coperte di punture, tormentate dalle sanguisughe, fino a quando la pelle dei palmi non diventava bianca, raggrinzita, trasparente.

C'era poi l'ozio senza fine e senza senso, il languore interminato tra l'erba dei prati, dall'odore inebriante, sempre umida, sotto la quale s'avvertiva il respiro gelido del ghiaccio perenne. Ci si lasciava solleticare dagli insetti, il corpo fanciullo brulicava di vita non propria, si faceva terra come quello docile di un cadavere. Gli occhi erano aperti verso il cielo, oppure chiusi nel sole, percorsi dalle immagini delle nubi da quelle strane macchie di luce, che stordiscono e fanno male a fissarle.

Era il momento delle domande. Domande dolorose e strane per due ragazzini di dieci anni. Era Verlë a chiedere, mentre suo fratello Levkò, simulando una saggezza non sua, ripeteva risposte imparate dal padre e dalla madre.

-   Si si... la mamma ha detto così - lo canzonava il fratello - e così ha detto il papà gnagnà gnagnagnà...Tu credi davvero che sappiano tutto del mondo? Che ci vedano sempre, che ci proteggano sempre.... stai a sentire...Ieri sono venuto qui da solo, Levkò. Tu russavi nella capanna, e dormiva anche Vrecju. La mamma aveva chiuso gli occhi anche a me, ma io non ho

dormito a lungo. Mi sono svegliato e nella capanna non c'era nessuno, solo voi due dormiglioni. Allora sono uscito da solo e sono venuto qui su questo prato, a farmi i fatti miei. A un certo punto è passata una grande mandria di renne, guidata da sei uomini della tribù oltre il promontorio, un padre con i suoi cinque figli

Quando mi sono alzato per andarmene, e quelli mi hanno visto sbucare dall'erba, hanno incominciato a strillare come dei pazzi. “E' un silvano! Un silvano! L'erba è avvelenata ora, non si può pascolare qui...” Mi hanno  cacciato via a colpi di pietre... guarda ho ancora i segni addosso. E non sono stato difeso dalla magia di nessuno.

Verle mostrò i suoi lividi come se fossero un trofeo. Levlantjas li osservò

costernato.

- Perché non li hai fatti vedere alla mamma?

- La mamma non c'era a casa. E nemmeno papà. Li ho aspettati fino al tramonto. Si... solo al tramonto sono tornati. Fingevo di dormire e non se ne sono accorti che era una finta. Hanno recitato il loro incantesimo per svegliarmi, come hanno fatto con Vretcne e con te. E per tutta la sera sono rimasti mezzi imbambolati... e non si sono accorti delle mie ferite e... - Varlada scoppiò a piangere per la rabbia - io non ne posso più... Io non io voglio essere un silvano, ma un ragazzo come tutti gli altri.

-  Perché? Noi viviamo in armonia con la natura, nei boschi, e la nostra vita è più lunga di quella degli uomini. Noi siamo diversi.

-  E dobbiamo nasconderci solo perché viviamo più a lungo di altri? Ci sono persone che vivono trent'anni... altre vivono cinquant'anni... ed altre ancora arrivano a cento... eppure i vecchi decrepiti non vengono cacciati i e le loro famiglie non vengono perseguitate.

-  Ma noi siamo dei privilegiati, noi conosciamo più magie degli altri uomini. Per questo facciamo paura...

-  Paura? Faresti paura anche tu, bamboccio? E poi tutta la magia del mondo non ci serve a sfamarci durante l'inverno, a non soffrire il freddo... se vivessimo con tutti gli altri sarebbe meglio. Hai visto gli accampamenti degli uomini? Gli adulti, cacciano in gruppo i ragazzi si organizzano in bande.. e poi ci sono le fanciulle... nessuna fanciulla sposerebbe mai un silvano, Levkò...non c'è niente di bello nell'isolarsi da tutti... Nostra madre un tempo viveva con gli uomini, con i Sovaala...

-  Ma il nostro destino è diverso. Gli dei hanno deciso così.

-  Che ne sappiamo degli dei, noi che non sappiamo neppure da dove veniamo e perché dobbiamo vivere qui, in queste foreste in capo al mondo...

Quando saliamo sul promontorio e guardiamo il mare vediamo bene che alla nostra destra, alla nostra sinistra ci son solo coste desolate, e bisognerebbe navigare per mesi e mesi prima di trovare terre fertili, dal clima mite.

Di fronte a noi, poi c'è solo acqua, e poi, più lontano una distesa infinita di ghiaccio. La vera vita è alle nostre spalle, a sud. I nostri antenati vivevano a sud,dove non esiste inverno, ed erano alti e forti, neri come la terra, da cui prendevano vigore. Ed erano così tanti che parte di loro dovette migrare per nave, prima verso oriente, poi verso nord-ovest. E le loro migrazioni durarono millenni,

così tanto tempo che la loro razza cambiò aspetto, divennero più piccoli, fragili e la loro pelle si fece chiara.

-  Lo so, Verlë, sono le favole che racconta la mamma... Però non è vero che a nord non esiste nulla ti ricordi di quando papà ci ha raccontato dei suoi viaggi per mare? Ti ha mai raccontato di quand'era un capo a cui obbedivano migliaia di uomini? Ha condotto una flotta verso nord. E ha scoperto tante terre, ma erano tutte ghiacciate, allora è tornato in Keile, dove l'estate è mite, e l'inverno ha un inizio ed una fine.

-  Cosa succederebbe, Levkò, se un giorno quelle famose tribù inviassero ancora delle navi per cercare nostro padre? Pensi che noi, Vrecju e la mamma viaggeremo per mare con lui?

- Forse... 

Il padre veniva infine a cercarli, senza fretta, senza disperazione. Appariva all'improvviso, splendido e sereno, sorridente della sua millenaria giovinezza che si rigenerava eternamente come un giorno d'estate senza tramonto e senza aurora. La terra era percorsa da fremiti alla sua avanzata ed un vento di luce muoveva l'aria. 

I due gemelli si voltavano sbuffavano, sentendo i suoi passi e la sua voce. Il gioco era finito. Si doveva tornare a casa.