Gilgamesh cerca l'immortalità

Utnapishtim, il Noè Sumero
Utnapishtim, il Noè Sumero

Gilgamesh è sconvolto dalla morte del compagno, e va alla ricerca dell’immortalità, questa volta fisica, e non solo di fama. Abbandona Uruk e vaga nel deserto finché giunge alla porta in una montagna sorvegliata da creature mostruose che riconoscono in lui l’origine divina e lo lasciano passare. Gilgamesh attraversa l’oscurità del ventre della montagna (simbolo junghiano di iniziazione) e all’uscita si ritrova nello splendido giardino di Shamash dove apprende come attraversare le acque della morte e raggiungere l’antenato Utnapishtim e sua moglie, gli unici umani resi immortali dagli dei per aver superato la prova del diluvio universale, ma destinati a vivere per sempre lontani dal mondo. Il racconto del diluvio è singolarmente simile a quello biblico. Gilgamesh è molto deluso che Utnapishtim non possieda il segreto dell’immortalità, che è un dono degli dei, non ripetibile. L’antenato lo sottopone comunque alla prova del sonno, consistente nel vegliare per sei giorni e sette notti. Il significato di questa prova è oscuro, né viene detto cosa ne ricaverebbe Gilgamesh superandola. Comunque il re di Uruk fallisce la prova, addormentandosi appena si siede. Utnapishtim gli fa un dono prima del viaggio di ritorno: gli indica dove trovare la pianta dell’irrequietezza. La pianta è spinosa e ferisce chi la coglie, ma essa conferisce una ulteriore giovinezza. Se non è l’immortalità poco ci manca. Nelle leggende mesopotamiche compare spesso una pianta che conferisce un surrogato di immortalità. Alcune forniscono la gloria, altre la discendenza, altre una seconda giovinezza. La pianta donata da Utnapishtim a Gilgamesh è di questo terzo tipo.

Durante il viaggio di ritorno a Uruk Gilgamesh fa una sosta in un'oasi lasciando incustodita la pianta magica. Un serpente si avvicina e la divora, perde la pelle e ridiventa giovane.

Gilgamesh è costretto ad accettare il suo destino mortale e tornare a Uruk dove riprende il suo ruolo di re. Altra metafora del percorso di individuazione.

L’ultima tavola della saga, nella versione assira, sembra una aggiunta alle vicende originali sumere e babilonesi. Ha una forte connotazione sapienziale e moralistica e riprende, in altra forma, alcuni dei temi sviluppati in forma poetica nelle prime parti della saga.

I lamenti delle vedove di Uruk fanno cadere il pukku (il tamburo) e il mekku (bastone di comando)

agli inferi. Enkidu si accolla il compito di recuperarli ma infrange i tabù del mondo sotterraneo e vi viene intrappolato. I tabù sono:

un vestito puro non devi indossare;

altrimenti essi (i morti) riconosceranno che tu là sei uno straniero.

Non devi spalmarti con unguento prezioso,

altrimenti essi sentendo il tuo profumo si assembreranno attorno a te!

Non devi gettare negli Inferi il bastone da lancio,

altrimenti ti circonderanno quelli che sono stati uccisi dal bastone

Non devi prendere uno scettro nelle tue mani,

altrimenti tremeranno davanti a te gli spiriti!

Non devi mettere ai tuoi piedi sandali,

tu non devi far rumore negli Inferi!

Tua moglie, l'amata, non devi baciare,

tua moglie, l'odiata, non devi picchiare,

tuo figlio, l'amato, non devi baciare,

tuo figlio, l'odiato, non devi picchiare:

altrimenti il lamento degli Inferi ti intrappolerà.”

Gilgamesh ottiene da Shamash che Nergal, signore dell’oltretomba, liberi Enkidu, ma dall’aldilà torna solo un ombra, che racconta la triste vita delle ombre negli inferi.