“Che aspetti?” Di nuovo il giovanotto. “Su, fatti pagare da quella faccia da forca.”

Soltanto il rumore del vento e della pioggia che imperversavano all’esterno.

“Tira fuori le monete, brutto pelato.”

“Rimettiti a sedere, figliolo”, lo invitò Macba.

“Nient’affatto. Anzi, o paga subito, o gli sputo.”

Il guerriero stava per alzarsi, ma ancora una volta un compagno lo trattenne.

“Tanto non può succedermi niente. Giusto?”

La vecchia spalancò la bocca sdentata.

“Sei o non sei un’indovina?”

Macba non replicò, le mani che artigliavano il tavolo.

E il giovane sputò.

Lo scaracchio centrò la testa pelata.

Liberandosi dalla presa dei compagni, il guerriero balzò in avanti, afferrò il mascalzone per le spalle e lo scaraventò via. Il giovane ruzzolò sull’impiantito e rovinò sul tavolo nell’angolo della locanda.

Il bicchiere di acquavite si rovesciò e cadde, frantumandosi sul pavimento.

Lo straniero si mosse. Con estrema lentezza, si aggiustò il cappuccio sopra la testa e si alzò in piedi. Si girò, gli occhi gelidi piantati in quelli del grosso guerriero. Il silenzio regnò qualche istante. L’uomo in nero scavalcò il giovane e avanzò fino a portarsi a un paio di spanne dal mercenario.

“Ha cominciato lui!” berciò il guerriero. “Che vuoi da me? Io non ho fatto niente.”

Con uno scatto fulmineo, lo straniero afferrò la nuca del pelato e gli sferrò una testata sul naso. Rumore di ossa fracassate e il tonfo del guerriero crollato al suolo. Una lama saettò nell’aria e si piantò nell’occhio di uno dei suoi compagni. Un secondo tonfo sul pavimento.

L’ultimo dei tre, in preda al terrore, si gettò verso l’uscita della locanda. In due balzi raggiunse la porta, la spalancò con una spallata e si lanciò nel buio. Un vento gelido penetrò nel locale piombato nuovamente nel silenzio. Solo lo scroscio della pioggia sferzante, all’esterno. Dentro gli avventori rimasero immobili, gli sguardi fissi sull’uomo dal volto coperto.

A lenti passi, lo straniero andò al bancone.

“Acquavite”, ordinò nel silenzio.

“Non volevo”, piagnucolò il giovanotto. Si rimise a fatica in piedi. “Non pensavo...”

“Taci, demente. Allora, quest’acquavite?”

Benjam riuscì a riscuotersi. A capo chino si affrettò a servire lo straniero. Afferrò la brocca con mani tremanti e versò il distillato. Solo quando ebbe appoggiato il bicchiere sul bancone sollevò la testa... e vide lo straniero in faccia.

Al di sotto degli occhi, un’orrenda deturpazione devastava il suo volto. Una lunga cicatrice che sconvolgeva la simmetria dei lineamenti. La pelle pareva cuoio bruciato. Una voce roca e profonda fuoriuscì dalla bocca distorta.

“Sellami il cavallo, oste. Chissà che quel vigliacco non mi porti dritto al loro covo.” Lo straniero squadrò Benjam. “Legali insieme. Tornerò a prenderli per le taglie... Anzi”, aggiunse con un sogghigno, “portali tu a Giloc. Io sarò anche troppo carico. Ti daranno trenta pezzi d’argento per quello vivo e quindici per il morto. Pagaci i danni e il disturbo.”

L’oste non diede un fiato né accennò a muoversi. Rimase muto a fissare il forestiero, come intontito.

“Allora, oste. Sellami il cavallo per la miseria.”

Benjam spintonò Ulvo, che si precipitò fuori dalla locanda. Lo straniero si voltò verso la sala.

“Fate qualcosa per la vecchia. Mi sa che c’ha tirato le cuoia.”

Nessuno si era accorto che, nel parapiglia, la vecchia Macba era caduta a terra e giaceva inerte.

“Questo non l’aveva indovinato”, ghignò il cacciatore di taglie. Poi scolò il bicchiere d’un fiato e uscì nella notte.